di Filippo Tuena
Durante la quarantena del Coronavirus dal 20 al 26 marzo ho tradotto, più o meno una al giorno, cinque poesie di Philip Larkin, scegliendole tra quelle dove l’osservare o l’essere rinchiusi fosse in qualche modo rilevante, così come rilevante doveva essere il senso di pietas.
Si dirà che non è difficile imbattersi in queste situazioni nell’opera di Larkin e, in effetti, a queste cinque si potevano sostituire altre cinque e altre cinque e altre cinque e altre cinque. All’infinito. Larkin mi sembra il cantore della pietas e dell’esclusione: osserva quel che altri sanno fare e che, in qualche modo, lui non sa fare perché non ha la possibilità: è impotente. E’ dall’altra parte del recinto, della gabbia, del limen. E dunque è naturale che sia il poeta della pandemia, del rinchiudersi, dell’osservare e dello scegliere una via individuale e privata. Poiché al di là dell’osservare nulla può chi non è in prima linea. Quel che ci viene chiesto in questi giorni è metterci da parte; niente gesti eroici. Così forse la scelta operata nasce più che da mie preferenze, dal tempo contingente.
Questo lavoro di traduzione è intimo. Non sono un traduttore se non nel senso che cerco di portare in italiano e a me quel che riesco a leggere in lingua originale. E quel che pubblico è semplicemente il mio punto di vista come lettore. Ragiono da vent’anni sull’onnipotenza di questa figura: il lettore. Sin da la Grande ombra ci sbatto il grugno e non riesco più a separare scrittura e lettura. Traducendo scrivo e cerco di sovrastare quel che leggo. Voglio vedere in quel che leggo la macchia scura della mia ombra e impossessarmene. Forse una è un’attitudine vampiresca e la mia traduzione magari non sempre corrispondente all’assunto dell’autore ma manifesta con buona approssimazione che cosa ho letto e lo spirito con cui ho letto.
Milano, 20-28 marzo 2020
X
Nel sogno hai detto:
baciamoci, poi,
in questa stanza, su questo letto,
ma quando avremo fatto
non dobbiamo vederci mai più.
Ascolto questa parola e
non c’è notte dei macelli
non rondine sospinta dalla tempesta
non radice nella morsa del gelo
più fredda del mio cuore.
X, 1944, The North Ship
Within the dream you said:
Let us kiss then,
In this room, in this bed,
But when all’s done
We must not meet again.
Hearing this last word,
There was no lambing-night,
No gale-driven bird
Nor frost-encircled root
As cold as my heart.
*
Motivi per partecipare
Il suono della tromba deciso e autoritario mi porta per un istante al vetro trasparente per osservare i ballerini – tutti venticinquenni o anche meno – impegnarsi davvero, volti su volti arrossati, solennemente, al battere della felicità.
– O così credo, al sapore del fumo e del sudore e della meravigliosa quintessenza delle ragazze. Perché starmene fuori? Ma poi, perché starmene dentro? Sesso, d’accordo, ma cos’è sesso? Sicuramente la parte del leone di questa felicità è per le coppie – perfetta
imprecisione, per quanto mi riguarda. Quel che mi chiama è il vibrato della campana slanciata, (l’Arte, se vuoi) che insiste col suo timbro riconoscibile a dire che io sono troppo individualista. Lei parla; io ascolto; anche altri potrebbero,
ma io non sono per loro, né loro per me; e così per la questione felicità. Perciò sto fuori, credendo una cosa; e loro si agitano e si dimenano, credendone un’altra; e saremmo tutti contenti se nessuno avesse mal giudicato se stesso. O mentito.
Reasons for Attendance, 1953, The Less Decived
The trumpet’s voice, loud and authoritative,
Draws me a moment to the lighted glass
To watch the dancers – all under twenty-five –
Solemnly on the beat of happiness.
– Or so I fancy, sensing the smoke and sweat,
The wonderful feel of girls. Why be out there ?
But then, why be in there? Sex, yes, but what
Is sex ? Surely to think the lion’s share
Of happiness is found by couples – sheer
Inaccuracy, as far as I’m concerned.
What calls me is that lifted, rough-tongued bell
(Art, if you like) whose individual sound
Insists I too am individual.
It speaks; I hear; others may hear as well,
But not for me, nor I for them; and so
With happiness. Therefor I stay outside,
Believing this, and they maul to and fro,
Believing that; and both are satisfied,
If no one has misjudged himself. Or lied.
*
Dimentica l’accaduto
Aver interrotto il diario
è stato tramortire la memoria
è stato un inizio di libertà.
Mai più le cicatrici
di quelle parole, di quei fatti
che ti destano cupo.
Volevo tutto indietro
e seppellirlo in fretta
al vaglio del ricordo.
Come le guerre e gli inverni
smarriti dietro le finestre
di un’infanzia opaca.
E le pagine bianche?
Se le riempissi,
che sia con l’osservazione
di rivoluzioni celesti
e fiori che ritornano
e uccelli che vanno.
Forget What Did, 1974, High Windows.
Stopping the diary
Was a stun to memory,
Was a blank starting,
One no longer cicatrized
By such words, such actions
As bleakened waking.
I wanted them over,
Hurried to burial
And looked back on
Like the wars and winters
Missing behind the windows
Of an opaque childhood.
And the empty pages ?
Should they ever be filled
Let it be with observed
Celestial recurrences,
The day the flowers come,
And when the birds go.
*
Gli alberi
Gli alberi stanno mettendo le foglie
come una storia detta e stradetta.
I nuovi germogli distesi e aperti
e il verde panorama che addolora.
E’ forse perché quelli nascono ancora
e noi invecchiamo? No, muoiono anche loro.
L’inganno di ogni anno – sembrare nuovi –
è marcato dagli anelli del tronco.
Ancora il castello della chioma s’agita
nel pieno dell’esuberanza di ogni Maggio.
L’anno passato è morto, sembrano dire
e noi ancora da capo e da capo e da capo.
The Trees, 1974 da High Windows
The trees are coming into leaf
Like something almost being said;
The recent buds relax and spread,
Their greenness is a kind of grief.
Is it that they are born again
And we grow old? No, they die too,
Their yearly trick of looking new
Is written down in rings of grain.
Yet still the unresting castles thresh
In fullgrown thickness every May.
Last year is dead, they seem to say,
Begin afresh, afresh, afresh.
*
Il tagliaerba
Il tagliaerba s’è inceppato, due volte; inginocchiandomi ho trovato
un porcospino incastrato tra le lame,
ucciso. Era nell’erba alta.
L’avevo già visto prima e persino nutrito, una volta.
Ora avevo tritato il suo mondo appartato
senza ritorno. Non sarebbe servito neppure un funerale.
Il mattino seguente io mi sono alzato e lui no.
Il primo giorno dopo una morte, l’assenza nuova
è sempre uguale; dovremmo avere premura
verso il prossimo, dovremmo essere gentili
finché c’è ancora tempo.
1979, The Mower, Collected Poems 2004
The mower stalled, twice; kneeling, I found
A hedgehog jammed up against the blades,
Killed. It had been in the long grass.
I had seen it before, and even fed it, once.
Now I had mauled its unobtrusive world
Unmendably. Burial was no help:
Next morning I got up and it did not.
The first day after a death, the new absence
Is always the same; we should be careful
Of each other, we should be kind
While there is still time.