di Andrea Cortellessa
[Nel trentennale della morte, caduta il 28 maggio 1990, esce da Luca Sossella Il libro è altrove. Ventisei piccole monografie su Giorgio Manganelli di Andrea Cortellessa (pp. 295, € 16): ventisei pezzi facili, su uno scrittore per antonomasia “difficile”, scritti in ventisei anni di culto: uno per ogni lettera dell’alfabeto. Col bonus dei tre pezzi dedicati da Manganelli al pittore amico Gastone Novelli, e di otto delle magnifiche tavole da questi dipinte, nel 1964, per illustrare l’inillustrabile opera prima di Manganelli, Hilarotragoedia].
Il Tapiro, per una volta, s’è fatto cauto; soppesa le parole. È acciambellato a fianco d’un altro gattone che fa le fusa, pendendo dalle sue labbra (è Paolo Terni, che nell’80 lo intervista, per Radio Tre, sui suoi dischi più amati: Una profonda invidia per la musica, 2014). Mahler? Per anni è stato un «casus belli», lo provoca Terni. E il Manga: «in questo momento sta godendo tali fortune che un mio amico musicologo dice che non lo si può più frequentare di giorno».
Lo stesso oggi vale per lui, Manganelli. In vita lo si guardava come minimo con sospetto, più spesso con raccapriccio; i suoi paradossi, squisiti, presi come guittesche provocazioni (e lui ci metteva del suo, travestendosi da pennivendolo, da «sciantoso delle lettere»); Pasolini esasperato gli dava del «teppista» (senza immaginare di fargli il più sontuoso dei complimenti), più sottile e perfido Fortini diceva «ha sempre ragione. Dunque non ha mai ragione» (non aveva tutti i torti; solo che, nell’occasione, ragionava come lui), Moravia semplicemente non lo capiva (il che, diciamolo, non ci stupisce). E invece all’improvviso Manganelli lo si trova citato, oggi, a dritta e soprattutto a manca (da Paolo Sorrentino, per esempio, in esergo a quel pasticcio che è Loro). Addirittura – trasecola Silvano Nigro – la fosforescente raccolta delle sue recensioni da lui allestita per Adelphi, Concupiscenza libraria, è finita nella classifica dei saggi più venduti. Se per caso questa verrà a saperla il Manga, da lassù o da laggiù, ripeterà la battuta di Beckett alla notizia del Nobel: catastrophe!
Questa celebrazione, tanto più fervida da parte di chi non l’ha mai letto davvero, va presa con molte molle: l’unanimità, in letteratura, è per definizione sospetta. Il mai abiurato estremismo, di Manganelli, non si concilia in alcun modo col sussiego di un establishment che persegue valori agli antipodi dei suoi. Ci si diverte con lo scrittore di viaggio miracoloso (proprio lui, il «non antropomorfo»), col recensore sulfureo (ma, fra un lazzo e un ghiribizzo, d’ogni libro capace, ha scritto l’amico Citati, di «discendere fino al suo cuore e di colpirci al cuore»), soprattutto col corsivista esilarante (un risvolto che è un corsivo su sé stesso: «Ha scritto saggi e pseudoracconti di cui non mena alcun vanto; di tutto il suo opus, è vanitoso, spesso in modo intollerabile, unicamente dei suoi corsivi; talora li legge da solo, e ride»). Ma si evita di confrontarsi coi capolavori che, dopo tanta acqua sotto i ponti, restano sesto grado della retorica: libri come Hilarotragoedia, Nuovo commento, Dall’inferno o La palude definitiva sono libri che non fanno sconti. Nella forma, abbacinante, e tanto meno nella sostanza: intrisi come sono dell’angoscia più nera, dell’atrabile più bulicante, della noche più oscura dell’anima. Quell’inferno lo espelleva da sé, il Manga, in forma di scrittura: con esorcismo che chiamava, con formula facile da equivocare, menzogna. In questo modo non curava sé stesso, che del resto non ne voleva sapere di curarsi; e certo oggi non ci vellica la pelle. La letteratura «non è affettuosa, non accarezza i cani», non firma gli appelli, non aiuta le vecchiette ad attraversare la strada. È asociale, anzi sociopatica, si fa bene a sospettarne: è frivola, dissipativa, immorale, in una parola losca («È la libertà. Ma non la libertà bene intesa»). Nel paese degli anniversari, di Manganelli non si celebra mai la nascita ma – anche stavolta, il 28 maggio di trent’anni fa – sempre la morte. Lui lo aveva detto: la letteratura è un modo per comunicare con i morti; è anzi, in certo senso, proprio la morte (altro che «letteratura come vita»!).
E poi La letteratura come menzogna, già. Quanto dovrebbe essere meno à la page, al tempo dell’autenticismo più fasullo (Pasolini? «un romanziere in similvita»: peccato non abbia potuto leggere Petrolio), delle melasse più appiccicaticce, del narcisismo coatto che, addirittura, chiamiamo social. Chi lo capisce meglio di tutti è un compagno del Gruppo 63: intervistato da Eugenio Battisti (Manganelli gli aveva confidato che non erano altro, loro, che «amici dissidenti»: in dissenso con tutti gli altri, certo, ma anche fra loro e, soprattutto, ciascuno con se stesso), Enrico Filippini sostiene che scrivere significa mettersi a nudo: «il problema dell’avanguardia è quello di stare sempre bene attenta ad essere proprio nuda». Battisti lo interrompe, «è il contrario di quanto dice Manganelli»; e allora Filippini: «Non credo che sia il contrario. Manganelli mi sembra proprio bello nudo». È proprio così: tutti gli usberghi e tutti gli stemmi, il formicolare di note attorno al grande nulla del mondo, le più febbricitanti e lussuose formazioni difensive, tutta questa vertiginosa virtuosistica spettacolare fuga da sé, altro non fa che segnare a dito lo scandalo insostenibile della sua nudità. Se Manganelli è un Re della nostra letteratura, forse il Re di secondo Novecento, è perché questo Re è proprio bello nudo.
[Questo articolo è uscito su «Il Sole 24 ore-Domenica» il 24 maggio].
[Immagine: La scrivania di Manganelli].
“6 novembre 1973
Caro Manganelli,
non so in quali selve malesi t’aggiri, pugnale dadako tra i denti a bordo della tua giunca.
Comunque ti scrivo a Roma, sperando che tra una Sumatra e una Giava ci farai tappa.
È per dirti che nel risvolto del Castello dei destini incrociati ora in stampa, metto un pezzo del tuo bellissimo articolo del ‘realismo araldico’. M’auguro che nulla osti. “
Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, Einaudi, Torino, 1991 p. 600
“ 7 settembre 1987 – Suona strana, suona scolastica, suona ridicola l’insistenza dei piccoli epigoni della neoavanguardia sulla capacità della letteratura di « mentire » – manganellismo degli stenterelli. A mentire ci riescono in parecchi, ormai, e quasi tutti con più audience della letteratura. Tanto varrebbe (le) dire la verità. “.
“Da qualche tempo mi accade di leggere le prose teoretiche di Pier Paolo Pasolini con una sorta di devozionale raccapriccio; non oserò dire che scrive male, tenuto conto anche della media nazionale, ma che scrive, all’incirca, come un sociologo che, dopo passionali e discontinui studi giuridici, abbia scoperto e incautamente amato una letteratura, degli autori non indiscriminatamente consigliabili, tanto per fare un esempio, Giovanni Papini, Luigi Russo e l’ultimo Pier Paolo Pasolini. Mi rendo conto di esser caduto in un errore di logica, ma di un genere così squisitamente pasoliniano, da non trovar cuore per emendarlo.”
Giorgio Manganelli, Mammifero italiano, Adelphi, Milano, 2007 p. 11