di Giovanni Accardo
[Giovanni Accardo, scrittore e insegnante in un liceo di Bolzano, sta scrivendo un diario verosimile, sul modello del libro Un’altra scuola, pubblicato nel 2015 da Ediesse, sull’esperienza della didattica a distanza. Nulla di quello che leggerete è accaduto in un liceo preciso e nulla è accaduto al personaggio che dice io, che quindi non è da confondere con l’autore. Ma tutto è realmente accaduto in tante scuole d’Italia, da Bolzano ad Agrigento. Sono reali i dubbi, le paure, le solitudini, la fatica, la ricerca di soluzioni, le riunioni, le rabbie, i ripensamenti. Reali sono soprattutto gli studenti, a cui queste pagine sono dedicate].
«Prof, ma lei se lo ricorda l’ultimo giorno di scuola?»
A fare la domanda è Valentina, studentessa di quinta, interrompendo la mia analisi di Montale, Non chiederci la parola. Siamo collegati in videoconferenza, io dalla cucina di casa mia, gli studenti dalle loro case. Siamo arrivati al 3 aprile, la prossima settimana iniziano le vacanze di Pasqua. Speravamo di poter ritornare in classe dopo le vacanze ma così non sarà.
«Quale ultimo giorno di scuola?»
«Il nostro.»
Il 2 marzo siamo rientrati a scuola dopo la settimana di Carnevale, col timore che le zone rosse potessero estendersi a tutta l’Italia. Molti di noi in quella settimana si sono spostati in altre regioni, visto che era vacanza; qualcuno è stato a Milano, qualcun altro a Venezia, cioè nelle due regioni dove l’epidemia stava colpendo più duramente, io sono stato in Abruzzo e in Puglia. Infatti ci guardavamo timorosi e sospettosi, con la paura che il virus fosse arrivato anche nella nostra città e che magari qualcuno di noi fosse già stato infettato. Ma al tempo stesso ci scherzavamo sopra, facendo battute esorcizzanti.
«Sì, certo, il 4 marzo», rispondo a Valentina, «è stato quello l’ultimo giorno di scuola.»
«Ma lei lo sapeva che sarebbe stato l’ultimo?»
Il 4 marzo era un mercoledì, da qualche giorno appariva chiaro che l’Italia intera presto sarebbe diventata zona rossa per qualche settimana, forse due. Il 6 marzo viene convocato un collegio docenti straordinario con l’unica precauzione di sederci a un metro di distanza l’uno dall’altro. Lo facciamo, ma prima e dopo il collegio affolliamo il bar, ci riuniamo in gruppo, perciò se qualcuno di noi ha già il virus in corpo, il contagio è assicurato. Il collega responsabile del registro elettronico ci spiega come usare la funzione “aule virtuali” per fare lezione da casa: dove segnare le assenze, come condividere video e files, come attivare la chat. Quelli che hanno più familiarità con le nuove tecnologie propongono l’uso di piattaforme per collegarsi con gli studenti in videoconferenza, usando termini per iniziati, il consueto linguaggio in codice di chi sa. Quelli meno avvezzi all’uso del digitale vengono guardati con sufficienza, nell’aula magna sento dilagare eccitazione e spaesamento. Stabiliamo le prime regole di quell’acronimo che presto diventerà familiare a tutti: DAD, didattica a distanza, ma l’ultima D potrebbe, dovrebbe stare anche per disorientamento. Io sento salire l’angoscia, non solo per la distanza, non solo per la mia poca simpatia verso la didattica digitale, ma soprattutto per l’epidemia che evidentemente sta crescendo e che tuttavia stiamo tentando di rimuovere. Da lunedì dovrebbero cominciare anche i consigli di classe aperti a genitori e studenti. La preside propone di tenerli ugualmente, aprendoli solo ai rappresentanti di studenti e genitori, in modo da garantire la distanza di sicurezza. Io esprimo la mia contrarietà, mi sembra un rischio da evitare, come sarebbe stato da evitare il collegio docenti, dico. Propongo di rinviarli, aspettiamo cosa succede in queste due settimane di chiusura, ma nessuno sembra interessato alla mia proposta.
«Ma lei lo sapeva che quello era l’ultimo giorno di scuola?» si aggiunge Alice.
«E come facevo a saperlo? Però mi sono convinto presto che a scuola non saremmo più tornati.»
«Perché dice questo?» chiede Lorenzo.
«Basta leggere i giornali, sentire cosa dicono gli scienziati, vedere cosa sta succedendo in tutta Europa. Non è pensabile, per restare al nostro liceo, mettere insieme ottocento studenti e oltre cento insegnanti. Avete dimenticato cosa sono gli autobus dal mattino? Se l’unica misura di prevenzione al momento è la distanza fisica, per quest’anno scolastico a scuola non torneremo.»
Cala il silenzio. Guardo le loro facce nei quadrati in cui è diviso lo schermo del mio portatile.
«Non lo dica neanche per scherzo», ritorna alla carica Valentina.
«Non scherzo e non voglio neanche infierire, è soltanto un ragionamento, una deduzione. Temo che a scuola si tornerà a settembre, speriamo che presto allentino i divieti e che sia almeno possibile uscire per qualche passeggiata, ma è meglio fare i conti con la realtà e non coltivare inutili illusioni.»
«Ma è bruttissimo!» esclama Daniel.
«Cosa?»
«Non avere saputo che quello era l’ultimo giorno di scuola, dopo cinque anni.»
«Ma la cena della maturità almeno potremo farla?» domanda Elisa.
«Per quando era prevista?»
«Abbiamo prenotato per il 29 maggio.»
«Non so se per quella data riapriranno i ristoranti. E poi che facciamo, ceniamo con la mascherina e seduti a metro di distanza?»
Di nuovo silenzio.
«Dai ragazzi, non avvilitevi! Magari facciamo la cena a settembre.»
«Ma non è la stessa cosa», si lamenta Luca.
La cena della maturità è un vero e proprio rito di passaggio, è il momento in cui, vedendo gli studenti in giacca e cravatta e le studentesse con gli abiti lunghi e i tacchi a spillo, ti accorgi che sono passati cinque anni, che quei ragazzi che hai preso in prima poco più che bambini sono pronti per iniziare l’ingresso nella vita adulta. E la mattina dopo vengono a scuola, ancora vestiti eleganti ma con i segni della notte insonne trascorsa in una discoteca del lago di Garda, per fare gli scherzi agli studenti, soprattutto a quelli di prima. È il loro saluto alla scuola. Ma quest’anno non potranno farlo.
* * * * *
Anche se stiamo improvvisando, perché è all’improvviso che è arrivata la chiusura della scuola e all’improvviso ci siamo trovati costretti a trovare un modo per continuare le lezioni, non abbiamo smesso di confrontarci e interrogarci, sollevando più dubbi che soluzioni, ma sempre inseguendo la formula più efficace.
Il 4 marzo è arrivato il decreto che sospendeva l’attività didattica fino al 15, ma il 9 sera il Presidente del Consiglio ha annunciato che dal giorno dopo tutta l’Italia sarebbe diventata zona rossa sino al 25.
Il 9 mattina partiamo, fiduciosi nel registro elettronico e nelle aule virtuali. Dopo un’ora il sistema collassa: è crashato, dicono gli studenti. Nella tarda mattinata arriva un comunicato del gestore per informarci che il gran numero di accessi ha sovraccaricato il sistema, paralizzandolo. Cerchiamo di compensare con whatsapp e la mail. Qualche collega segnala piattaforme facili da usare e gratuite, arrivano tutorial, link, consigli, suggerimenti, segnalazione di risorse digitali di case editrici, indicazioni di webinar. La sera del 9 siamo tutti sfiniti. Avevamo provato a incoraggiarci, pensando che si sarebbe trattato solo di due settimane, e due settimane si poteva resistere, ma dal 15 siamo passati al 25 marzo. Si rafforza in me l’idea che staremo a casa sino alla fine di aprile, certamente sino a Pasqua.
Dal Ministero dell’istruzione non arriva nessuna indicazione operativa sull’orario di servizio, sulla gestione delle assenze, sulla valutazione. Il 17 arriva una nota firmata dal capo di dipartimento del ministero, generica, burocratica, retorica e dunque polisemica, come gran parte delle circolari ministeriali o delle leggi dello Stato scritte da avvocati per altri avvocati. Siamo invitati ad “attivare per tutta la durata della sospensione delle attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a distanza avuto anche riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità”. Segue precisazione: “Il collegamento diretto o indiretto, immediato o differito, attraverso videoconferenze, videolezioni, chat di gruppo; la trasmissione ragionata di materiali didattici, attraverso il caricamento degli stessi su piattaforme digitali e l’impiego dei registri di classe in tutte le loro funzioni di comunicazione e di supporto alla didattica, con successiva rielaborazione e discussione operata direttamente o indirettamente con il docente, l’interazione su sistemi e app interattive educative propriamente digitali: tutto ciò è didattica a distanza.”
Grazie, molto gentili ma è esattamente quello che stiamo facendo da una settimana con i nostri pc e i nostri smartphone, i nostri giga e le nostre connessioni, le nostre stampanti e la nostra carta, il nostro toner e la nostra linea telefonica, cioè praticamente a nostre spese, inclusi energia elettrica e riscaldamento. Ne prendano nota gli editorialisti superciliosi che parlano di vacanza forzata, quelli che propongono di prolungare l’anno scolastico, o quelli che vorrebbero farci lavorare anche luglio e agosto. E soprattutto provino a convincere gli studenti, che stanno facendo una vacanza.
La prima settimana di DAD è all’insegna del surplus lavorativo, nostro e degli studenti. Non avendo mai vissuto un’esperienza simile, nel tentativo di compensare l’assenza e la lontananza carichiamo gli studenti di una quantità spropositata di compiti. Passiamo ore a preparare materiali (video, questionari, link, files, messaggi vocali) e poi ore a leggere, correggere, visionare, ricevere, inviare, restituire. Prima di scoppiare o collassare ci salvano gli studenti: noi non ce la facciamo, dicono a ciascun insegnante, specie a quelli più disponibili all’ascolto; noi non ce la facciamo dicono i rappresentanti di classe; gli studenti non ce la fanno più, dicono i rappresentanti d’istituto. Partono le riunioni in videoconferenza tra dirigenti e rappresentanti degli studenti, che si fanno portavoce delle richieste di tutte le scuole superiori. Ed ecco che viene convocato un altro collegio docenti straordinario per stabilire una modalità concordata e sostenibile: ridurre il carico dei compiti, riprogrammare lezioni e verifiche, adattandole alla circostanza, coinvolgere maggiormente gli studenti, capovolgendo la dinamica didattica, cioè spostando sugli studenti la conduzione delle lezioni con l’insegnante che guida, coordina, precisa, rimodula. Riguardo alle videolezioni, stabiliamo che possono avere una durata massima di 40 minuti e non più di quattro collegamenti al giorno per classe. Seguono consigli di classe on-line per stabilire un calendario delle videolezioni: io, che insegno due materie (italiano e storia) farò tre collegamenti alla settimana in seconda e in quarta, quattro in quinta, per prepararli meglio all’esame. Su 19 ore di lezione settimanali (lezioni da 50 minuti), per un totale di 950 minuti mi collego per 400, meno della metà; mi pare ragionevole: per me e per gli studenti. Il resto delle ore gli studenti studiano e lavorano in maniera autonoma, ma attraverso precise indicazioni che arrivano via mail e via chat telefoniche.
E la valutazione? La nota del 17 marzo del Ministero ci ricorda che valutare è un dovere dell’insegnante e un diritto dello studente. D’altronde gli scrutini di fine anno prevedono dei voti e soprattutto lo prevede l’Esame di Stato, voti che gli studenti potranno utilizzare per eventuali borse di studio o per l’accesso all’università. Dunque se non cambia la legge, una valutazione dovrà esserci. A questo punto la dirigente ci invita a guardare un video, che è la registrazione di un incontro tra i dirigenti scolastici della provincia di Bolzano e un docente universitario di tecnologie dell’istruzione e della didattica, in cui vengono dati consigli sulla DAD: come riprogettare i curricula delle varie discipline, come insegnare, come interagire con gli studenti, come verificare gli apprendimenti, ricordandosi che il peso cognitivo di una lezione digitale è il doppio di quella in presenza, dunque bisogna dare più tempo agli studenti e dimezzare i compiti.
Dopo la prima settimana la stanchezza, l’avvilimento, il disorientamento si fanno sempre più evidenti, in noi e negli studenti. Comincia a serpeggiare l’ansia, a manifestarsi l’insonnia e l’inappetenza. Lo vedo anche in mia figlia, che frequenta l’ultimo anno del liceo linguistico e che trascorre la sua giornata attaccata al computer o allo smartphone. La solitudine, la mancanza degli amici, le passeggiate in centro o le uscite serali non si possono più fare. Non vi preoccupate, ci siamo noi a sostenervi, gli adulti, noi a indicarvi la strada. Cioè, dovremmo dire questo, ma anche noi cominciamo a perdere il sonno, forse prima e più degli studenti. Alle quattro del mattino siamo su Facebook a cercare aggiornamenti e a commentare i post degli amici. Anche tu sveglio? Un collega che conosco solo virtualmente mi scrive su Messenger, ha visto che commentavo il post di un comune amico. Vive da solo in un piccolo monolocale, è siciliano, è rimasto bloccato a Bolzano, teme di non per tornare dalla sua famiglia nemmeno a Pasqua. Ogni mattina alle 6 mi manda il buongiorno, scambiamo due parole, c’incoraggiamo, tentiamo di spezzare angoscia e solitudine.
* * * * *
«Ragazzi, vi chiamano nativi digitali e non sapete usare i software di scrittura», dico agli studenti di seconda, ma farò lo stesso discorso in tutte le classi. «Ognuno di voi mi manda i compiti in un formato diverso: word, odt, pdf, foto. Ecco, partiamo dalle foto, è la soluzione peggiore, sia perché è quella che consuma più toner della stampante, sia perché sono faticose da leggere, sia perché non posso correggerle e girarvi le correzioni. Quindi vediamo di stabilire una modalità unica ed efficace: i testi vanno scritti al computer e inviati come file in formato word o odt, usando un carattere di dimensione 11 o 12, un’interlinea singola o 1,5 e giustificato a destra.»
«Ma io non ho il computer.»
«Il mio è rotto.»
«Io lo devo condividere con mio fratello.»
«Io non ho word.»
«Ok! Ok! Vediamo di mettere un po’ di ordine. Chi non ha word, scarichi OpenOffice e mandi i files in formato odt. Va bene ugualmente. Chi non ha il computer e scrive sul quaderno, scarichi sul telefono un programma gratuito che funziona come scanner.»
«Io ho poca memoria.»
«Io ho pochi giga.»
«Provate e vedrete che potete farlo benissimo, l’ho fatto anch’io. Se non collaboriamo, diventa tutto molto difficile. Siete o non siete nativi digitali? Tirate fuori tutte le vostre risorse. Stiamo vivendo una situazione mai vissuta prima, siamo tutti in affanno e alla continua ricerca di soluzioni, usate questa esperienza per crescere, per diventare più responsabili, più autonomi. Vi ricordate quando parlavamo dei migranti che scappano dalle guerre?»
«Cosa c’entra? Questa non è una guerra», dice Mattia.
«Non è una guerra ma in un certo senso è la nostra piccola guerra che ci costringe a vivere chiusi in casa e a trovare risorse e soluzioni, imparare ad aspettare e resistere, esercitare la pazienza e il sacrificio. Proprio come coloro che scappano dalle guerre e cercano salvezza in un altro continente.»
* * * * *
Messaggio su whatsapp: “Prof, le posso parlare?”
È Karima, una studentessa pakistana di seconda. Le chiedo cosa succede. Vuole parlarmi al telefono.
«Ciao Karima.»
«Scusi per l’ora.»
Sono le 9 di sera, ma ormai ci sono abituato, anche se ho detto agli studenti di far finta che la scuola proceda normalmente e di non contattarmi al di fuori delle ore scolastiche, se non per un’emergenza, arrivano continuamente messaggi per chiedere qualunque cosa.
«Dimmi Karima.»
«Volevo spiegarle perché tengo il video spento quando ci colleghiamo per le lezioni.»
Dopo i primi giorni ho chiesto agli studenti di mostrarsi tutti in video, mentre parte di loro non lo facevano. Ho spiegato che era giusto che tutti ci vedessimo in faccia per facilitare l’interazione e anche per darmi modo di verificare che tutti seguissero le lezioni. E infatti avevo scoperto che qualcuno seguiva direttamente dal letto. Ho spiegato che era nel loro interesse sedersi a un tavolo, avere davanti libri, quaderni, penne, che questo rendeva più facile l’apprendimento. E ho spiegato anche che il collegio docenti aveva stabilito di seguire la scansione dell’orario scolastico, sia pure con strumenti diversi, per dare un ritmo alle loro giornate e aiutarli a non perdersi. Infine, ho detto, visto che non vi potete incontrare, è anche l’occasione per dialogare tra di voi. Ma quest’ultima osservazione forse potevo risparmiarmela, perché tra di loro sicuramente si vedevano con le videochiamate.
«In casa siamo cinque tra fratelli e sorelle, io dormo nella stanza con mia sorella che ha 7 anni e un’altra sorella che ne ha 5. Papà per fortuna lavora ancora, visto che fa il corriere, e lavora anche la mamma, nella ditta delle pulizie dell’ospedale, quindi la mattina siamo tutti e cinque in casa. Spesso devo togliere anche l’audio perché i miei fratelli urlano, si picchiano, mia sorella salta sul letto. Non posso far vedere agli insegnanti e ai miei compagni quello che succede a casa mia. Mi vergogno.»
«E i tuoi fratelli quanti anni hanno?»
«Hamid e Bashir hanno 14 e 16 anni, frequentano tutti e due l’istituto tecnico.»
«Fanno anche loro i collegamenti?»
«Sì, ed è per questo che si picchiano. Hanno un computer in due, quindi se uno lo usa, l’altro deve usare il telefono.»
«Tu come ti colleghi?»
«Col telefono.»
«A scuola forse abbiamo ancora qualche tablet da prestare, perché non chiedi?»
«No, non posso.»
«Perché non puoi?»
«Ho paura che lo prendano i miei fratelli e magari lo rompano. Preferisco di no. Ma col telefono non ho problemi, abbiamo un buon wi-fi, la linea c’è sempre.»
Nel secondo collegio docenti straordinario abbiamo discusso a lungo di una griglia di valutazione per la didattica a distanza, io sono stato uno dei pochi a ritenerla arbitraria e discriminatoria. Come facciamo a valutare competenze che non abbiamo insegnato? Perché gli studenti dovrebbero averle? E poi vengono favoriti gli studenti che dispongono di strumenti e connessioni più efficaci. Anch’io ho avuto problemi di connessione varie volte e anch’io non ho particolari competenze tecnologiche. E poi, avrei voluto dire e invece non l’ho detto, anche la collega che nell’epoca degli smartphone usa ancora il Nokia con i tasti potrà valutare le competenze digitali degli studenti?
«Va bene Karima, ho capito perfettamente il problema, però ti consiglio ugualmente di prendere un tablet dalla scuola, ha uno schermo più grande e sicuramente è più semplice seguire le lezioni.»
«Può spiegarlo agli altri insegnanti, visto che lei è il coordinatore di classe?»
«Certamente.»
«Grazie prof.»
* * * * *
«Salve prof, con i libri da presentare come facciamo?»
La domanda arriva da Noemi. A dicembre avevo assegnato agli studenti di quinta un libro a testa della narrativa italiana del secondo dopoguerra da leggere e poi presentare alla classe; sono riusciti a farlo soltanto con Se questo è un uomo di Primo Levi, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, La pelle di Curzio Malaparte, Spaccanapoli di Domenico Rea, Una questione privata di Beppe Fenoglio e Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino. Il libro di Primo Levi l’ha letto tutta la classe, insieme ad alcune pagine de La tregua, due capitoli de I sommersi e i salvati e il racconto Vanadio tratto dal Sistema periodico. Il 7 febbraio abbiamo incontrato Marco Belpoliti, uno dei più importanti studiosi di Levi, all’interno del Seminario internazionale sul romanzo, un progetto del dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento con cui il nostro liceo collabora da cinque anni. Poiché la classe è del Liceo economico sociale, leggere Primo Levi ha permesso di svolgere un percorso multidisciplinare che ha messo insieme italiano, storia, diritto, antropologia e tedesco. Gli studenti si sono appassionati, hanno colto perfettamente la natura ibrida dello scrittore torinese su cui Belpoliti ha insistito molto; oltre alle qualità letterarie, agli influssi scientifici della lingua, allo sguardo razionale, abbiamo ragionato molto sulle sue qualità di antropologo. Avremmo dovuto incontrare anche Antonio Di Grado, direttore scientifico della Fondazione Sciascia per un analogo percorso sullo scrittore siciliano a trent’anni dalla morte, ma la chiusura delle scuole l’ha fatto saltare.
«Cosa proponete?» domando.
«Ognuno di noi potrebbe realizzare un video con la propria relazione e inviarla sul gruppo whatsapp, lei lo guarda e poi fa le domande», suggerisce Irene, che è la rappresentante di classe e una studentessa sempre molto propositiva.
«Che ne dite?», chiedo al resto della classe.
«E se il video è pesante e non passa?», dice Giacomo.
«Basta dividerlo in due o in tre video», suggerisce Ilenia.
«Proviamo e vediamo se funziona. Però il video non lo guardo solo io, lo guardate tutti, preparate qualche domanda o vi segnate quello che non avete capito e ne parliamo in uno dei prossimi collegamenti. A chi tocca lunedì?»
«Tocca a me», dice Valentina, «devo presentare La luna e i falò di Cesare Pavese.»
«Ti va bene questo sistema?»
«Sì, va bene», dice perplessa.
«Al biennio con la professoressa di Linguaggi non verbali avete realizzato dei bellissimi video, avete pure vinto un premio per un cortometraggio. Ve lo siete scordato? Non servono effetti speciali, parli e ti riprendi, come se fossimo in aula, solo che invece di avere noi davanti, hai il tuo smartphone. Secondo me ce la puoi fare», dico con un sorriso che si perde nella webcam.
Non sembra molto convinta, però alla fine dice ok.
* * * * *
Il coronavirus non è più soltanto una notizia dei giornali o della tivù, ora è qualcosa di concreto e vicino.
Mi chiama Patrizia, coordinatrice di una terza.
«Hai saputo di Manuel?»
«Cosa gli è successo?»
«Suo padre è all’ospedale con la polmonite: coronavirus.»
«Cazzo!»
Ci domandiamo entrambi la stessa cosa: quando l’abbiamo visto l’ultima volta. Io sono meno preoccupato di lei, non è un mio alunno, lo è stato l’anno scorso ma poi è stato bocciato. Però qualche volta, se lo incontro nei corridoi o al bar, si ferma a scambiare due parole anche con me. È un ragazzo molto socievole e intelligente, però non aveva voglia di studiare, a scuola si annoiava.
«Manuel come sta?»
«Lui e sua madre sono risultati positivi al tampone, la sorellina no. La madre sta bene, Manuel ha solo un po’ di febbre.»
«Hai avvisato la preside?»
«È stata proprio lei a dirmelo.»
«Sono passati esattamente quindici giorni dall’ultimo giorno di scuola, quindi dovremmo essere tutti fuori pericolo. No?»
«Penso di sì. Però devo chiamare i colleghi e gli studenti della classe per sentire come stanno, se qualcuno di loro ha la febbre o la tosse.»
«Nel caso dovete mettervi tutti in quarantena?»
«Più quarantena di quella che stiamo facendo?»