di Diego Maria Chece

 

[Riceviamo e pubblichiamo questo articolo di Diego Maria Chece, tecnico di Radiologia presso un ospedale dell’Emilia Romagna laureato anche in filosofia].

 

l respiro accorciato dalla mascherina, la vista appannata dalla visiera, le voci dei pazienti e dei colleghi comprese a malapena. La paura di sbagliare un passaggio nella vestizione e nella svestizione, di avere un attimo di distrazione che favorisca il contagio, viaggia di pari passo con la voglia di essere utile, di dare una mano con la propria professione in questa strana – e per certi versi grottesca – peste del mondo civilizzato. Sono solo alcune delle sensazioni che ciascuna e ciascuno di noi sanitari sta provando. Dietro la mascherina, ormai simbolo delle nostre giornate di lavoro, ci sentiamo dire che tutti insieme stiamo affrontando qualcosa di tremendo e assolutamente imprevisto e che solo uniti ce la caveremo, che solo così «andrà tutto bene». Ma, volendo sfilare idealmente la mascherina da «nuovi supereroi» e allontanandosi per un momento dall’urgenza dell’azione sanitaria, è necessario fermarsi a pensare fuori dall’ordine, rifugiandosi nella solitudine del «due-in-uno del dialogo senza voce» (Arendt, La vita della mente, p. 288). Tornando a casa dall’ospedale, questo passaggio è ciò che permette a noi eroiche truppe in battaglia – come siamo spesso state descritte – di ragionare sulla narrazione che si sta costruendo intorno alle nostre azioni pratiche, improvvisamente diventate il fulcro dei sentimenti delle persone. Quello che salta all’occhio delle tantissime storie di umanità e coraggio di questi giorni è che in molti casi sono sovrapponibili con la «semplice» narrazione del lavoro che tantissimi e tantissime svolgono ogni giorno, a prescindere dall’epidemia. Certamente le proporzioni di quanto è avvenuto – e che ancora sta avvenendo – erano inimmaginabili fino a tre mesi fa, tre mesi che sembrano lontanissimi e in cui è cambiato tantissimo, dentro e fuori dall’ospedale. Sicuramente eccezionale è la contagiosità di questo virus e, dunque, eccezionali sono le precauzioni da prendere durante l’attività lavorativa a contatto con i pazienti. Questi sono gli aspetti più evidenti: l’elevatissima possibilità di essere infettati porta ad un elevato numero di malati con la stessa patologia e rende le procedure quotidiane estremamente difficoltose e pericolose, sia per l’operatore che per il paziente, forzando notevolmente le capacità emotive del personale e la tenuta delle strutture. Fermarsi a riflettere, quando possibile, è un esercizio utile per sviluppare uno spirito critico che permetta di costruire qualcosa di migliore in un sistema che, nonostante gli indubbi meriti, continua – persino adesso, in un momento cui i dati sulla mortalità nonostante il calo restano i più alti al mondo – ad autocelebrarsi. È evidente come tantissime cose siano andate – e stiano andando – male: è utile ricordare i decenni di tagli alla sanità pubblica, ma c’è sicuramente dell’altro. Allo stesso modo, sembra evidente come non basti gracchiare critiche masticate e rimasticate alle rappresentanze politiche a vario livello per capire come andare avanti e come ripartire da quello che sta succedendo. Come e in che maniera assumerci la responsabilità personale e collettiva di quanto sta accadendo è l’unica possibilità di produrre da questa realtà patologica qualcosa di più salubre: sembrano essersene accorti anche i nostri rappresentanti politici, quantomeno negli inviti alla responsabilità arrivati con l’inizio della fase 2. Uno dei primi aspetti da migliorare e argomenti di dibattito è stato indubbiamente quello della messa in sicurezza dei lavoratori.

 

I corvi e gli eroi

 

«Non circolano che gli intendenti, i sindaci, i soldati della guardia e, anche tra le cose infette, da un cadavere all’altro, i “corvi” che è indifferente abbandonare alla morte: sono “persone da poco che trasportano i malati, interrano i morti, puliscono e fanno molti servizi vili e abbietti”» (Foucault, Sorvegliare e punire, pp. 213,214). Mi si perdonerà l’inflazionata citazione, ma è effettivamente il modo migliore per introdurre quello che tanti, tantissimi, operatori sanitari hanno provato – e stanno provando – in questo periodo: la sensazione di essere poco più che dei corvi. Sono note le polemiche – mai realmente sopite – riguardo l’approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale per il personale sanitario impegnato nell’emergenza Covid-19 e la tardiva, e ancora precaria, organizzazione di efficaci procedure di screening. E l’altissimo numero di professionisti infetti e deceduti è lì a dimostrare la fondatezza di questo sentimento. Ad appianare la cupezza di sentirsi corvi vi è la narrazione che ci identifica come eroi in prima linea in una battaglia contro un nemico infido che minaccia le fondamenta stesse della civiltà. Sia utilizzata in maniera genuina che strategica, la narrazione bellico-eroica crea evidentemente un cortocircuito sul piano dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici della sanità (si segnala al riguardo l’articolo di Vercellone pubblicato su Doppiozero, dal titolo La faccia nascosta dell’epidemia). Infatti, se il sanitario è un eroe, riuscirà a superare tutte le difficoltà umane legate alla penuria di protezioni e a testa alta affronterà il nemico con coraggio e spirito di sacrificio. Riguardo la tematica del sacrifico, in questa situazione sembra quanto mai azzeccato l’aforisma 220 della Gaia Scienza di Nietzsche: «Riguardo a sacrificio e a spirito di sacrificio le vittime la pensano diversamente dagli spettatori: ma da tempo immemorabile non si è mai data loro la possibilità di dirlo». Cosa direbbero le vittime odierne, avendone la possibilità? Probabilmente che chi si è infettato nel tentativo di curare gli altri non stava combattendo una guerra né ambiva ad essere un corvo o un santo, ma stava semplicemente – si fa per dire – lavorando. Questo sgombera il campo da una lunga serie di fraintendimenti e di narrazioni bellico-eroiche ingenue o peggio ancora capziose: se le vittime – che, nel loro ruolo sociale, sono anche gli unici possibili salvatori – esprimono una voce, è quella del lavoratore che rivendica il diritto di lavorare nella massima sicurezza possibile, per sé e per gli altri. «Fare il dottore è soltanto un mestiere», come cantava De André, è da intendersi in questo caso come affermazione e pretesa di un diritto. E questa prospettiva, è bene sottolinearlo, è pragmaticamente l’unica possibile per curare chi si ammala e permettere il funzionamento di piani sanitari adatti al contenimento dell’epidemia. In che modo e rispetto a quali priorità, in una situazione oggettivamente complicatissima, è stato garantito il diritto alla salute di quanti la salute sono impegnati a salvaguardarla? Ognuno, dalla sua prospettiva, può pensare una risposta a questa domanda.

 

Pensare in un’ottica moderata la retorica dell’eroe permette inoltre di rendersi conto che tantissime delle truppe sanitarie hanno fatto, fanno e faranno parte, a vario titolo, di assemblee con poteri decisionali anche di prim’ordine. Tutto questo ci riconduce ad una dimensione che è fin troppo umana e sicuramente poco eroica. La ricerca affannosa del capro espiatorio – da Fontana ai runners, dai cinesi a Bill Gates – nasconde dietro un dito una responsabilità degli errori che non può essere solamente esterna all’apparato sanitario o imposta dall’alto. E questo, per quanto duro, triste e in qualche maniera ingeneroso, è innegabile. Soltanto rendendosene pienamente conto e facendo una severa autocritica, quando sarà allentata l’emergenza sarà possibile agire in maniera diversa e, si spera, più efficace anche all’interno dell’organizzazione sanitaria stessa.

 

Il popolo

 

Nella prospettiva bellico-eroica sembra prodursi inoltre un effetto ulteriore: chi combatte in trincea, chi è in prima linea, appartiene al popolo. Costruzione problematica da sempre, il popolo distanziato socialmente si è invece avvicinato tantissimo sui social, coagulandosi – soprattutto nella fase iniziale – intorno all’eroismo delle truppe in prima linea e al loro generale dal volto umano, il Presidente del Consiglio. L’accettazione acritica di meccanismi come i decreti e i voti di fiducia – seppur inseriti nella prassi costituzionale e di cui probabilmente si abusava già precedentemente – nell’eccezionalità indiscutibile del momento si innesta, però, su un terreno scivoloso per la tenuta democratica del paese. Con questo non sto introducendo visioni complottistiche inerenti a un tentativo di colpo di Stato o alla nascita di un totalitarismo sanitario a suon di decreti d’emergenza ma semplicemente sottolineando che l’abuso di un meccanismo emergenziale può innescare delle problematiche politiche ulteriori. Certamente c’è la giustificazione derivante dalla situazione d’emergenza, ma è altresì vero che gran parte delle libertà individuali sono sospese da oltre due mesi e che iniziano a moltiplicarsi le notizie di una certa micro-discrezionalità d’azione da parte delle forze dell’ordine. Come si legge ormai abbastanza di frequente, in situazioni limite di quanto è stato in via generica codificato attraverso i vari Dpcm, essere o meno sanzionati per un tipo di comportamento spesso è demandato all’interpretazione discrezionale delle forze di polizia. E questo perché le limitazioni sono basate su un duplice principio di responsabilità, che distingue nettamente l’assunzione di responsabilità che può assumere il cittadino come individuo e il cittadino come imprenditore. Le limitazioni – giuste per mantenere basso il livello di contagio – della possibilità di movimento dell’individuo-cittadino si sono inasprite velocemente ai primi episodi d’eccezione. Gli assembramenti nei parchi sono stati giustamente vietati, ma per far questo è stato necessario chiudere definitivamente gli stessi anziché affidarsi alla responsabilità personale di ognuno e alla sua capacità di discriminare l’azione giusta da intraprendere in un contesto che non sia quello del proprio domicilio. In pratica è stato necessario vietare tantissimo per evitare comportamenti anche minimamente irresponsabili: la foto ormai emblematica dei poliziotti che si accingono a sanzionare una persona in spiaggia lontanissima da qualsiasi altro individuo è un esempio dirimente. In una situazione in cui qualsiasi forma di contagio è evidentemente impossibile, l’amante della tintarella primaverile è incappato in una sanzione giustificata da una norma che prevede di limitare il contagio. È un paradosso nella sostanza, ma giuridicamente la sanzione è regolare. Probabilmente riflettere su quali forme vogliamo dare al nostro vivere comune ci permetterà di valutare anche il rovescio della medaglia: tantissime aziende hanno chiuso molto tardi, o non hanno chiuso affatto, e dopo grossissime – non certamente del tutto ingiustificate – resistenze. Pochi hanno pensato – quantomeno pubblicamente – a chiedere gentilmente di riconvertire alcune linee produttive alla produzione di materiali che servissero nel momento dell’emergenza, ma ci si è affidati alla buona volontà – che indubbiamente c’è stata – di alcuni. Pochi hanno pensato che è sostanzialmente impossibile in un momento del genere controllare efficacemente se le misure anti-contagio all’interno delle fabbriche vengano rispettate e, ancor meno, si sono preoccupati del fatto che demandare la necessarietà della produzione all’autodichiarazione della stessa azienda non poteva portare ad altro che ad una proliferazione di richieste di deroga. Essere quantomeno attenti alle possibili conseguenze di queste decisioni, in un paese in cui la sicurezza sul lavoro non è propriamente un fiore all’occhiello e in cui le forme di lavoro precario e sommerso sono diffusissime – con tutte le spesso drammatiche conseguenze del caso – è quasi un imperativo categorico. Pensare che tutto ciò non abbia avuto una ricaduta sulle condizioni lavorative anche dei lavoratori della sanità è quantomeno ingenuo: i ritardi e la scarsità nella fornitura di dispositivi di protezione e di apparecchiature come i respiratori sono legate alle condizioni del mercato, così come la fornitura di protezioni per la popolazione. Mettendo a confronto le due possibili assunzioni di responsabilità vediamo come il cittadino individuo è stato introdotto in un sistema normativo che ne prevede la minima capacità decisionale e la massima possibilità di controllo da parte dello Stato. Per l’azienda è stato quasi, a livello concettuale, l’esatto opposto, nonostante le lamentele di Confindustria. Sentire il neo-eletto presidente dire in prima serata affermare che è grazie alla floridezza dell’economia che possiamo avere più salute può essere vero a livello generalissimo – anche se gli allegri medici giunti da Cuba sembrano quantomeno mettere in dubbio questo assunto dal sapore squisitamente neoliberista – ma non è necessariamente vero in un momento di estrema emergenza come quello che stiamo affrontando. Per affrontare la crisi economica che ci aspetta saranno necessarie nuove risposte rispetto a quelle prodotte dal 2008 in poi, soprattutto in merito alla priorità politica che avrà la tutela della salute rispetto a quella del bilancio. L’orizzonte è aperto a diverse possibilità ed è possibile leggere pareri anche opposti sullo scenario futuro: è indubbio che il virus sta facendo fortemente vacillare la tenuta di un certo ordine del discorso, basato sulla preminenza dell’aspetto economico anche nella gestione stessa della sanità.

 

Massa distanziata e fase 2

 

L’unione, rigorosamente via social, del popolo intorno ai suoi eroi e il desiderio del capro espiatorio – identificato spesso con il vicino di casa con ambizioni da flâneur – sta portando alla nascita della prima «massa distanziata» della storia. Elias Canetti in Massa e potere, pubblicato nel 1960 e scritto per ben 38 anni, avendo osservato i movimenti dell’epoca teorizza come propedeutico alla formazione di una massa il «capovolgimento del terrore di essere toccati». Nella nostra situazione – in cui il contatto è caldamente sconsigliato, oltre che terrorizzante a tutti gli effetti – sembra impossibile questa formazione. Guardando le altre azioni che concorrono alla formazione di una massa secondo Canetti, invece, appare evidente come una massa si stia formando attraverso la mediazione del «contatto digitale»: il bisogno comune di una meta – la fine dell’epidemia –, la tendenza alla omogeneizzazione e all’uguaglianza – spesso soltanto di facciata, ma comunque efficace – unite alla voglia di crescita e di concentrazione della massa – espresse prevalentemente attraverso l’esclusione dell’ostacolo, del diverso, del runner o cinese che sia. E soprattutto, il residuo di massa aizzata che sopravvive nei lettori di giornali teorizzata da Canetti calza a pennello per gli haters sui social network. Questo processo, i cui prodromi erano sicuramente già in atto, è stato fortemente accelerato dall’emergenza sanitaria sino a diventare, in maniera rapidissima, un elemento strutturante il sociale. La percezione del pericolo imminente unisce la massa digitale in una paradossale fuga statica nei propri domicili. E non è detto che sia del tutto negativo: nella fuga, la massa, se non cade preda del panico, trae forza dalla propria coesione elevando il proprio movimento collettivo. Ora che siamo entrati nella fase 2, sarà necessario elevare il nostro movimento collettivo per allontanare ulteriormente il virus: di pari passo devono poter viaggiare l’esercizio di un’attenta funzione di sorveglianza popolare, attraverso la partecipazione attiva al bilanciamento dei poteri democratici (si veda al riguardo, per chi fosse interessato, il bel libro di Pierre Rosanvallon, Controdemocrazie) e la formazione di comportamenti responsabili che siano a tutela della salute di tutti, meno imposti e più consapevoli possibile. Pensare questi ultimi aspetti come un impegno da assumere in quanto professionisti della salute potrebbe essere un modo per passare dall’essere semplici truppe impegnate nell’emergenza a cittadini – e professionisti – consapevoli. Sta solo a noi provare a trarre anche qualcosa di buono dal nostro – per quanto ineffabile e terribile – sintomo.

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