di Pietro Del Soldà
[Nella fase 2, decreta il governo, gli amici non rientrano tra gli “affetti stabili” che giustificano gli spostamenti. Pubblichiamo per contrasto, e per gentile concessione dell’editore, il primo capitolo del volume di Pietrò Del Soldà, Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro, uscito in questi giorni per Marsilio].
Volersi bene non basta
E se l’amicizia fosse solo una questione d’affetto? Perché interrogarsi troppo sulla sua natura, su ciò che la rende diversa dalle altre relazioni? E perché pretendere che si tratti di un sentimento complesso? Non è in fondo l’esperienza più semplice, la più immediata, quella che conosciamo sin da bambini? Del resto, quand’anche si trattasse solo di un volersi bene, sarebbe comunque un legame prezioso, irrinunciabile. Un sentimento simile, infatti, riesce ancora ad aprire qualche crepa in quel muro invisibile che troppo spesso ci divide rendendoci indifferenti gli uni agli altri.
L’amicizia così intesa è un sentimento caldo, prezioso per sopravvivere in un mondo freddo, dove le emozioni circolano, ma sono per lo più superficiali, poco articolate, incapaci di fare da ponte tra noi e gli altri. Quest’amicizia è uno slancio verso il prossimo, forse il più forte che oggi possiamo sperimentare. Certo non è rivolto a tutti gli altri: non è un’apertura ecumenica e universale perché è reciproca e paritaria, esige che gli amici si conoscano bene e provino le stesse emozioni quando entrano in contatto; un gesto di carità, ad esempio, può veicolare affetto ma raramente vera amicizia. È un legame molto concreto, radicato com’è nella pratica di vita, nella familiarità, nell’assidua frequentazione. Calore, vicinanza, partecipazione alle gioie e ai dolori, aiuto reciproco, impegno per affrontare insieme i problemi, sono i punti chiave dell’amicizia intesa nel modo più semplice e immediato.
Tuttavia, se non andiamo oltre, se terminiamo qui il nostro sforzo di definirla, rimane un problema irrisolto. Questa concezione dell’amicizia non è adeguata: non esprime appieno la nostra natura e non realizza quello che ciascuno di noi nel profondo – ne sia consapevole o meno – cerca nel rapporto con gli altri. Per capire di che cosa si tratta, ancora una volta, è decisivo confrontarsi con il più sapiente tra i greci.
Socrate tiene all’amicizia sopra ogni cosa, ma per amicizia intende qualcosa di molto più articolato e difficile da cogliere, qualcosa che non si riduce a una forma d’affetto. Volersi bene non basta, dunque. Anzi, in diverse occasioni, ci imbattiamo in un Socrate per nulla accogliente nei confronti degli amici e che, nella circostanza più difficile della sua vita, appare freddo e poco indulgente verso le loro debolezze. La benevolenza reciproca e l’affetto non servono a definire l’amicizia socratica: per il sapiente ateniese, è in gioco molto di più.
La prova estrema è il momento fatale della sua esecuzione, raccontata da Platone nel Fedone e nel Critone. Gli amici lo accompagnano anche nell’ora più buia, durante gli ultimi istanti della sua vita, attendendo che esali l’ultimo respiro nella cella in cui Atene, la sua Atene, l’ha rinchiuso condannandolo a morte. I capi d’accusa sono noti: empietà nei confronti degli dei e della città, fede in altre divinità demoniche e corruzione dei giovani, coinvolti nei dialoghi e da lui incoraggiati, dicono gli accusatori, a comportarsi in modo irriverente, immorale, incompatibile con la retta via che ogni buon cittadino dovrebbe seguire. In realtà, se solo volesse, il maestro di Platone potrebbe salvarsi. Gli basterebbe chiedere ai giudici di risparmiargli la vita e di mandarlo in esilio, consentendogli di continuare a vivere e a filosofare in un’altra città. Socrate, però, sceglie di rimanere ad Atene a ogni costo: una decisione radicale che sorprende i concittadini e getta nel più profondo sconforto i suoi amici che, terrorizzati dall’idea di vivere in un mondo senza di lui, cercano fino all’ultimo di convincerlo a fuggire. Il dolore è troppo grande e questi uomini saggi, coraggiosi e giusti versano lacrime copiose, che a noi sembrano la prova tangibile dell’amore sincero che li lega al vecchio amico, tracce di un’umanità profonda le quali, senza vergogna, bagnano il viso di uomini adulti e potenti. Socrate, invece, in quegli ultimi istanti fatali non solo non piange e non condivide la sofferenza degli amici, ma considera il loro pianto un errore. Le lacrime dimostrano che quegli uomini, pur disposti a tutto per salvarlo, non sono all’altezza della vera amicizia. L’amicizia, infatti, richiede anche la conoscenza di ciò che davvero costituisce il bene per noi e per chi amiamo. Una conoscenza che Critone, Fedone e gli altri non hanno raggiunto (curiosamente, nei momenti fatali narrati nel Critone e nel Fedone, Platone racconta di non essere stato presente). Ciò è sconcertante, quasi crudele. Questo Socrate pronto a morire ci appare privo di empatia: fermo, freddo e stentoreo, liscio e sfuggente come il gesso bianco con cui Antonio Canova tentò di catturare e riprodurre quelle scene nel ciclo dei bassorilievi Barisan.
Perché tanta durezza nei confronti di persone così affezionate, che si disperano per la sua sorte? Vale la pena di ritornare ad Atene, nel momento di massima tensione, al fianco di Socrate che va a morire. Partendo però da un’altra storia, da un mito antico che gli ateniesi di allora ben conoscevano. Un mito che ci sposta a poca distanza dalla città in attesa dell’esecuzione, sulla cima più alta di un promontorio dove lo sguardo si estende sul mare.
L’errore di Egeo
Fu la disperazione, racconta il mito, a gettare Egeo tra le onde, donando al mare il suo nome. Il re di Atene attendeva con ansia, scrutando l’orizzonte dalle alture di Capo Sunio, la punta meridionale dell’Attica che per i naviganti è il segno del ritorno, o dell’addio. A un tratto i suoi occhi scorsero il veliero del figlio, Teseo, che finalmente rientrava da Creta. Purtroppo però Egeo scorse ciò che non avrebbe mai voluto vedere: sospinta dal vento la nave avanzava spiegando vele nere, non bianche – come avrebbero dovuto essere, secondo quanto convenuto, per annunciare la vittoria di Teseo. Egeo pensò dunque che la terribile profezia ricevuta a Delfi molti anni addietro, prima che Teseo nascesse, si fosse compiuta, che il figlio avesse fallito la sua missione e fosse rimasto ucciso nello scontro con il Minotauro. Sopraffatto dal dolore, si suicidò buttandosi tra i flutti.
Ma il re di Atene si sbagliava. Un tragico errore, sostengono alcuni, aveva fatto sì che Teseo fosse ripartito da Creta issando le vele nere. Altri, invece, assicurano che fu una scelta deliberata di Teseo, altri ancora una necessità dovuta a una tempesta che aveva squarciato le vele bianche al largo di Naxos e obbligato l’equipaggio a sostituirle con quelle nere. In ogni caso, il giovane eroe non era affatto morto e tornava da trionfatore. Grazie all’ingegno di Arianna, la giovane figlia di Minosse sedotta e poi abbandonata sugli scogli di Naxos, Teseo aveva liberato Atene dal terribile tributo dovuto al re di Creta in cambio della pace: il sacrificio rituale di sette fanciulli e sette fanciulle dati in pasto al Minotauro, il mostro dalla testa di toro e avido divoratore di carne umana, imprigionato nel labirinto disegnato da Dedalo.
Molto tempo dopo queste vicende leggendarie, nel 399 a.C., mentre ad Atene si attende con impazienza l’esecuzione di Socrate già condannato e rinchiuso in carcere, un segnale ancora più infausto arriva sempre dall’altura di Capo Sunio. Al largo si scorge la stessa nave: si tratta del veliero sacro di Teseo, che per devozione gli ateniesi hanno saputo conservare nei secoli. L’unica differenza è che la nave – restaurata con cura generazione dopo generazione, le parti vitali sostituite negli anni con legni nuovi (al punto che secoli dopo Plutarco, inaugurando un dibattito filosofico sull’identità, si chiederà se sia giusto considerarla la stessa imbarcazione) – ora non arriva da Creta, ma giunge ad Atene da Delos, dallo scoglio sacro conficcato nel cuore dell’Egeo, a un soffio da Mykonos. Sta per concludersi, infatti, il viaggio rituale compiuto sull’isola sacra, presso il locale santuario di Apollo, per ringraziare il dio e celebrare l’impresa di Teseo.
Tradizione vuole che per il periodo della navigazione, dal momento solenne in cui il sacerdote ad Atene benedice la nave in partenza, fino al giorno successivo al suo ritorno dalle Cicladi, cada sulla polis l’obbligo della purezza, katharsis: nessuna vita può essere spezzata, nemmeno se è una sentenza a imporlo. In quell’anno infausto in cui Atene sceglie di liberarsi del suo uomo migliore, la nave, per una curiosa coincidenza, è salpata la sera prima della condanna di Socrate, prolungando così oltremisura (trenta giorni, dice Senofonte) la sua attesa nel braccio della morte.
Ma ora la nave sta per tornare o almeno così, secondo Critone, riferiscono alcuni viaggiatori appena giunti in città da Capo Sunio, che sostengono di averla vista con i loro occhi. Altri invece, tra i quali l’affidabile Fedone, assicurano che la nave ha già attraccato al Pireo (ma qui è Platone stesso a confondere le acque offrendoci, nel Fedone e nel Critone, due versioni diverse sui tempi d’arrivo). Poco cambia, comunque: l’esecuzione della sentenza più importante per la storia di Atene ormai si avvicina, l’ora in cui si compirà il destino di Socrate è prossima. E stavolta nessuno può ingannarsi, come accadde al povero Egeo: del fatto in sé, la morte di Socrate, c’è poco da dubitare. La fine del filosofo, al contrario di quella di Teseo, è certa ed è solo questione di ore.
Al di là delle somiglianze simboliche, le due storie hanno qualcos’altro che le accomuna nel profondo. Anche nella vicenda tragica della vera morte di Socrate, esattamente come nella storia della falsa morte di Teseo, c’è di mezzo un errore. In entrambi i casi, chi interpreta i segni in arrivo a Capo Sunio come annunci di morte, e si dispera, sbaglia di grosso. Nel caso di Teseo, lo abbiamo visto, a sbagliare è il padre, Egeo. Forse per impazienza, perché sarebbe bastato attendere qualche ora e l’avrebbe rivisto vivo e vegeto a bordo della nave, forse perché si fidava troppo del figlio e non si fece nemmeno sfiorare dal dubbio che avesse potuto issare le vele sbagliate.
Nel caso della morte di Socrate, sono i suoi amici più stretti a ingannarsi: la notizia che la nave è in arrivo costituisce per loro il segnale inequivocabile della fine. Ormai non c’è più niente da fare, pensano, Socrate è spacciato. Perché sbagliano? In che modo la loro constatazione disperata della morte imminente è un errore al pari di quello commesso da Egeo? Rispondere a questa domanda significa avvicinarsi al cuore di ciò che Socrate intende per amicizia.
Nella cella del condannato
Mentre gli ateniesi attendono la sua fine, Socrate, dal canto suo, pur avendo trascorso un mese intero nel braccio della morte, appare sorprendentemente calmo, sereno, «felice». Il sole non è ancora sorto quando l’amico Critone, un uomo buono ma certo non tra i più brillanti, entra nella sua cella dopo aver corrotto il custode. La sua è una missione disperata: è forse l’ultimo giorno utile e rimangono poche ore per mettere in atto il piano di fuga al quale hanno lavorato in tanti. Eppure, ai piedi del letto di Socrate immerso nel buio, Critone esita. Trova l’amico sprofondato in un dolcissimo sonno e non ha il cuore di destarlo. «Non ti ho svegliato perché tu continuassi a riposare nel modo più gradevole», gli dirà poco dopo. Critone è davvero sbalordito, ammutolito (come dargli torto?) dalla tranquillità con cui Socrate sopporta una simile sventura.
Ormai sveglio, Socrate prova a spiegargli quel mistero: se si lamentasse, dice all’amico, comprometterebbe la melodia, meles, che informa tutta la sua vita senza interruzioni. Una spiegazione suggestiva, certo, ma troppo raffinata per il buon Critone che, dopo averci pensato su, non si dà per vinto e torna alla carica: «Ma almeno ora, buon Socrate, dammi retta e salvati!». I soldi non mancano: «Il mio avere è a tua disposizione e ritengo sia sufficiente», dice, terrorizzato come Apollodoro, come Fedone, come lo stesso Platone e molti altri, dall’idea di perdere un amico così prezioso. «Inoltre se tu, preoccupandoti per me, non reputi di dover spendere del mio, ci sono qui questi forestieri disposti a spendere: Simmia di Tebe ha portato con sé il denaro necessario, ma come lui sono disposti a spendere anche Cebete e moltissimi altri». Socrate, insiste Critone, non deve temere per le ritorsioni che gli amici potranno subire in futuro, se qualche sicofante li accuserà di avere organizzato l’evasione di un condannato: «È giusto, in fondo, che per salvarti corriamo questo rischio». «Non devi rinunciare a salvarti per questi timori», continua Critone, «né ti deve fare difficoltà ciò che dicesti in tribunale: il fatto che, fuori di Atene, tu non sapresti che fare di te».
Critone si riferisce a un passaggio emblematico del celebre processo a Socrate, quando, chiamato a difendersi dalle accuse, questi tentò di convincere i presenti che se neppure i suoi amati concittadini sopportavano più i suoi discorsi, le sue critiche, e ancor meno tolleravano la sua capacità di sedurre i giovani, le cose sarebbero andate peggio qualora avesse scelto la via dell’esilio, per continuare a fare le stesse cose in mezzo a dei forestieri. Critone, però, non è d’accordo e prova a convincerlo: «Anche in molte altre parti fuori di qui dovunque tu giungerai, agapesousi se, ti ameranno». Se Socrate scegliesse la Tessaglia per il suo esilio, gli amici di Critone che vivono in quella regione lo accoglierebbero con gioia e lo terrebbero al sicuro.
Il fatto è che a Socrate queste rassicurazioni non interessano, ma Critone non riesce a capirlo: la sua è un’amicizia affettuosa, generosissima, eppur limitata, parziale, mutilata dall’incapacità di scrutare fino in fondo nell’animo del filosofo. Critone sembra ignorare del tutto il fatto che Socrate, durante il processo, non ha mai dato prova di voler evitare la morte, nonostante fosse ciò che, almeno all’inizio, si auguravano molti concittadini, forse persino alcuni suoi accusatori. Socrate poteva tranquillamente scegliere la phyge, la fuga, e optare per una sanzione in denaro. Gli sarebbe stata senz’altro concessa e gli amici avrebbero pagato senza battere ciglio. Ma non l’ha fatto. Al contrario, dopo la prima sentenza dei cinquecento giudici popolari ottenuta a stretta maggioranza («bastava uno spostamento di trenta voti perché io sfuggissi alla condanna»), quando arriva il momento di definire la pena e Socrate ha l’ultima possibilità di parlare e di chiedere una condanna alternativa a quella capitale, conferma la sua fama di personalità fuori dagli schemi e spiazza l’assemblea chiedendo per sé, con ironia temeraria e sprezzante, nientemeno che un premio. Il filosofo esige il riconoscimento più ambito, che Atene riservava ai cittadini eccellenti. Socrate sbalordisce tutti chiedendo di poter continuare a vivere, ma non in esilio in Tessaglia o da qualche altra parte, bensì nel cuore di Atene e tra mille privilegi, mantenuto a spese della collettività nel Pritaneo. Un premio, spiega Socrate ai giudici, che lui merita assai più di qualche atleta che vince con la quadriga ai giochi olimpici, «poiché quello [il campione olimpico] vi fa sembrare felici, io invece faccio sì che siate felici per davvero». Socrate, insomma, chiede ad Atene di premiarlo per quella vita fatta di discussioni incessanti, di confutazione dei pregiudizi e delle loro scelte di vita, di sforzi per avviare gli interlocutori lungo la via impervia della conoscenza di sé e della felicità. Il problema è che questi meriti sono esattamente le colpe che l’accusa gli attribuisce. Gli ateniesi, non ambiscono affatto a quella felicità «per davvero», preferiscono di gran lunga quella parvenza di felicità, superficiale e uguale per chiunque, regalata dai campioni olimpici. Essi non possono più soffrire la presenza di Socrate, con il suo stile di vita da dialegomenos, continuamente immerso nel dialogo. Egli è la prova vivente del fatto che stanno sbagliando strada, perché inseguono una felicità omologante, materiale, falsa.
La presenza di Socrate per le vie di Atene, nell’agora, nelle palestre, nelle magnifiche residenze dei più ricchi, è stata per troppo tempo la conferma insopportabile del loro errore, dal quale non aspirano ad essere corretti. Gli ateniesi vogliono soltanto quella pseudofelicità che è ingannevole, certo, ma anche comoda e rassicurante. Basta non aprire più di tanto gli occhi e non guardare troppo lontano: finché ci si ferma all’apparenza, finché non si scalfisce la superficie, finché si rimane a distanza dalla vita vera, uno come Socrate, che mette ogni certezza in discussione, risulta essere nient’altro che un insopportabile provocatore e lo si può liquidare facilmente, senza troppi complimenti né rimpianti.
Dal canto suo, Socrate non ammette colpe che non ha, e ribadisce che i cittadini dovrebbero anzi essergli grati per la sua incessante azione di cura, di messa in luce dell’errore su cui stanno impostando la loro vita e di spinta verso la verità, per quanto scomoda e disagevole.
Ecco perché non prova nemmeno a salvarsi, non certo perché desideri morire. Socrate non vuole morire, non odia affatto la vita né i suoi piaceri, ma neppure la ama sopra ogni altra cosa, come al contrario fanno gli altri, compresi i suoi amici, e non la idolatra al punto di rinnegare se stesso e la sua maniera di stare al mondo. Da profondo conoscitore dell’animo umano qual è, egli sa bene che alla fine questa sua intransigenza, lungi dall’attirargli l’ammirazione dei giudici, non farà che peggiorare la sua situazione nel corso del processo.
Tra coloro che lo giudicheranno c’è anche chi, affrontando in passato accuse molto meno gravi, «ha pregato e supplicato tra le lacrime i giudici, portando con sé i figlioletti per intenerirli»; quest’uomo ora, osservandolo silenzioso dai banchi della giuria, sente montare una rabbia sorda e avvilente, e forse persino invidia, di fronte alla serenità di Socrate che non prova a tirare in ballo i figli, i parenti o gli amici, non supplica nessuno e non si dispera. «E può ben darsi che costui, indispettito da questo mio atteggiamento, deponga il voto nell’urna sospinto da un moto di stizza», pronunciandosi a favore della condanna a morte.
Tutto chiaro, dunque: la scelta di Socrate non sembra aver bisogno di ulteriori spiegazioni. Tuttavia, se proviamo a immedesimarci nei suoi amici, in Critone e negli altri che incontriamo nel Fedone, sentiamo che in effetti c’è ancora qualcosa che non torna e che la questione merita di essere approfondita. Dal momento che Socrate, come detto, è un uomo intransigente, ma d’altro canto non disprezza affatto la vita, perché non fa alcuno sforzo per tentare di salvarsi? In fondo, pensa Critone, e anche noi con lui, a Socrate basterebbe deviare solo un po’ dalla sua proverbiale sincerità e potrebbe tornare a vivere liberamente, a dialogare con chi gli pare – sebbene non più ad Atene, ma altrove – e a praticare la sua filosofia. Insomma, dovrebbe solo sbandare un po’, e poi potrebbe rientrare in carreggiata, riscattandosi dopo un piccolo cedimento a fin di bene. Che cosa lo trattiene?
E poi perché mostrarsi addirittura sereno, felice, in quella terribile situazione? Che male ci sarebbe a mostrare di avere paura? Quale scandalo nel cercare di convincere i giudici della propria innocenza? Il filosofo risponderebbe: «Non certo per orgoglio, o Ateniesi, o per dimostrarvi il mio disprezzo. Non è qui questione se io abbia o no paura della morte, è perché stimo che il mio onore, il vostro e quello dell’intera città sarebbero compromessi se mi comportassi così». Socrate dunque non nega il suo timore di fronte alla morte, solo che per lui è in gioco qualcosa di ancora più importante della vita, che prevale sulla paura. Qualcosa a cui allude introducendo quella parola, «onore», «l’onore vostro e dell’intera città».
A cosa si riferisce? In cosa consiste quest’«onore» che sfugge persino ai suoi amici più cari? Non è semplice comprenderlo, tutt’altro. Le parole da lui pronunciate al processo sono tra le più difficili da interpretare nella storia del pensiero occidentale. Dell’onore in senso tradizionale Socrate non si è mai curato e si è tenuto sempre lontano dalla vita pubblica, dalla fama, dalle lotte di potere e dalle leggi su cui si fonda la democrazia ateniese. Eppure, sorprendentemente, sceglie di morire per l’onore della polis e di quelle stesse leggi. Pur di non violarle con l’ignominia della fuga, pur di non «peccare d’ingratitudine nei confronti delle leggi», accetta la condanna senza reagire. Sereno e quasi contento, racconta Fedone – l’altro amico a cui Platone affida il compito di descrivere quelle ore fondamentali –, Socrate si avvia al passaggio fatale.
Mai nessuno prima si è comportato come il filosofo, assicura il custode del carcere, pure in lacrime: Atene lo uccide e Atene lo piange. Non è ancora morto e già le lacrime scorrono persino sul viso di chi ha il compito di tenerlo segregato nell’attesa che la cicuta, il veleno più costoso, ne raggeli il corpo e il logos. Ma il custode non è il solo a piangere, come abbiamo visto; le lacrime rigano i volti degli amici del condannato il quale non a caso, per la prima volta, di fronte al loro pianto, pronuncia a parola che lo identificherà per sempre: philosophos, «l’amico del sapere», o forse, meglio ancora, «colui che conosce il philos», colui che sa cos’è l’amicizia.
«I magistrati non concessero a nessuno di stargli vicino e anzi morì solo, senza amici, senza philoi?», domanda Echecrate, un pitagorico della città di Fliunte, un anno dopo i fatti, conversando con Fedone che gli racconta le ultime ore di Socrate. «Niente affatto», risponde Fedone, «amici presenti ce n’erano, e molti». Ma quei molti philoi, quegli amici sapienti, ricchi e devoti, capiscono d’avere fallito. Il loro tentativo di convincere Socrate a fuggire si infrange contro la limpidezza delle sue parole e l’incorruttibilità della sua melodia. Quegli uomini uniti a lui dal vincolo più forte, combattono contro il dolore del distacco e si sforzano di capire le incredibili parole di Socrate, che li rassicura: morire è la scelta migliore, non devono piangere né avere timore del futuro. Ma loro non ce la fanno, la sua scomparsa li terrorizza e ne annebbia la capacità di pensiero. In questo senso, gli amici di Socrate ricordano Egeo che, sconvolto dal dolore, giudica male perché il suo sguardo si arresta alla mera parvenza della morte, alle vele nere issate sulla nave di Teseo. Allo stesso modo, gli amici di Socrate si disperano e i loro occhi colmi di lacrime impediscono loro di andare oltre l’apparenza, oltre le vele nere della morte.
Gli amici, insomma, non riescono a capire davvero le parole di Socrate, ad andare oltre il loro significato oggettivo e a comprenderle con il cuore e con il corpo, non solo nell’astrazione dell’intelletto. Il loro cuore e il loro corpo non si adeguano, non si piegano, e quindi si sciolgono in lacrime. Ecco perché la loro amicizia non è completa, non è all’altezza di Socrate nonostante il bene che si vogliono.
A loro parziale discolpa va detto che si trovano di fronte alla sfida più grande a cui l’amico li abbia mai sottoposti, che in fondo, a ben guardare, è la sfida stessa della filosofia, lo scontro finale tra verità e apparenza. Al contempo, è anche la sfida della philia: l’amicizia vera si gioca tutta qui, nell’accettazione e comprensione piena e sincera della morte dell’amico. È una prova durissima per Critone, Fedone, Simmia, Cebete, Apollodoro e gli altri amici presenti, ateniesi o stranieri, che faticano ad accettare l’equazione più enigmatica: filosofare, ora, significa restare ad Atene, rinunciando all’esilio. Amicizia, in questo frangente, significa dire di no alla fuga. Vivere bene significa stare nella polis a ogni costo: la fuga, la conservazione della vita fisica elevata a obiettivo principale, che pure a noi sembra l’istinto primario dell’essere umano, ci appare qui, al contrario, come la negazione più radicale del viver bene, della vera salute, della felicità. Vivere bene, ora, significa morire, e non si è veri amici se non lo si capisce. La verità si cela tra le maglie del paradosso: la vita vera, come fu per Teseo al rientro da Creta, si annuncia con le vele nere della morte.
Ma in quella misera prigione gli amici vedono solo la disperazione che s’avvicina a vele spiegate. Trascorrono ore irripetibili, straordinarie, oscillando tra la soddisfazione di ascoltare Socrate nel suo ultimo dialogo con Simmia e Cebete e lo sconforto per il tramonto in arrivo, con il suo carico di morte. Al momento decisivo, soccombono al dolore. Come dargli torto? Dopo tutto quello che hanno fatto per salvarlo, ideando piani di fuga e preparando un esilio sicuro e confortevole, il rifiuto di Socrate è troppo duro da accettare: la sua morte sarà forse la scelta più giusta, la più filosofica, la più politica. Avrà senz’altro ragione lui, come sempre del resto. E tuttavia non resistono: come Santippe, la moglie di Socrate che si congeda dal marito accompagnata dai figli, gli amici non trattengono il pianto, non possono evitare quello sfogo estremo che salda il corpo all’anima nel dolore.
Socrate e le lacrime degli amici
Su quelle lacrime dobbiamo soffermarci. Il paradosso che esprimono, infatti, riguarda tutti noi: mentre rivelano l’affetto per Socrate, esse mostrano anche l’incapacità dei suoi compagni di ricondurre interamente la vita nell’aurea forma del vivere bene. A differenza di Socrate, i suoi amici non hanno una melodia. Dunque – questo è il vero dramma per loro e per noi –, l’amore che provano per l’amico non è ancora vero amore. Sono i più vicini a Socrate, ma non sono all’altezza della sua amicizia.
Che cos’è mai, allora, quest’amicizia spietata e quasi irraggiungibile, impastata con la morte e inseparabile dalla polis? È estrema, e a noi lettori di Platone fa apparire Socrate al massimo grado della sua eccentricità, della sua atopia: un grado forse eccessivo, insopportabile per noi proprio come finì per diventarlo per la maggioranza degli ateniesi. Potremo mai essere, noi figli del XXI secolo, veri philoi come chiede Socrate? Potremo riuscire noi, a secoli di distanza, dove hanno fallito i suoi amici più cari? Siamo eredi di Socrate o di quei suoi compagni che a parole ne comprendono la logica stringente quando spiega che la morte è una guarigione, ma che poi non possono evitare di soffrire e di piangere? Oppure – ipotesi peggiore – siamo solo i discendenti di quel popolo conformista e materialista che lo condanna e lo espelle come un corpo estraneo, come un virus contagioso?
Forse – il dubbio è legittimo – la morte di Socrate non ci insegna più niente. Forse le celebri parole pronunciate da un uomo che muore per non infrangere la melodia del proprio ethos, rifiutando la possibilità di continuare a vivere fuori dalla polis, arrivano da troppo lontano. Forse sono solo la traccia scritta di una voce che non riusciamo più sentire, il segno lasciato da un’alterità assoluta e priva di pietas, svuotata di emozioni a noi riconoscibili, incapace di intercettare la nostra realtà, del tutto diversa, e di influire sul tentativo di ciascuno di noi di essere felice e giusto, certo, ma soprattutto vivo.
Noi siamo dunque gli eredi di Egeo, e poi di Fedone, di Critone, di Simmia, di Cebete e degli altri che s’ingegnano per procrastinare la morte propria e degli amici, e investono le loro capacità in questo tentativo? In effetti, la nostra civiltà parte dal desiderio di allungare la vita e così sperimentiamo anche l’amicizia a partire da questo fine prioritario: primum vivere deinde amare, verrebbe da dire. A partire dal nostro sforzo di vivere più a lungo e di sottrarre alla morte chi amiamo, intessiamo rapporti di piacere, di condivisione e di reciproca utilità. La nostra prospettiva risulta dunque rovesciata rispetto a quella di Socrate, e le priorità invertite. Questo è il nostro modo di vivere, ed è anche il principio su cui l’intero Occidente si è sviluppato, grazie a un progresso scientifico e tecnologico che ha saputo (e per fortuna!) accrescere di molto l’aspettativa di vita media, rinviando il sopraggiungere, sebbene non cancellandolo (almeno per ora), delle vele nere. Se ci pensiamo bene, insomma, l’idea che ci sia qualcosa di peggiore e più temibile della morte sembra inaccettabile: la nostra cultura, ormai egemone nel mondo globalizzato, quasi non ci consente di pensarlo. Possiamo capire le parole di Socrate, ma non farle nostre per davvero.
Eppure Socrate non è un alieno. Conosce bene questo nostro modo d’intendere la morte, che anche i suoi contemporanei identificavano con il male assoluto. Lo spiega chiaramente in un bel giorno di sole, mentre passeggia con l’amico Fedro, poco fuori le mura di Atene. Da quelle parti, racconta Socrate, un tempo ci si poteva imbattere facilmente in un celebre medico di nome Erodico. Afflitto da un male incurabile, costui aveva dedicato la sua esistenza a combatterlo sottoponendosi a diete ferree, digiuni ed estenuanti camminate da una città all’altra attraverso i campi, con l’unico fine di scacciare la morte. Il risultato? Visse più a lungo, ma non fece altro che «tirare per le lunghe la propria morte»: nulla aveva valore, per Erodico, se non in funzione della sua battaglia per la vita. Riversando in questa impresa le sue energie, sviluppò un vero patrimonio di conoscenze mediche, tanto che, in qualche misura, la medicina moderna è a lui simbolicamente debitrice, o almeno al suo spirito e alla sua tenacia.
Il problema, per Erodico come forse anche per noi, è che vivendo in quel modo si condannò a una vita «nei campi», agroike, dunque fuori dalla polis, solitaria, individualistica, separata dai cittadini, mentre è solamente insieme ad essi che si può trovare la vera salute. Visse a lungo ma visse male, perché privo della vera amicizia.
Ecco perché, racconta Socrate, un altro medico leggendario, Asclepio «che ben conosceva la medicina di Erodico», la considerava addirittura «nociva e pericolosa per la polis». La lotta senza tregua per salvare a ogni costo la vita fisica, infatti, nasconde un errore esiziale: ignora che la vera salute sta nella relazione. L’accanimento terapeutico di Erodico è puro egoismo, è negazione della sua natura di cittadino. Ecco perché, quando tocca a lui, Socrate non ha dubbi. Una vita al di fuori di Atene sarebbe simile alle faticose peregrinazioni a cui si sottoponeva Erodico e pertanto esige che gli amici lo comprendano e finalmente smettano di piangere: le lacrime impediscono loro di affrancarsi dall’errore di Erodico.
Naturalmente, non sono le lacrime in quanto tali a turbare Socrate: il suo modello ideale non è certo la virilità marziale degli spartani, che reprimono le proprie emozioni imponendosi un rigore eccessivo. Ciò che gli preme, in quelle ore difficili che precedono l’ultimo passaggio, è che gli amici sconfiggano insieme a lui la paura che fa della morte il peggiore dei mali e che, come conseguenza di questa vittoria, assaporino quegli istanti di vita come una gioia. Per quanto strano possa suonare, dovrebbero agire come se celebrassero una liberazione dal tempo lineare che ci destina alla morte, tale da farci accedere a un’altra temporalità, a un modo diverso di stare al mondo, un ethos pienamente politico. Socrate parla in quei momenti di anima immortale, ma non allude a un tempo futuro, post mortem, bensì all’eterno presente del viver bene, da lui raggiunto proprio in quell’ora estrema. Questa è vera salute, non quella che insegue Erodico.
Non a caso, le ultime parole pronunciate da Socrate nel Fedone sono di ringraziamento ad Asclepio, il medico consapevole che salute è philia. Ecco dunque il messaggio estremo che ci arriva dal racconto della morte di Socrate. Un messaggio oggi quasi incomprensibile perché in contrasto con il nostro modo d’intendere la vita, e tuttavia in grado di risuonare ancora da qualche parte dentro di noi, risvegliando una coscienza sopita: l’amicizia può sconfiggere la morte. E farci così assaporare, fino all’ultimo istante, l’unica e dolce immortalità concessa a noi umani.
[Immagine: Foto di © Caterina Bernardi].
MA QUALE “FILO”? QUALE LEGAME?! QUELLO DI UN “PERFETTO FILO-SOFO”?! IL FILO DI ARIANNA (NIETZSCHE) E LA LEZIONE DI DIOTIMA… *
“[…] Chiariamo. Si dice che Socrale abbia incontrato ancor giovane Parmenide e Zenone – ammettiamolo. Questo, però, non significa nulla, anzi aggrava la situazione e illumina meglio quanto poi succede. La posìzione di Socrate è chiara e da tutti conosciuta. Ripresa dall’Apologia suona testualmente così: «unicamente sapiente è il dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco o nulla vale la sapienza dell’uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo usare del mio nome come di un esempio».
Dopo esser rimasto «per lungo tempo» nell’ incertezza, questa è l’ interpretazione ( «che cosa mai vuole dire il dio? che cosa nasconde sotto l’enigma?») che Socrate dà della risposta della Pizia che, appunto, lo aveva definito il più saggio degli uomini.
Se non ci facciamo confondere le idee dallo stesso Socrate, la risposta del dio non è affatto enigmatica: dice semplicemente Ia verità! Socrate non è Parmenide. Egli è un semplice mortale, non è stato mai ricevuto dal dio. non è stato mai accolto dalla Dea Giustizia. Egli, da semplice profano, ha solo udito Parmenide parlare, e, per questo, sa che « i mortali non sanno nulla» e che “solo il dio è sapiente”. Questo è Socrate – un mortale che sa di Parmenide e si mette a fare come Zenone: «Ecco perché – egli dice – ancor oggi io vo dattorno ricercando e investigando […] io vengo così in aiuto del dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno. E tutto preso come sono da questa ansia di ricerca, non m’è rimasto più tempo di far cosa veruna considerabile né per la città né per la mia casa; e vivo in estrema miseria per questo mio servigio del dio».
Egli si mette al lavoro, ma iÌ dio non gli ha chiesto niente! Anzi egli, invece di rivolgersi a quello che è veramente sapiente il dio, va in giro a prendersela con gli ignoranti mortali. E sterile, (sterile in sapienza) – imitando la madre ostetrica, ma facerdo come il padre con lo scalpello va in giro a sollecitare tutti gravidi e no («uomini e non donne», anine e non corpi) a partorire.
Del resto cosa gli ripete la sacerdotessa e profetessa Diotima?
La stessa cosa. Caro Socrate, tu sei come Eros – figlio di Ingegno (a sua voìta figlio di Metis. I’intelligenza astuta) e di Povertà – un perfetto filosofo, perché non sei sapiente come gli dèi né del tutto ignorante come i comuni mortali: sei solo consapevole della tua ignoranza, ma tu sei cieco, cieco e brutto come un … ciclope. Tu sai che non sai amare e vai in cerca di chi sa amare. Ma tu, caro Socrate, non capisci proprio nulla, né degli uomini, né delle donne. e neppure degli dèi: tu sei solo cupìdo (un cieco saettante, avido e violento).
Come la risposta della Pizia, così la riposta di Diotima: egli non capisce e va avanti … a costringere chi solo il dio sa deve partorire. Atene, costretta a partorire senza essere gravida, non potrà che rovesciargli addosso la sua stessa violenza – e lo condannerà a morte. Atene e Socrate in un gioco speculare ed enigmatico, entrambi finiscono per riaffermare il valore della legge, la legge parmeni-dea. « Ah, amici! Noi dobbiamo superare anche i Greci» […]” (F. La Sala, “La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica”, Antonio Pellicani, Roma 1991, pp. 182-184).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. Le «regole del gioco» dell’Occidente e il divenire accogliente della mente (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5556)
Federico La Sala
Dobbiamo un gallo ad Esculapio…non è più una battuta ironica, ma la celebrazione in assoluto più concreta (c’è la morte in attesa) del valore della philia. Del resto anche la sophia ha bisogno di philia per vivere nella storia.
“Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere” (M. Serres, Distacco, 1986)
IN MEMORIA DI MICHEL SERRES *.
UNA CONFESSIONE (DA “IL MANCINO ZOPPO”) :
“Una confessione. La filosofia, si dice, conduce alla saggezza [sagesse]. Secondo un altro significato della parola, prima di morire vorrei diventare levatrice – che in francese diciamo sage-femme, cioè letteralmente, « saggia donna » -, vorrei aiutare a partorire il mondo nuovo.
La mia vita intera mi ci ha preparato, attraverso l’ascolto attento degli scricchiolii emessi dal vecchio. Sento le crisi che attraversiamo, le inquietudini che suscitano, come dei lamenti emessi nel travaglio del parto. Amo la madre, accolgo il bambino.
Possa migliorare incessantemente la mia attività di medico ostetrico, il mio diventare sage-femme” (Michel Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente [Le Gaucher boiteux. Puissance de la pensée], Bollati Boringhieri, Torino, 2016, pp. 48-49).
* http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1934.
Federico La Sala