di Riccardo Donati
[È in uscita per Carocci editore Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda di Riccardo Donati. Il libro, rivolto sia a lettori sia a studiosi, è la prima monografia interamente dedicata all’autrice. Ne pubblichiamo qui un estratto dall’Introduzione]
Neanche a me piace.
A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre,
dopo tutto, uno spazio per l’autentico.
M. Moore, La poesia
Caratteri di un sentimento poetico
«Il mondo è ciò che percepiamo»: questa la lezione del fenomenologo tedesco Edmund Husserl che Antonella Anedda fa propria (Ruggieri, 2009, p. 218). Tuttavia, poiché le nostre percezioni risultano a dir poco imperfette, l’ambiente circostante recalcitra quando cerchiamo di ridurlo in parole. Esprimersi significa dar corso a qualcosa di labile, approssimativo, potenzialmente pericoloso. Fra dire e tacere la lingua esita incerta, sosta sulla soglia del pensiero. A chi, a cosa parla la voce di Anedda?
Non parlavo che al cappotto disteso 1
al cestino con ancora una mela
ai miti oggetti legati
a un abbandono fuori di noi
eppure con noi, dentro la notte 5
inascoltati (RI, p. 15).
Il «non… che» iniziale, osserva acutamente Andrea Afribo (2007, p. 188), restituisce, in forma negativa, la necessità di un’alleanza del soggetto senziente con le cose. I «miti oggetti» (v. 3) sparsi nella stanza, roba qualunque eppure misteriosa ed emblematica, parlano di noi, dicono la solitudine umana, il nostro essere sottoposti alla sofferenza, al sopruso, all’abbandono. Sono carichi di investimenti simbolici, cognitivi, affettivi. Eppure, niente di ciò che ci circonda è “nostro”: in nessun modo i «miti oggetti» si lasciano definire, afferrare, possedere. Non c’è modo di soggiogarli per forza di linguaggio. Sono, dunque, familiari ed estranei a un tempo. «Parlare agli oggetti anziché degli oggetti», nota Caterina Verbaro (2010, p. 319), «è il modo in cui questa poesia riduce sistematicamente la distanza tra l’io e il mondo, tra il corpo e l’inorganico, tra il soggetto e l’oggetto», parificando, attraverso un’interlocuzione affettiva, il sé e il fuori di sé. Non si può tenere discosta la realtà, non si può “darle sulla voce”: per avviare un dialogo con quanto percepiamo al di là del nostro perimetro corporeo occorre farglisi incontro, mettersi al suo stesso livello, «approfondire», nelle parole di Carmelo Colangelo riferite a Jean Starobinski, «l’estraneità della presenza» (Colangelo, 2001, p. 50).
Ecco a cosa invita, in prima istanza, la voce di Anedda: a dialogare con l’esterno lasciandolo rifluire dentro di noi. Ad avere compassione del mondo, nel doppio senso della parola passio: desiderio che muove, patire che smuove. Agisce qui la lezione d’un «pensiero rammemorante», filosofico-poetico, che, superata la schematica contrapposizione tra soggetto e oggetto, opera «in modo che anche ciò che è ovvio, banale e “a portata di mano” possa cominciare a esprimersi diversamente» (Bodei, 2010, p. 45). Un pensiero, dunque, che si avvicina con rispetto a quanto cade sotto i sensi, ne comprende la profonda vulnerabilità, gli rivolge un’attenzione partecipe e sobria, infine si dispone ad accoglierlo (a ragione Martin Rueff parla, per Anedda, di «un lirismo dell’ospitalità», 2009). Dare ricetto a quanto sta «fuori di noi / eppure con noi» (vv. 4-5), far esprimere le cose mute, parlare agli oggetti anziché degli oggetti, è del resto ciò che fanno, in modo del tutto irriflesso, i bambini nei loro giochi, è quel che capita ai protagonisti delle fiabe e dei racconti fantastici. Non si tratta, si badi, di un’evasione consolatoria: proprio come nelle favole o nelle leggende, tale incontro contempla un rischio, una quota di pericolo, lo sporgersi su un vertiginoso abisso di implicazioni esistenziali.
Delle due azioni evocate in apertura e chiusura di Ora tutto si quieta, tutto raggiunge il buio (questo il titolo del componimento sopra riprodotto), il parlare (v. 1) e il tendere l’orecchio (v. 6), quella che viene prima, fondamentale e irrinunciabile, è senz’altro la seconda: «La voce del poeta? Nulla se non esiste l’ascolto» (LLDC, p. 150). Tutti i lavori di Anedda nascono da una tenace volontà di predisporsi a captare più che a inviare messaggi, a mantenersi ricettivi tenendo «le orecchie aperte / capaci di ascoltare» (RI, p. 29). Agisce qui la lezione di una delle autrici a lei più care, Marina Cvetaeva, i cui libri, a partire da Indizi terrestri, nascono da un’«offerta di ascolto» (De Angelis, 1982, p. 12). Siamo dunque in presenza di una scrittura che intende prestare attenzione soprattutto all’inermità e all’intrinseca fragilità dell’esistente, decisa, prima di ogni altra cosa, a “ben intendere”, nel doppio senso, acustico e logico, di questo verbo. Tale disposizione implica anche, com’è naturale, una continua ricerca di confronto con le esperienze altrui, con emozioni culturali provenienti da tempi e latitudini diversi. Leggere, riflettere, entrare in contatto con altre realtà sono gesti conoscitivi indispensabili per interrogare e interrogarsi a fondo su ciò che ci sta intorno. La cultura, del resto, è soprattutto scambio, qualcosa che ci è necessario – a condizione che sia maneggiato con attenzione, rispetto, franchezza – per allargare lo spazio di “pensabilità”, e dicibilità, del mondo.
Quando poi, dopo l’ascolto, giunge il momento di esprimersi, di parlare a, il problema etico dell’essere onesta (con sé, con chi legge) si pone come decisivo: «la scrittura ha un compito nel quale è importante non barare, non ferire, non mentire» (AA, 1998a, p. 104). Questo il quesito fondamentale: come sterrare, trafficando in parole, quello «spazio per l’autentico» di cui parla la poetessa statunitense Marianne Moore nei versi citati in esergo? Come evitare cioè di produrre segni vacui, inerti, inautentici, per usare una categoria negativa alla radice del pensiero moderno? Innanzitutto, situando la propria voce, sia nel senso del concreto hic et nunc (da dove, da quale punto nello spazio e nel tempo si parla?), sia nel senso del “prendere posizione”, chiarendo a priori quale sia la propria, di posizione (etica, filosofica, autoriale). Anedda non predica assoluti e non dispensa verità astratte; i suoi scritti dimostrano una precisa consistenza topologica, si collocano con franchezza nel tempo e nello spazio che li ha prodotti. Chi scrive non nasconde mai ciò che è: una figlia, una madre, una moglie, una signora appartenente a una determinata fascia sociale (la borghesia italiana a cavallo tra Ventesimo e Ventunesimo secolo), la cittadina di una Repubblica occidentale, una studiosa, un membro della specie umana. Il poeta onesto parla dall’angolo d’inclinazione della sua esistenza, asserisce Emmanuel Lévinas (1984, p. 50), ossia si affaccia sul mondo dalla posizione che in esso occupa, non può fingerne un’altra. Il fatto di dichiarare, con nettezza, chi si è, cosa si fa, come avvenga il tremante attraversamento dall’esperienza di ogni giorno in una vita qualsiasi segnata da inquietudini, dubbi, sofferenze, ossessioni e paure è il modo attraverso cui Anedda intende fare della poesia uno «spazio per l’autentico».
Questo franco radicarsi nella concretezza del vivere, temporalmente e spazialmente connotato, non comporta tuttavia, occorre precisarlo, l’adozione di una scrittura mimetica. Autenticità non significa imitazione ingenua, anzi. «Il mondo è ciò che percepiamo» ma le nostre percezioni sono dati bruti rielaborati da una mente che si immerge di continuo in imprevedibili scenari di ordine psichico, tra sbandamenti e volizioni. Restituire sulla pagina l’esperienza dei fenomeni – compreso lo stare silenzioso di una mela in un cestino e di un cappotto su un letto – significa far baluginare frammenti e impressioni, esperienze troncate e (non sempre) ricomposte, strati sovrapposti della coscienza. Sovente la scrittura di Anedda presenta istanze trasfigurative che aprono alle accensioni dell’immaginario, all’accamparsi di nuclei latenti ed enigmatici di senso, all’affioramento di territori liminari tra memoria, desiderio e fantasia. Le dimensioni della fiaba, della suggestione visionario-antropologica, del brancolamento in gorghi onirici, ad esempio, le appartengono pienamente («sto scrivendo questo libro come in sogno», IS, p. 93). Di più, non è raro riscontrare nei suoi lavori momenti di disallineamento propri di chi per un attimo non aderisca al mondo, si senta provvisorio e fuori luogo, colga uno sfasamento, un’incrinatura che possono persino far vacillare lo statuto stesso della realtà (con, o senza, un montaliano presagio di rivelazione). Quando si leggono passaggi come questi: «il dubbio di esistere davvero» (SCN, p. 80), «sbandiamo tra gli oggetti sperando siano veri» (ivi, p. 88), «osservo da sempre il mondo dubitando che esista» (IS, p. 25), il pensiero corre, oltre che a Franz Kafka (l’autore prediletto di Anedda) e Samuel Beckett, a una tradizione di pensiero antica, quella gnostica (importante anche per la qabbalah ebraica, cara alla scrittrice) che appunto mette in questione le fondamenta stesse della realtà, senza tuttavia abbandonarsi all’irrazionale, al gratuito, al capriccio. Persino la tradizionale logica asimettrica risulta talora spodestata, nei testi di Anedda, dal cosiddetto pensiero bi-logico, secondo il quale è possibile che qualcosa esista e, insieme, non esista: «(lei è – e non è – mia madre)» (SCN, p. 27; cfr. Simonetti, 2018, p. 224).
Ancora. La volontà di schiudere spazi di “autenticità” implica uno sforzo di rinuncia e sacrificio del sé, secondo quanto si legge nella prosa Regine della notte: «così concepisco la scrittura: scrivere per sparire, perché la vita si squaderni davanti a me, senza di me» (LLDC, p. 32). In effetti, come chiariremo nel corso del libro, tutta l’opera di Anedda è segnata dallo strenuo tentativo di sottrarsi quanto più possibile al narcisismo di chi dice “io”, al cerchio asfittico di un ego autocentrato. «Il cancellarsi, il sottrarsi è per il poeta l’unico modo di esistere e resistere», osserva in un saggio dedicato a uno dei suoi maestri, il poeta svizzero Philippe Jaccottet (AA., 1998a, p. 103). “Esistere”, “resistere”: ecco due termini ulteriormente chiarificatori dell’universo etico-autoriale di Anedda ed esemplari del suo rifiuto dell’inautentico. “Esistere” significa prendere atto della costitutiva precarietà umana, tener conto del nostro ritrovarci ad attraversare il tempo «storditi dalla nostalgia» e «confusi dai sogni» (RI, p. 38), lacerati dall’angoscia del finire, visitati da vertiginosi momenti di attrazione per il vuoto, straziati dalle tragedie della storia, ma pur sempre assetati di vita. Se l’essere umano è – e non cessa di essere, anche al tempo dell’ipertecnologia – transeunte, impermanente, non resta allora che fare della vita un’esperienza di alleggerimento: «non si può andare verso la morte se non sforzandosi di pesare poco, sempre di meno. Pesare poco, sparire in silenzio, un esercizio difficile, un lungo cammino per accettare che il nostro corpo possa essere sostituito dalla paglia e il volto da una maschera di garza» (LLDC, p. 116).
“Cammino” è un’altra parola decisiva del vocabolario di Anedda, certo quella che meglio connota il senso dell’“esistere”. Il termine qualifica infatti un itinerario di vita e di pensiero, etico-poetico, da costruire per ripetute approssimazioni, passo dopo passo. Caminante, no hay camino. Se hace camino al andar: questi celebri versi di Antonio Machado, uniti all’invito di Paul Celan – un poeta che è stato e resta un punto di riferimento indispensabile per tanta lirica italiana contemporanea – a farsi «pellegrini del linguaggio» (AA, 1990, p. 18), rinnovano l’idea romantica del poeta come wanderer ma soprattutto quella, medievale e dantesca, dell’homo viator. Ci si riferisce qui, ovviamente, non già al Dante castrante “padre della patria” e padrone della lingua imposto dalla tradizione retorico-politica, bensì all’uomo di pena che in esilio “peregrina”, con le scarpe rotte, per la Penisola e nei regni dell’Aldilà (AA, 2002a, p. 328). L’erranza e la marginalità, l’andare a tentoni del poeta-viandante nella notte della storia e dell’esistenza – in spazi percorsi non solo in orizzontale, guardando alla vastità del cielo, ma anche in verticale, verso le oscure profondità della terra – sono elementi che trovano costante accoglienza nella scrittura di Anedda, dove all’attenzione per i «miti oggetti» corrisponde il riguardo per gli ultimi, i perseguitati, per chi si muove randagio, e più in generale per tutto ciò che resta sottotraccia, sommerso e schiacciato dallo scorrere dei giorni. Si impongono qui con forza le ragioni di una cifra etica che potremmo definire di pietas laica, basata su un’idea di “povertà” intesa come semplicità primaria dell’esistere, che molto deve a Rainer Maria Rilke (il quale parlava, per la modernità, di un “tempo della miseria”) e, prima di lui, a Friedrich Hölderlin (che poneva il quesito, attualissimo e radicale, perché poeti in tempo di povertà?).
Quanto a “resistere”, il richiamo va alla «giustizia dello sguardo» «di chi apre gli occhi e resiste» (LLDC, p. 71; da questo sintagma il titolo del presente volume). Votarsi all’“autenticità” significa anche impegnarsi a vedere nitidamente, fissare con occhi sgombri l’intollerabile ferocia della natura, della storia, della società, per fronteggiarle, «in sintonia con quello che scrive Simone Weil: “ogni volta che facciamo attenzione distruggiamo il male in sé”» (LVDD, p. 94). Sebbene si esprima con cautela e misura, la voce di Anedda non è mai supina né arrendevole. Al contrario: indocile, a suo modo indomita (si veda in tal senso l’Autoritratto come guerriero nuragico in SCN, p. 12), la caratterizza un’ostinata volontà di porre «domande ultimative e impossibili» (Lecchini, 2006, p. 228). Restare vigili e reagire, sottrarsi alle parole d’ordine del momento, alle barbarie della politica e del “così fan tutti”, affrancandosi al contempo da ogni presunzione individualistica e narcisistico-regressiva, avvertendo la responsabilità di dire l’altro come sé, l’altro in sé: queste le intenzioni di fondo che caratterizzano il movimento di pensiero interno al suo lavoro, mai venute meno e anzi consolidatesi nel corso degli anni.
Da tali premesse etico-filosofiche discende una precisa prassi creativa: come in Celan e in altri maestri novecenteschi, la critica ai cattivi usi della letteratura è inscritta nella natura stessa della voce di Anedda. Non esiste “autenticità” senza la «severità» (De Angelis, 1990) di uno stile da perseguire con caparbietà, sfrondando il superfluo in direzione di un dettato asciutto, privo di «quell’allusività che può essere suggestiva, ma falsa» (AA, 2002b). Rigettando effusività, enfasi e coloriture decorative, da sempre la scrittrice ignora i meccanismi di seduzione e sedazione di cui i letterati abitualmente si servono. È refrattaria al richiamo di una prosa, di una poesia oscure e pretenziosamente ineffabili (sebbene, soprattutto nelle prime prove, non manchino momenti meno limpidi) come al sapore dolciastro del disincanto e a quel cinismo di grana grossa, magari un po’ ghignante, che per gli autori del postmoderno ha rappresentato un rifugio, una consolazione, un alibi. Parimenti, si sottrae alla vertiginosa tentazione di cantare il niente, l’impero del nulla. Crede ancora possibile scrivere poesia dopo Auschwitz (cfr. AA, 1998b), purché si tenga conto del fatto che gli orrori del Novecento hanno inquinato in modo irreversibile il vocabolario, rendendo impronunciabili certe parole e reso osceno ogni dire tronfio e vessatorio, perentorio e ingiuntivo. In luogo dell’irricevibile modo frontale, tribunizio, cattedratico o spettacolare di porgere un testo, Anedda articola la voce da una posizione obliqua, laterale, sghemba, in risposta a un sentimento – il pudore – dettato non da reticenza ma da coscienziosità. E, soprattutto, ritiene che chi parla debba sottrarre invece di aggiungere. L’atto di enunciazione si compie sempre, per lei, in levare, cavando il troppo dal pieno – secondo la lezione di Michelangelo, per il quale chi crea deve imparare a togliere «a se stesso, alla materia, al blocco di marmo e pietra» (LLDC, p. 115). Il nome di Michelangelo non tragga in inganno: niente a che fare, qui, col luogo comune del Genio, dell’Artista Ispirato. Siamo in presenza di un’idea molto umile, artigianale, di creazione, che induce Anedda a definirsi, citando Marianne Moore (I am a worker with words), una “lavoratrice della parola” (CSGA, p. 85) – notevole in tal senso l’identificazione con la figura dello scriba (NPO, p. 35), già cara a tanti maestri del nostro Novecento.
E dunque, per concludere: a cosa mira, quando parla, questa voce? Certamente non a sedurre né a consolare, producendo, come fa la letteratura dozzinale, identificazione emotiva. Non perché sia algida e distaccata, tutt’altro, ma perché le emozioni che porta sulla pagina si sottraggono al vacuo circuito tautologico di confermare sé stesse, configurandosi semmai come tappe – ancora l’immagine del pellegrino che avanza con passo purgatoriale – di un arduo percorso di incremento cognitivo ed etico. Emozionarsi per accendere il pensiero, non per spegnerlo. E poi: scartare dal già dato in vista di un oltre, di una possibilità ulteriore che squarci la cortina grigia dell’esistente. Per quanto ci parlino, tra le altre cose, di drammi, di lutti, di momenti di scoramento esistenziale, i testi di Anedda – come ogni vera opera d’arte, non importa quanto disperata e tragica – sollecitano più vita.
E la lettrice, e il lettore, in tutto questo? Anedda preferisce chiamarli interlocutori (Lisa, 2006, p. 27) e assegnar loro il decisivo ruolo di “esecutori” dello spartito del libro, sulla scorta di quanto annotava Cvetaeva: «un libro deve essere eseguito dal lettore come una sonata. I segni sono le note» (LLDC, p. 37). Non meno del compositore, l’esecutore-interlocutore è chiamato a compartecipare; lo ricordava magistralmente qualche anno fa Ezio Raimondi, osservando: «quanto più il lettore si sforza di portare verso di sé ciò che si propone di comprendere, arricchendolo con la propria vitalità e la propria esperienza di senso, tanto più lo preserva nella sua integrità e nella sua differenza» (2007, pp. 24-5). La pratica letteraria, e la poesia in particolare, non cura e non salva, spesso esce sconfitta dal confronto con l’esistente. Ma è preziosa perché è qualcosa invece di niente, del niente. Avvia un dialogo, come scrive Virginia Woolf in Orlando (1928): a voice answering a voice, una voce si protende nello spazio e nel tempo per raggiungerne un’altra, per stimolare una reciproca donazione di senso. La scrittura diventa allora un atto di riconoscimento tra simili, nella consapevolezza che il confine tra la nostra vita e quella degli altri è sottile, forse inesistente. «Non vedo differenza, scrive Paul Celan a Hans Bender, tra una stretta di mano ed un poema» (Lévinas, 1984, p. 47; cfr. anche Miglio 1997). E Anedda ripete: «la poesia non è diversa da una stretta di mano» (LVDD, p. 135). Proprio come il genere della “conversazione” in pittura: un «cenno civile scambiato nella luce» (LD, p. 14).
Testi citati nel capitolo
Opere di Antonella Anedda
CSGA…..Cosa sono gli anni. Saggi e racconti, Roma, Fazi, 1997.
IS…..Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena, Roma-Bari, Laterza, 2013.
LD…..La lingua disadorna, Brescia, L’Obliquo, 2001.
LLDC…..La luce delle cose. Immagini e parole nella notte, Milano, Feltrinelli, 2000.
LVDD…..La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, Roma, Donzelli, 2009.
NPO…..Notti di pace occidentale, Roma, Donzelli, 1999.
RI…..Residenze invernali, Roma, Crocetti, 1992 (e 2008).
SCN…..Salva con nome, Milano, Mondadori, 2012.
Altri testi citati
Afribo A. (2007), Poesia contemporanea dal 1980 a oggi. Storia linguistica italiana, Roma, Carocci.
Anedda A. (1990), recensione a H. G. Gadamer, Chi sono io, chi sei tu, in “Malavoglia”, 5, giugno 1990, pp. 18-9.
Id. (1998a), Perdita e attesa nell’opera di Philippe Jaccottet nell’opera collettiva La parola di fronte: creazione e traduzione in Philippe Jaccottet, introduzione di F. Kaucisvili Melzi d’Eril, Firenze, Alinea, 1998, pp. 103-10.
Id. (1998b), “Accanto” ad Auschwitz. La poesia di Paul Celan, in “Nuovi argomenti”, 4, ottobre-dicembre 1998, pp. 266-280.
Id. (2002a), Una musica diversa, in Ritmologia. Il ritmo del linguaggio. Poesia e traduzione, a c. di F. Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2002, pp. 325-32.
Id. (2002b), [prefazione a] Giorgio Bertelli: dalla serie paesaggi con figure assenti, Roma, Edizioni di Negativo, 2002, s.p.
Bodei R. (2010), La vita delle cose, Roma, Laterza.
Colangelo C. (2001), Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski, Macerata, Quodlibet.
De Angelis M. (1982), Poesia e destino, Bologna, Cappelli.
Id. (1990), Nota a A.A, Voci per alleati, in “Poesia”, 30, giugno 1990, p. 57.
Lecchini S. (2006), Anedda: il senso del cammino in I fantasmi della libertà. Scrittori fra invenzione e destino, Bergamo, Moretti&Vitali, pp. 228-31.
Lévinas E. (1984), Nomi propri, a c. di F. P. Ciglia, Casale Monferrato, Marietti.
Lisa T. (2006), A.A. [intervista] in Poetiche contemporanee. Colloqui con dieci poeti italiani, a c. di T. Lisa, Arezzo, Zona, 2006, pp. 21-9.
Miglio C. (2005), Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Macerata, Quodlibet.
Raimondi E. (2007), Un’etica del lettore, Bologna, Il Mulino.
Rueff M. (2009), A.A. “L’aria è piena di grida”, in “Cartaditalia. Rivista di cultura italiana contemporanea”, 2, novembre 2009, p. 104.
Ruggieri A. (2009), conversazione con A.A., in “Smerilliana. Luogo di civiltà poetiche”, 10, 2009, pp. 215-27.
Simonetti G. (2018), La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino.
Verbaro C. (2010), Natura morta con cornice. La poesia di A.A., in “Italian Poetry Review. Plurilingual Journal of Creativity and Criticism”, 5, 2010, pp. 315-30.
Articolo molto bello. Molto ben scritto
Due domande: a) Dov’è l’assunzione di rischio nella posa dell’inermità? b) dov’è il modo frontale, tribunizio, catteddratido di porgere il testo? Non ne vedo e, ove ci fosse, contribuirebbe a trasformare a fare della posa una posizione
Claudia