di Chiara Cappelletto

 

Mentre stiamo chiusi in casa con sporadiche incursioni nel mondo di fuori, leggiamo analisi psicologiche che avvertono degli effetti traumatici del lockdown e analisi filosofiche che denunciano il rischio imminente dell’arrivo di un regime totalitario. Le accompagnano analisi economiche che prevedono una forte e lunga depressione. Tutte hanno le loro ragioni e tentano di governare il disordine montante della psiche individuale e quello possibile dei governi e dell’economia, ma offrono troppo spesso spiegazioni di default.

 

Questo inizio di secolo, che ha il suo battesimo con l’attuale pandemia, ha preso in contropiede chi dovrebbe saperlo leggere, se non altro per professione. Se alcuni filosofi ancora parlano di “stato d’eccezione”[1], molti scienziati hanno sofferto di “cognitive bias”, insistendo a paragonare questa malattia a una normale influenza[2]. Più in generale, siamo stati tutti colti impreparati, e ci vorrà tempo per capire perché. Senz’altro, benché le nostre vite individuali possano esserci apparse in sintonia con la nostra epoca – vite in transito, interconnesse, altamente medicalizzate, ad alto tasso tecnologico, con amici e famigliari sparsi in giro per il mondo –, il senso comune cui partecipiamo, l’immagine del mondo che fa da sfondo alle nostre analisi, si sono rivelati straordinariamente conservatori. La metafora inadeguata, ansiogena e pericolosa della guerra – che già era stata usata, senza profitto alcuno, per l’AIDS – sembra uscire da un manuale di storia, e che la peste manzoniana sia uno dei riferimenti più citati non rincuora, per quanto possa far piacere che I promessi sposi vengano di nuovo letti: era il 1630.

 

Malgrado sappiamo almeno dal 1945 – quando Maurice Merleau-Ponty pubblica La Fenomenologia della percezione – che io sono quel che il mio corpo può (e non può) agire e patire, malgrado da tempo l’antropologia, l’estetica, le filosofie femministe, le teorie dell’agency degli oggetti ci dicano che i corpi sono intelligenti, patici, relazionali, che sono situati, i nostri corpi in carne e ossa continuano a venire pensati come meri supporti. Servi muti. Ed invece sono loro ad ammalarsi e loro a essere tenuti a distanza. La farmacologia, l’industria del fitness e quella del sesso, il design e la moda ne hanno preso sul serio i bisogni e le voglie. Questo efficace mastering pratico non è stato però accompagnato da un pensiero critico capace di prendere pubblicamente e autorevolmente la parola, di creare cultura, nonostante gli ottimi studi condotti nelle università e le esplicite prese di posizioni degli studiosi. Occorrerà riflettere sul disuso del sapere umanistico nella nostra società, e sui danni che ne derivano. Per il momento, mi limito a registrare lo stallo in cui ci troviamo.

 

È uno stallo critico di cui paghiamo il prezzo sulla nostra pelle. Nonostante i diffusi tentativi di opporci all’inerzia cui siamo obbligati, dai balli alla finestra ai flashmob su youtube, alla stasi dei nostri corpi corrisponde un’immobilità della riflessione. Mancano parole, figure, argomenti adeguati non tanto e non solo per la pandemia che ha colpito molti, ma per il confino domestico che colpisci quasi tutti. La sofferenza per la socialità sospesa non giustifica da sola il profondo spaesamento che viviamo, costretti a stare nel luogo che per definizione dovrebbe esserci più affine: casa nostra. L’oikos non ci è ospitale.

 

Venendo da decenni in cui essere mobili è stato tutto, la reclusione casalinga diventa improvvisamente il punto d’arresto in cui collassano la nostra esperienza del vicino e del lontano, del prossimo e dello straniero. Per quanto sia molto diverso abitare un monolocale buio di quaranta metri quadri o un attico terrazzato, dopo aver vissuto tanto liberi, scopriamo tutti di essere parimenti confinabili. Certo la mobilità inebriante che ha caratterizzato le nostre vite è discutibile: una facilitazione logistica e una possibilità economica sono diventate di per sé un valore etico positivo nonostante il loro insostenibile impatto ambientale; la libera circolazione di persone e cose, la sospensione dei confini, la digitalizzazione di immagini e testi, sono state strategie di avvicinamento di più mondi a me, non di me a mondi altri: siamo stati ubiqui, non siamo stati insieme. Ma la critica a un esasperato pseudo cosmopolitismo mordi e fuggi non comporta di per sé una riflessione proficua sulla nuova comprensione degli spazi, della distanza, della presenza che siamo chiamati a fare. Su una nuova estetica della prossimità. È tuttavia sulle sue basi che si costruiranno le norme della società prossima ventura e con ciò dell’esercizio politico, e non sul semplice rammarico per lo sfruttamento vorace del pianeta cui questa pandemia è legata.

 

Covid-19 si trasmette con un “Buongiorno” e dichiara che noi umani siamo un corpo unico. Malgrado un sentire comune spolverato di Antropocene ed ecologia, a questa idea noi però resistiamo. Sappiamo che natura e cultura non sono eterogenee, che i nostri corpi intelligenti sono coestensivi con lo spazio fisico, sociale e culturale al quale partecipano beni, medicine, leggi e manufatti. Che esseri umani e ambienti si con-costituiscono, che emozioni, pensieri, pratiche e tecniche modificano i processi neurobiologici dei singoli e della nostra specie nel suo insieme. Non solo la metafora per cui la terra è la nostra casa va presa alla lettera, ma va portata fino in fondo: la nostra casa è la terra.

 

Le scienze cognitive, le neuroscienze e la filosofia chiamano embodiment l’interconnessione di uomo, natura e tecnica: il nostro corpo affetta il mondo in una continua dinamica di azione e reazione reciproca. Siamo tutti cyborg. Ciò nonostante, continuiamo a osservare questo “incorporamento” da fuori, avendone una comprensione paradossalmente disincarnata. Nel frattempo, la pandemia ha messo in luce la dialettica tra embodiment e individuazione. Il sistema immunitario è infatti quel che discrimina tra quanto conta come “altro” e quanto conta come “sé”, e le strategie di distanziamento non fanno che trasporne la logica sul piano sociale e giuridico.

 

Mai come oggi la metafora del “corpo politico” trova nuove ragioni per venire indagata. Covid-19 ha infatti portato la questione dell’embodiment a un livello superiore: un livello istituzionale. Per quanto si sappia ancora poco del virus, è stato chiaro da subito che il problema era che ammalandoci contemporaneamente avremmo reso impossibile ai medici, agli ospedali e in particolare ai reparti di terapia intensiva di prenderci in carico. Le persone ammalate ammalano il sistema. Abbiamo riconosciuto così un vincolo tra la vulnerabilità del singolo e la vulnerabilità delle strutture statali deputate all’assistenza medica. Questo è stato più vero là dove il finanziamento al comparto della sanità è pubblico e ha subito decurtazioni progressive, ma il principio è stato accolto in tutti i paesi.

 

L’epidemia in corso ci presenta il governo come un attore istituzionale il cui potere sta nella capacità di cura e di tutela. Sono a favore di un ripensamento dell’azione politica come esercizio di cura, perché implica un’agenda ecologista, femminista e intergenerazionale, e comprende che esistono diverse forme di partecipazione attiva alla vita pubblica, che i cittadini non sono una figura astratta – uomini sani, soli, produttivi e autonomi – ma un insieme di donne e uomini, bambini e vecchi, con potenzialità differenti, che costruiscono reti di conoscenze, affetti, desideri e capacità. Tuttavia, mentre la cura come pratica attiva e condivisa è un’azione positiva e produttiva, il venire presi in cura sistematico e prolungato può indurre un atteggiamento di remissione che avvilisce l’iniziativa personale, la libertà di osare e sbagliare.

 

Siamo a un bivio. Da un lato la possibilità di mettere in campo un’agenda ecologista e di riconoscere finalmente che sì, il battito d’ali di una farfalla può causare un uragano; di aumentare dunque la responsabilità individuale, lo spazio d’azione e d’inventiva; di superare la mal posta alternativa tra giustizia sociale e libertà. Di costruire un sistema di potere inclusivo e orizzontale. Di riconoscerci parte di un unico ecosistema. Dall’altro il rischio di trasformare la nostra vulnerabilità in fragilità e passività, di assimilare gli individui in due grandi categorie: i sani affidabili e i malati socialmente pericolosi, ciascuno munito di un health code. Di sostituire il medico specialista al leader politico e al militare, mossi da una fiducia magica nella scienza di cui si ignorano prassi e protocolli e a cui si crede come si crede al santo protettore. Di ritenere che “le dittature hanno i loro vantaggi” o, se ci fermiamo prima, che sia necessario e sufficiente affidare alla sola categoria biomedica, cui va la mia franca gratitudine, il potere di prendere la parola e stabilire che cosa occorre fare per il mantenimento della vita biologica, stabilendo così anche che cosa è vita, mentre lasciamo ai governanti la semplice facoltà di stendere ordinanze stabilite da un gruppo di esperti, delle cui conoscenze non siamo in grado di chiedere conto.

 

Questa scelta, che chiama in causa il senso ultimo della cittadinanza democratica e ci si porrà più volte nel prossimo futuro, alla comparsa di un altro virus o di un nuovo batterio, si pone mentre la natura protesica del corpo umano si è ulteriormente implementata. Non abbiamo mai sconfinato tanto da quando siamo chiusi in casa: tutti connessi h24 che si tratti di feste di compleanno, tesi di laurea o riunioni della Corte Costituzionale, visitatori di musei all’altro capo del mondo, abbonati a corsi di yoga tenuti in altri paesi, tutti utenti di piattaforme di proprietà privata, stiamo ridefinendo l’esperienza del proprio e dell’aperto con una fiducia cieca nella stabilità della rete e nella sua democratica accessibilità, cercando di ignorare quanto non sia così.

 

La scelta andrà fatta a breve. Era il 1988 quando Donna Haraway si chiedeva come possiamo noi occidentali “immaginare la nostra vulnerabilità come una finestra sulla vita”[3]. La domanda è rimasta inevasa. Mentre stiamo nelle nostre case affacciati ai nostri balconi, cerchiamo di pensare il XXI secolo, perché il XXI secolo abita in noi.

Note

 

[1] Giorgio Agamben, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia, 27 aprile 2020

[2] Richard Horton, https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/apr/09/deadly-virus-britain-failed-prepare-mers-sars-ebola-coronavirus, 27 aprile 2020

[3] Donna J. Haraway, Biopolitica di corpi postmoderni: la costituzione del sé nel discorso sul sistema immunitario, in Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1995, pp. 135-180, qui p. 165.

 

[Foto di © Gregory Batardon].

1 thought on “Abitare il XXI secolo. Dall’oikos all’embodiment

  1. Leggendo questo brillante contributo, come altri simili su questo blog, ho sempre più l’impressione che la filosofia oggi consista, parafrasando il vecchio Baretti, nel dire studiatamente cose comuni. Che questo abbia un po’ a che fare con il ” disuso del sapere umanistico nella nostra società?” Ma sicuramente sono io che non capisco.

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