di Andrea Sartori

 

L’improvvisa attualità della pandemia sembra metterci di fronte al mero fatto della nostra mortalità, ovvero alla nostra nuda vita. Da qui – in più di un commento di questi giorni – il ricorso al paradigma biopolitico per rendere conto delle pressanti istanze di controllo a cui la naturalità dei corpi e delle vite pare essere sottoposta.

 

È tuttavia opportuno chiedersi, forse, se questa presunta naturalità dei corpi, della vita – del bíos – di cui la biopolitica è insieme censore e portavoce, sia effettivamente tale, e se i corpi finzionali – quel che immaginiamo della nostra vita – siano veramente altra cosa dalla dimensione naturale in cui ci scopriamo intrappolati e a cui siamo tutto a un tratto condannati (dalle apps che tracceranno i nostri spostamenti al di fuori del recinto di casa, dai droni sopra le città che si metteranno alle nostre calcagna e così via).

 

Una riflessione sull’epistemologia darwiniana della natura dovrebbe chiarire che quel che l’autore del saggio L’origine della specie (1859) intendeva per vita (equivalente nel nostro contesto a bíos) mette in crisi la consistenza della biopolitica come concetto filosofico formulato inizialmente da Michel Foucault e rielaborato – anche da prospettive tra loro divergenti – da Giorgio Agamben e Roberto Esposito.

 

La teoria dell’evoluzione di Darwin, infatti, è anti-essenzialista e anti-dualista, e in essa la vita non è mai separata dalla molteplicità di forme e metafore – ovvero di storie – che gli esseri umani formulano per rendere ragione di essa. Non sempre Darwin è stato letto come andrebbe letto – ovvero nei suoi stessi termini – e questo ha fatto sì che il suo lavoro fosse spesso frainteso. I fatti naturali, per lo scienziato e filosofo britannico, non sono l’esclusivo fondamento della conoscenza e delle organizzazioni sociali, come se quei fatti fossero intelligibili indipendentemente dai linguaggi e delle teorie che approntiamo per farvi luce. Sulla base di un tale fraintendimento, Darwin è stato non di rado rifiutato come un pensatore di destra, conservatore e normativo.

 

L’epistemologia darwiniana, al contrario, è aperta e critica di ogni autorità e/o origine assoluta e indubitabile. Da qui il fondato sospetto che la figura di Darwin sia stata almeno in parte rimossa dal dibattito contemporaneo sulla biopolitica perché il suo approccio decostruttivo alla scienza avrebbe scosso le fondamenta stesse della biopolitica come concetto.

 

Foucault, a cui si deve l’introduzione del concetto di biopolitica in filosofia (Storia della sessualità, vol. I, 1976) oppone la biopolitica all’idea hobbesiana e giuridica di sovranità, e non a caso lega la nascita del biopotere alla fioritura delle scienze biologiche pre-darwiniane nel XVIII secolo. Tuttavia, questo resoconto genealogico dell’apparizione della biopolitica conduce Foucault, in realtà, a sviluppare una nozione onnicomprensiva – e soffocante – di potere, una nozione che in certa misura ricorda ancora la volontà di potenza di Friedrich Nietzsche. Perfino immaginare di resistere al potere, infatti, per Foucault è qualcosa di ambiguamente complice con il potere a cui l’immaginazione s’illude di resistere. Data una simile e totalizzante accezione di potere, la biologia per Foucault è impiegata per finalità biopolitiche nella misura in cui i corpi viventi e naturali si sottomettono all’istanza categorizzante della biologia stessa, ovvero alle sue tassonomie. Tali tassonomie in Foucault non derivano dalla lettura di Darwin, dal momento che sono un’estensione dell’atteggiamento catalogante – sotteso all’ipotesi fissista delle scienze naturali pre-darwiniane – esibito da scienziati come George Cuvier e Carl Linnaeus diversi decenni prima della pubblicazione del saggio sull’origine della specie.

 

Foucault in definitiva legge la biologia settecentesca alla luce de Il normale e il patologico (1966) di Georges Canguilhem, e identifica la biologia – per esempio il Sistema Naturae (1735) di Linnaeus – con un tipo di conoscenza che punta a distinguere ciò che è normale da ciò che non lo è. Il punto è che Foucault, seguendo Canguilhem, non prende in considerazione la specificità del contributo di Darwin alla teoria della trasformazione e dell’evoluzione in natura. Per Darwin, a differenza di Cuvier e Linnaeus, le specie naturali non sono fisse, né create una volta per tutte da Dio, come vuole invece la teologia naturale. Esse sono piuttosto delle entità proteiformi sempre in movimento, tali da resistere a ogni sistematizzazione e categorizzazione conclusiva. Per Darwin, le specie sono sottoposte tanto all’evoluzione quanto all’estinzione, e queste ultime due sono – almeno fino a un certo punto – imprevedibili, al pari della morfologia degli organismi e delle diverse narrazioni – svolte in L’origine delle specie da un linguaggio spesso metaforico – che gli esseri umani forniscono per spiegare i cambiamenti naturali. Pertanto, un’idea come quella di Darwinismo normativo, sostenuta tra gli altri da un interlocutore di Esposito come Dario Gentili nel suo Crisi come arte di governo (2018), è contradditoria se collocata in una prospettiva rigorosamente darwiniana.

 

È possibile dimostrare che i concetti darwiniani di lotta per la vita, variazione naturale e selezione naturale non pretendono di afferrare la naturalità in sé della vita, né di restituirne la perfetta – ‘incontaminata’ – immagine, poiché sono connotati in senso irriducibilmente metaforico. Per questo motivo, il lavoro di Darwin non può essere interpretato né in termini biopolitici, né come l’espressione d’un ristretto, e normativo, determinismo biologico.

 

Come hanno sostenuto Gillian Beer (Darwin’s Plots, 1983) e George Levine (Darwin and the Novelists, 1988) contro Edward O. Wilson e il suo Sociobiology (1975), la trama metaforica e narrativa de L’origine della specie spiega come mai la teoria dell’evoluzione abbia avuto, fin dall’inizio, particolari implicazioni per le opere di fiction e perché sia difficile sopravvalutare l’impatto che quella teoria ha avuto sull’immaginario del XIX secolo. È il caso, per esempio, del romanzo vittoriano, di George Elliot e di Thomas Hardy, ma i nomi si potrebbero moltiplicare oltre i confini del Regno Unito. La biologia, in altre parole, innesca l’immaginazione letteraria perché lo stesso metodo scientifico di Darwin fa uso di tropi e ha un cuore anche letterario.

 

Se Foucault ha omesso di prestare attenzione alla componente finzionale dei corpi nella scienza darwiniana, per così dire, è stato prima di lui il sociologo Herbert Spencer a occultare l’approccio decostruttivo di Darwin alla questione dell’origine e a gettare una duratura ombra conservatrice, se non reazionaria, sulle metafore di lotta per la vita e selezione naturale. Gli effetti di un tale fraintendimento sono ancora percepibili nell’attuale dibattito sulla biopolitica, anche per quel che riguarda l’estremo opposto dello spettro politico. Davide Tarizzo (La vita, un’invenzione recente, 2010), per esempio, pur rifiutando d’aderire alla sociologia reazionaria di Spencer e all’ideologia della sopravvivenza del più adatto e del più forte, sostanzialmente condivide la lettura spenceriana del pensiero di Darwin. Anche per Tarizzo, infatti, Darwin elabora una teoria di quel che la vita dovrebbe essere in sé, ovvero una visione della natura che andrebbe a giustificare – a convalidare – i rapporti di forza vigenti nella società (se in natura vince il più forte, e se questo fatto ha un valore normativo, allora il nazismo è giustificato su una presunta base darwiniana).

 

Sia la lettura foucaltiana della biologia pre-darwiniana sia la lettura spenceriana del lavoro di Darwin isolano preventivamente il bíos – la natura, la vita, l’apparentemente neutrale tassonomia degli organismi – e successivamente lo pongono in relazione con la politica (con la biopolitica in quanto apparentemente opposta alla sovranità nel caso di Foucault, con una legittimazione dell’imperialismo britannico nel caso di Spencer). In tal modo, la biopolitica e la politica tout court non riconoscono che il bíos – la vita – è già da sempre aperto, in un certo senso, all’immaginazione e alle metafore, ovvero a un linguaggio che nessuna tassonomia, nessun riduzionismo biologico, né alcun potere possono da ultimo imbrigliare.

 

Posta la priorità che lo sviluppo imprevedibile e dinamico degli organismi ha sulla sincronia tassonomica e fissista nell’approccio evoluzionista di Darwin, sarebbe possibile pensare il il bíos nei termini della sua costitutiva plasticità (Catherine Malabou, The Future of Hegel: Plasticity, Temporality, and Dialectic, 1996-2005). Infatti, per Darwin la tassonomia non esaurisce la funzione della scienza naturale. Ne L’origine della specie – come aveva già osservato Thomas Henry Huxley – l’accumulazione e l’osservazione di fatti isolati, di per sé, non fornisce alcuna prova empirica dell’evoluzione. L’impresa scientifica di Darwin va quindi ascritta non a una tassonomica collezione di fatti, ma allo sviluppo di una teoria – e l’immaginazione scientifica, tramite le metafore, è una componente fondamentale della teoria dell’evoluzione.

 

Anche se Agamben, l’altra importante voce della biopolitica oggi, riconduce la biopolitica a una genealogia differente da quella di Foucault e la pone in relazione con lo stato d’eccezione di Carl Schmitt, la sua idea di nuda vita (presa in prestito da Walter Benjamin) sembra ugualmente ignorare la plasticità metaforica della vita. In Quel che resta di Auschwitz (2002), per esempio, Agamben scrive che i Muselmänner del campo di concentramento sono l’intestimoniabile proprio perché sono vittime private di tutto: sono nuda vita e perciò la loro storia, al fondo, non può essere raccontata.

 

Tuttavia, come ha argomentato Nancy Harrowitz nel suo libro su Primo Levi (Primo Levi and the Identity of a Survivor, 2017), Levi in Se questo è un uomo (1947) rende conto dei Muselmänner adottando delle specifiche strategie letterarie. Nella prospettiva di Harrowitz, Levi adottava, nella sua scrittura, diverse maschere, e questo accadeva anche nei suoi testi più direttamente testimoniali. Tale era, paradossalmente, il modo più efficace di ovviare a una minaccia, quella che metteva in dubbio l’autenticità di ciò che i libri di Levi intendevano esprimere. L’adozione di molteplici personae era, in altre parole, l’unica maniera per permettere al bíos di parlare daccapo come un soggetto, ovvero essendo ascoltato, come era accaduto agli attori del teatro latino. Da questo punto di vista, la retorica – e Harrowitz include nella sua analisi anche i racconti di fiction scritti da Levi – testimonia la verità del campo, non si limita a tradirla. Inoltre, si potrebbe aggiungere che i Muselmänner, per Levi, non esistono in una nuda sfera della natura: essi sono piuttosto il prodotto e le vittime impotenti – non più in condizione di lottare per la propria vita – di un’ideologia dello sterminio.

 

Per quanto riguarda la biopolitica in Esposito, andrebbe osservato che – in una prospettiva ancora una volta decostruttiva – anche per lui la biopolitica inerisce al bíos come se quest’ultimo fosse preliminarmente identificabile in termini naturalistici (Bíos. Biopolitica e filosofia, 2004). Entro tale prospettiva, il bíos è colto indipendentemente dalla capacità plastica della vita di produrre, dal suo interno, metafore e formazioni finzionali. Sarebbe possibile sostenere, anzi, che la filosofia di Esposito (Pensiero vivente, 2010) coincide con una versione del vitalismo tardo ottocentesco e primonovecentesco, incentrato su una riduzione della vita alla sua configurazione naturale, da porre in un secondo momento in relazione con la sfera politica.

 

Da queste considerazioni emerge pertanto che la biopolitica, nelle sue differenti declinazioni speculative, è affetta da una fallacia naturalistica, che invece è programmaticamente assente nell’epistemologia darwiniana e nel prendere congedo, da parte di Darwin, dalla biologia del XVIII secolo. Ciò implica che, come argomentava Agnes Heller nel 1996 (A. Heller and S. Puntscher Riekmann, Eds., Biopolitics. The Politics of the Body, Race, and Nature), la biopolitica in fin dei conti parla sempre dal punto di vista di un gruppo che può essere identificato da caratteri o da scopi di natura puramente biologica. Il tentativo di Esposito di ripensare la biopolitica in termini affermativi e non tanatologici, cioè al servizio della vita, per sfuggire a una critica come quella di Heller, sembra allora poggiare sin dalle proprie premesse su una fallacia naturalistica che impedisce la possibilità d’immaginare il bíos e la sua relazione al potere e alla legge entro coordinate non ‘disperatamente’ deterministiche.

 

Si tratterà pertanto di ripensare la relazione tra la vita e le sue forme – tra il bíos e la politica – alla luce della nozione di plasticità metaforica: a tale nuova configurazione dei termini in gioco diamo per azzardo il nome di biofinzionalità.

 

 

[Immagine: Graffito di Darwin a Sheffield, UK].

2 thoughts on “Fictional Bodies: Darwin e la decostruzione della biopolitica

  1. Due cose: mi viene in mente il nome di Deleuze, che di plasticità finzionale ha fatto addirittura uno stile. E sempre senza dimenticarlo, ricordare che la produzione polimorfa di alterità e deviazioni è molto forte e presente anche in Foucault: non so quanto lui affermasse che c’è la vita e poi la politica. Mi pare più sensato dire che questo paradigma è prodotto dalla politica stessa, e Foucault lo ha rilevato. Tra l’altro la sua concezione del potere non è affatto massiva e naturalistica – e nemmeno quella di Nietzsche, se è per questo. Che poi in Agamben ci sia una fallacia naturalistica è possibile, tant’è che, rovesciando i termini della questione, la sua teoria si fonda su una distinzione tra Bios e Zoè che ritrova in Aristotele.

  2. Molto giusto riportare l’origine del pensiero foucaldien a una matrice settecentesca (non solo per quanto riguarda le fonti scientifiche), e onestamente non so come si possano prendere sul serio frasi tipo “Auschwitz non è testimoniabile” . Qui il problema non è se Agamben dice delle cose esatte al millimetro, o se ha piuttosto ragione Esposito, qui il fatto è che in Cina c’è già la cittadinanza a punti, da noi lampeggia il Ministero della verità… tutti coloro che si oppongono a questo degenerare andrebbero caldamente. sostenuti.

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