di Michele Farina

 

«Luigi Malerba ha dedicato ai racconti un’attenzione costante e duratura»: con questa frase, concisa come un aforisma, si apre la ricca introduzione di Gino Ruozzi al recente «Oscar Baobab» (Luigi Malerba, Tutti i racconti, a cura di Gino Ruozzi, Mondadori 2020, € 28) che comprende il corpus integrale dei racconti dello scrittore di Berceto, il cui battesimo come autore letterario, dopo una significativa militanza come regista e sceneggiatore cinematografico, è avvenuto proprio nel segno della brevità con la raccolta La scoperta dell’alfabeto (1963), col senno di poi un titolo profetico, se si pensa alla prolifica attività di narratore che Malerba avrebbe svolto nei decenni successivi. La canonizzazione editoriale di questo classico del Novecento è stata sancita nel 2016 con la pubblicazione, sempre per Mondadori, del Meridiano curato da Giovanni Ronchini, seguita da un piano di riedizione di molti dei suoi libri appunto nella collana «Oscar». All’operato dell’editore milanese fa eco la riproposizione nella collana «Compagnia Extra» di Quodlibet, oltre che di alcuni inediti, di quei libri che Malerba definiva “anfibi”, cioè concepiti in prima istanza per i più piccoli, ma scritti in modo da risultare divertenti e provocatori anche per i più grandi: come i migliori giochi, un’opera unica nel suo genere come Le galline pensierose (1980) è indicata dai 6 ai 99 anni di età.

 

Il volume curato da Ruozzi giunge dunque alla fine di un lustro di cospicua riproposizione delle opere malerbiane e contribuisce alla maggior conoscenza del loro autore scegliendo di raccogliere in un’unica sede una delle aree più interessanti e coese della sua vasta produzione. Una volta conclusa la lettura, ci si rende conto di come la forma breve, oltre ad aver rappresentato una costante per Malerba stesso, abbia seguito e in un certo senso “accompagnato” le trasformazioni del nostro Paese dal secondo dopoguerra fino ai primi anni del nuovo millennio, dalla fine della civiltà rurale all’avvento della posta elettronica. È quasi commovente riconoscere nella fisonomia dell’io-impiegatizio che prende parola in molti racconti di Ti saluto filosofia (2004), ultima silloge pubblicata in vita dallo scrittore, qualche tratto che lo smaschera subito come figlio o nipote degli strambi contadini dell’Appennino emiliano protagonisti di La scoperta dell’alfabeto – imparentati a loro volta con i poveri matti di zavattiniana memoria.

 

Una questione di particolare importanza, ben messa a fuoco nell’introduzione e che emerge con chiarezza dal disegno complessivo dell’edizione, è il fatto che, se si escludono la raccolta d’esordio e quella ad ambientazione cinese Le rose imperiali (1974), con Dopo il pescecane (1979) Malerba abbia dato inizio a quella che Ruozzi definisce come «un’indagine ampia e nello stesso tempo minuziosa del mondo borghese contemporaneo». Le raccolte successive a Dopo il pescecane, Testa d’argento (1988) e Ti saluto filosofia, costituiranno tappe differenti della medesima investigazione, suggellata dalla postuma Sull’orlo del cratere, pubblicata nel 2018 – sempre per le cure di Ruozzi –, ma approntata dallo scrittore nelle ultime settimane di vita. Pur tenendo a mente il divertente e per certi versi condivisibile monito del compianto Guido Almansi, il quale in La ragion comica (1986) dissuadeva i critici dal voler ad ogni costo leggere l’attività complessiva di questo autore alla luce di uno sviluppo «alpinistico» o «speleologico», cioè nel quadro dei modelli ermeneutici preconfezionati «salita + discesa» o «discesa + salita», qualche considerazione sull’evoluzione della rappresentazione malerbiana del middleman italico forse è il caso di farla.

 

Rispetto ai romanzi che lo hanno consacrato al pubblico come uno dei narratori più significativi dei suoi anni, Il serpente (1966) e Salto mortale (1968), il Malerba dei racconti più maturi sembra aver interiorizzato un’importante verità: per far detonare il mondo della borghesia italiana, non occorreva più l’aggressività del bombarolo verbale, che reagisce in modo aperto e con la stessa violenza con cui viene attaccato, quanto piuttosto infiltrarsi e mimetizzarsi in quel mondo fino a confondersi con esso (Se non puoi batterli…). Questo cambio di atteggiamento si riflette nella lingua dei suoi racconti, che incanala e rende più sotterranea l’eversione linguistica delle prime prove, attuando continui e perseveranti sabotaggi del senso comune, attacchi mordi e fuggi perpetrati da personaggi che agiscono come serpi in seno alla società che li nutre e al contempo li opprime.

 

Una metafora ricorrente nel bestiario borghese di Malerba è quella dell’allergia, una sorta di condizione permanente dei personaggi nei confronti del reale, che esemplifica il carattere psicosomatico e in parte inconscio dei loro moti reattivi, e che segna una differenza di intensità rispetto alle nevrosi più manifeste che affliggevano i narratori mitomani dei primi romanzi, più vicini in questo alla temperie neoavanguardistica di quegli anni. In altre parole, la benjaminiana «esperienza dello choc» nei confronti della nuova società postbellica è stata consumata, ma non ha mai smesso di aggredire e traumatizzare l’individuo, anche se in modo più nascosto; vorrei leggere in questa direzione il monito del narratore di un racconto di Testa d’argento (La colpa è di Proust): «Le allergie sono molto di moda, così come qualche anno fa erano di moda gli esaurimenti nervosi, con la differenza che le allergie sono meno impegnative». È dunque in un regime di normalizzazione e di avvenuto assestamento della società borghese in senso pienamente secondo-novecentesco che si contestualizzano questi racconti, fatto che spiega la nuova postura di Malerba, il quale rappresenta in modo personale, efficace e per così dire “in tempo reale” l’ultimo trentennio del XX secolo. Dal romanzo Il pianeta azzurro (1986) in poi, la sua produzione si fa più subdola nella costruzione, più elusiva e inafferrabile, perché più subdoli sono i decenni che è chiamato a raccontare: questo cambio di passo è a colpo d’occhio meno evidente nei racconti, la cui evoluzione tematica è contrappesata da una sorprendente compattezza di forma e misure.

 

Non credo sia errato trattare le decine di narratori in prima persona di questi racconti come differenti inquadrature di un volto unico, cioè quello di un maschio adulto borghese, allineato e insieme alienato rispetto alla società in cui vive, che racconta una vicenda minima e quasi sempre autobiografica, costruita intorno allo scatto di un unico innesco narrativo. Ho parlato di reazioni inconsce, volendo suggerire che un tipico modo di procedere di queste teste narranti è quello di non accorgersi della paradossalità della propria condizione, che è il lettore a dover riconoscere, a volte sin dalla prima riga e spesso con testacoda finali che saldano la narrazione in modo fulmineo. In Dopo il pescecane troviamo un padre orgoglioso del figlio che “gioca” a rapinare (Il gioco dello scippo), un marito sedicente “femminista” che picchia la moglie (Il marito femminista) e una guardia del corpo che finge di non capire perché l’essere diventato il sosia del suo protetto comporti un cospicuo aumento di stipendio (Gorilla); anche in Testa d’argento e Ti saluto filosofia troviamo mirabili finti tonti, ossimori viventi come il truffatore onesto (Il magnifico truffatore), il fedele adultero (Strategia), il traditore tradito (Il cannocchiale) e forse il più smaccato di tutti, il protagonista di Raccomandata espresso, che scrive a una compagnia assicurativa per farsi risarcire di una strage automobilistica di cui è il probabile responsabile.

 

In un approfondito contributo pubblicato qui, lo scrittore e traduttore Daniele Benati nota che tutta la narrativa di Malerba è disseminata di Berette calibro sette e sessantacinque che non sparano e di delitti che restano allo stadio di fantasie a lungo accarezzate. Nonostante le numerose trappole di questo genere sparse nelle varie raccolte spesso abbiano il vizio di non scattare, o di scattare fuori campo o solo mentalmente, non per questo le tagliole narrative di Malerba, ingranaggi semplici e forse non letali, raramente lasciano scampo. Il comico sembra essere l’unica via per liberarsi della tensione elettrica di cui si caricano i personaggi – a volte letteralmente come nel racconto Homo electricus –, ma la violenza di questa liberazione può rasentare l’esplosione, come suggerisce La risata, vero e proprio manifesto del narratore a orologeria malerbiano (il testo è inserito sia in Dopo il pescecane che in Sull’orlo del cratere), nel quale chi parla è un caposervizio Rai la cui soffocante routine lavorativa lo costringe a censurarsi fino al momento dello scoppio: se di una bomba o di una risata non è dato a sapere.

 

Una brevità calcolata e mai frammentaria è dunque uno dei denominatori comuni a questo corpus, un aspetto di cui l’introduzione al volume da conto, mostrando da una parte le ragioni contingenti che hanno determinato il consolidamento di questo particolare formato, ad esempio il fatto che numerosi racconti furono pubblicati inizialmente su riviste e quotidiani come testi singoli, dall’altra inscrivendo la vocazione al breve di Malerba nella lunga e rilevante tradizione novellistica della nostra letteratura, che da Boccaccio, Bandello e Sacchetti, passando all’inizio del Novecento per Pirandello, Campanile e Zavattini, arriva tramite Celati fino ai nostri giorni con Benati stesso e Cavazzoni.

 

Altra caratteristica saliente dell’uomo malerbiano è di essere coniugato o comunque legato a una controparte femminile, che non di rado rappresenta un punto di vista più lucido su ciò che accade nelle varie storie. È sorprendente l’esplorazione che Malerba propone dell’istituzione matrimoniale e dei rapporti fra i due sessi, tematiche che in questi racconti costituiscono spesso il campo di verifica dell’imborghesimento generale dei rapporti umani. Fantasmi romani (2006), l’ultimo romanzo pubblicato in vita, rappresenta il coronamento di questo lavoro di approfondimento del tòpos borghese della coppia sposata, che si realizza tramite la tecnica del “dialogo esteriore” a due voci, una maschile e una femminile, già sperimentata con un certo successo con la riscrittura omerica Itaca per sempre (1997).

 

Vorrei adottare in modo un po’ provocatorio una prospettiva in apparenza lontana dal mondo malerbiano, ossia quella del Sartre di Che cos’è la letteratura?, che in un punto del famoso saggio sentenzia: «Ognuno ha i suoi motivi: per qualcuno l’arte è fuga; per qualcun altro un mezzo di conquista». A occhio credo che molti, e per certi versi a ragione, collocherebbero Malerba fra i letterati della fuga, ma ritengo anche che la panoramica offerta dai suoi racconti metta in luce in modo persuasivo una caratteristica della sua narrativa senza dubbio meno considerata, cioè quella di una non trascurabile collusione con il reale. In un colloquio del 1985 raccolto in Parole al vento (a cura di Giovanna Bonardi, Manni 2008), è lo stesso Malerba ad affermare: «Direi che i miei libri più che frammenti di romanzi sono frammenti della realtà, un tentativo di riprodurne le linee catastrofiche».

 

Scrive Ruozzi nell’introduzione: «Della società industriale e borghese Malerba è attentissimo scrutatore, sia dei processi di massificazione, mercificazione, smarrimento, svuotamento e perdita d’identità, sia dell’influsso formativo e deformante delle macchine, delle tecnologie, delle estranianti organizzazioni aziendali». Pur di raccontare come girino gli ingranaggi del potere, egli è sempre stato disposto a viaggiare nel tempo e nello spazio: nella sanguinaria Cina dell’imperatore Che Huang-ti con la raccolta di racconti Le rose imperiali; nell’altrettanto letale burocrazia bizantina con il giallo storico Il fuoco greco (1990); nel carnevalesco e farsesco medioevo de Il pataffio (1978); ancora nell’intrigante Roma cardinalizia del XVI secolo con Le maschere (1995). Sull’orlo del cratere non solo conferma questo antico e perdurante interesse, ma addirittura lo rilancia con racconti memorabili che rientrano a pieno titolo nella letteratura del lavoro, come La coda, che ammonisce sui rischi che correrebbero i dissenters come lo scrivano Bartleby nella nuova società industriale, Il Satello, dove l’utopia tecnocratica dell’eliminazione dell’errore coincide con l’eliminazione dell’umano, e L’organigramma, in cui l’astrazione aziendalista arriva a proporre una riforma fluida e permanente dell’organigramma del personale secondo le leggi dell’armonia cromatica.

 

Nell’indice del volume salta all’occhio un dittico di racconti sorprendentemente simili, per quanto non identici, per titolo e tematica, probabilmente frutto di una rielaborazione da parte di Malerba, che in ogni caso rappresentano due momenti di un unico ragionamento: Il dolore fantasma (Ti saluto filosofia) e Dolore fantasma (Sull’orlo del cratere). In entrambi il narratore, giocando in modo esplicito con stereotipi proustiani, è dotato di una memoria straordinariamente precisa nel rievocare dolori passati, fisici nel primo caso, psicologico-sentimentali nel secondo. Ma i due in realtà sono uno, infatti nell’incipit di Dolore fantasma chi parla sostiene di aver risolto i propri dolori fisici di adolescente tramite la scrittura, riprendendo un discorso interrottosi alla chiusura del primo racconto. Questo dotatissimo ricordatore, una variante del Funes borgesiano, durante la maturità esorcizza i nuovi dolori che si trova ad affrontare tramite la traduzione di La strada di Swann di Proust: ma se il primo racconto si chiudeva in un elogio terapeutico del gesto scrittorio, il secondo, pur ribadendone il valore curativo, si chiude su tonalità più cupe, come ad ammonire che lo scrivere è una forma di cura, certo, ma solo finché dura. All’interno dei racconti di Malerba non c’è più spazio per un «avrei preferenza di no», per un diniego che non sia quello speciale svelamento del mondo che si attua attraverso la letteratura: fuori di esso restano solo le «linee catastrofiche della realtà» che ci zavorrano inchiodandoci a terra.

 

Fin dai primi romanzi i suoi personaggi sognano continuamente di spiccare il volo per evadere da una realtà che li schiaccia, ma di fatto non decollano mai. Analogamente Malerba nei suoi racconti sorvola sulle cose rimanendo sempre a una distanza che gli permetta di non cedere mai a tentazioni veriste e psicologiste che non gli appartengono; al contempo, egli è ben attento a non perdere mai di vista i propri obiettivi polemici, senza abbandonarsi a derive che gli risulterebbero fin troppo facili, ma scendendo in picchiata al momento giusto: questi racconti sono i voli (non poi così pindarici) di un curioso che non ha mai smesso di investigare tramite la letteratura la folle normalità che lo circondava. Per giocare con la tassonomia sartriana, forse Malerba si colloca nel mezzo del bivio tra fuga ed engagement: quale narratore più di lui si è “impegnato” a volare rimanendo coi piedi per terra, proprio come le sue galline? Anche questo mi pare un ossimoro degno di un racconto.

 

Luigi Malerba, Tutti i racconti, a cura di Gino Ruozzi, Milano, Mondadori, 2020, pp. 744, € 28,00.

 

 

[Immagine: Foto di Mimmo Frassineti (1982)].

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