di Luca Illetterati
Pare esserci un proliferare ovunque di piccoli e sgraziati Leopardi, in questi giorni. Tutti a imprecare contro la natura matrigna, la natura che non guarda alle nostre piccole vicende, ai nostri affetti, a ciò a cui teniamo, alle strade più o meno contorte che ognuno di noi ha tratteggiato nella convinzione, nella speranza o nel desiderio che potessero essere, quelle strade, segni che lasciavano il segno. Certo, ci sono anche quelli che di leopardismi non ne vogliono sentire e pensano che la natura sia sempre e comunque buona e che dunque anche quando lascia cadaveri sul selciato un motivo dev’esserci. O viceversa quelli che pensano che la natura stia semplicemente rendendo pan per focaccia, come se la natura fosse un bimbo idiota e odioso che sta lì a pensare a come controbattere alle nostre più o meno grandi nefandezze, ai nostri comportamenti inadeguati. Poi ci sono quelli che pensano che la natura di suo seguirebbe un tracciato sempre benevolo e santo, non fosse che qualche umano cattivo e diabolico ne ha deviato il percorso.
Quello che rivelano questi giorni è forse, invece, una nostra radicale incapacità di pensare la natura.
Ce la rappresentiamo come un ente che sta là, fuori di noi, come fosse qualcosa che possiamo guardare da una posizione esterna, da sopra, da sotto, di sguincio, in ogni caso sempre come qualcosa di altro da noi, come qualcosa che si staglia alla stregua di un paesaggio di fronte al nostro sguardo di osservatori esterni.
Quello che facciamo fatica a pensare è il nostro essere natura; ovvero, detto altrimenti, che parlare della natura è parlare di noi; che il nostro amare, il nostro soffrire, il nostro godere e il nostro morire non sono in un altrove farlocco, fuori o al di là della natura.
Martin Heidegger diceva che il nostro modo d’essere più proprio, il nostro essere delle esistenze segnate dal tempo e dalla morte, lo dovevamo pensare come un essere-nel-mondo. Lo scriveva con i trattini (quanto danno hanno prodotto poi nelle scritture filosofiche quei trattini!) a cercare di esprimere che il nostro essere non è qualcosa che a un certo punto entra nel mondo, ma che noi siamo quello che siamo proprio in quanto siamo nel mondo. E parlava di noi esseri umani, perché per Heidegger le altre vite, le vite non umane, non sarebbero propriamente un essere-nel-mondo, perché loro, le vite degli animali, quelle vite a cui Coetzee ha regalato la voce sublime e insopportabile di Elizabeth Costello, non avrebbero il privilegio dell’umano di avere un mondo.
Una filosofia femminista contemporanea, Donna Haraway, nel suo ultimo libro – Chthulucene – ha suggerito di trasformare quell’essere-nel-mondo in un essere-del-mondo, a sottolineare che noi – dove il noi non è più segnato da quel pregiudizio di differenza antropologica che segna così profondamente il pensiero heideggeriano, ma coinvolge tutte le vite – non siamo semplicemente esistenze che abitano il mondo, ma che siamo in tutto e per tutto del mondo; che non siamo cioè suoi signori, ma suo frammento. E che se un compito possiamo darci, in questo nostro co-abitare, è quello di creare parentele, reti, alleanze, amicizie con gli altri frammenti che lo costituiscono.
L’obiettivo di Haraway è di segnare una via diversa rispetto a tutti coloro che si sentono troppo sicuri di sé e del mondo, ovvero rispetto a coloro che pensano il mondo come un contenitore dentro il quale ci troviamo ad essere e non invece come un intreccio di esperienze e di legami. Una via diversa da quella che ci caratterizza così profondamente, soprattutto noi moderni, che credendoci padroni del mondo, parliamo sempre della natura come se fosse qualcosa che certo ci tocca, ma di cui non siamo, in fondo, parte.
“Che grande fu / poterti chiamare Natura” scrive Zanzotto in una splendida poesia della raccolta Sovrimpressioni.
“Non hai promesso né ingannato”, dice Zanzotto con quella sua voce insieme flebile, precisa e fermissima.
Ne parla per opposizioni, Zanzotto, quasi a sciogliere qualsiasi tentativo di collocarla da un lato o dall’altro dei nostri piccoli sistemi valoriali: “pura e impura”, “pertinenza e dis-pertinenza”, “ardente e vana”, “spenta e sacramentana”.
Le parole della poesia sono “ultima, sfinita goccia di possibilità di dirti natura”.
Ultima, in un mondo per il quale la natura è “ora travolta in visura di loschi affari / fatta da bulbi oculari / incendiati / dal re di denari”.
Forse – forse – se c’è un compito che questi giorni ci assegnano, che questo tempo ci chiede, è proprio quello di imparare, uscendo dalle gabbie dorate che ci siamo costruiti, a ‘dire natura’.
[una versione più breve di questo articolo è apparsa sul Mattino di Padova]
[Immagine: Jan van Hemessen, Allegoria della Natura come Madre dell’Arte, 1540].
DIRE “NATURA”, DOPO INTERI MILLENNI DI UNA SPIRITOSA EDIPICA FENOMENOLOGIA DEL “LEI NON SA CHI SONO IO”?!! USCIRE DAL LETARGO E DAL SONNAMBULISMO PLATONICO, HEGELIANO, ED HEIDEGGERIANO….
“Pare esserci un proliferare ovunque di piccoli e sgraziati Leopardi, in questi giorni. Tutti a imprecare contro la natura matrigna […] Quello che rivelano questi giorni è forse, invece, una nostra radicale incapacità di pensare la natura. […] Forse – forse – se c’è un compito che questi giorni ci assegnano, che questo tempo ci chiede, è proprio quello di imparare, uscendo dalle gabbie dorate che ci siamo costruiti, a ‘dire natura’.” (L. Illitterati, “dire natura “- sopra)
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4961).
MIO NONNO ERA UN RE (http://www.ilgrandevetro.it/frecce-digitali/mio-nonno-era-un-re-di-michele-feo/#comment-186 ). Contro ogni illusione di continuità di istituzioni e di divinità, un fatto resta determinante. Siamo giunti a un grado zero di civiltà. La secolarizzazione non è stata uno scherzo : non solo « Dio è morto » ma anche l’Uomo (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3085)
Federico La Sala