di Giovanni Accardo
[Prosegue il diario verosimile di Giovanni Accardo sulla scuola e la didattica a distanza. Le prime due puntate si possono leggere qui e qui].
«Quando torniamo a scuola?», è la prima domanda che mi fanno a ogni collegamento gli studenti, soprattutto quelli di seconda.
«Forse a settembre», dico.
«Perché dice forse?»
«Perché ancora non c’è nessuna certezza, solo ipotesi.»
Alcuni di loro sono figli unici, chiusi in casa da soli dal 9 marzo. Qualcuno ha i genitori che lavora da casa, qualcun altro i genitori che invece lavorano fuori casa, quindi trascorrono gran parte della giornata in totale solitudine. Quasi tutti i ragazzi di questa classe giocano in una squadra di calcio, uno a basket, un altro suona la chitarra in un gruppo, ma da quarantacinque giorni la loro vita è all’insegna della solitudine.
«Prof, se io continuo a stare chiusa in casa», mi dice Sofia, «impazzisco.»
«Addirittura!», provo a sdrammatizzare.
«Provi lei a stare da quarantacinque giorni con i propri genitori dalla mattina alla sera.»
Sofia è fidanzata con un ragazzo di terza che non vede da quarantacinque giorni, in più condivide la camera con la sorella più piccola, anche lei studentessa e anche lei in collegamento con la sua scuola, perciò tutti i giorni è una lotta per i propri spazi.
Mattia, invece, non parla più, è sempre più triste. I suoi genitori si stavano separando e in questi giorni sono costretti a una convivenza forzata, chissà cosa è costretto a vedere o a sentire tutti i giorni.
«Ragazzi, anche se non torniamo a scuola, da domani sarà possibile muoversi in città, sia pure con la mascherina e a distanza di sicurezza. L’ha detto il sindaco», provo a rassicurarli. «La provincia di Bolzano vuole bruciare le tappe del ritorno alla normalità, il sindaco dapprima si è opposto, ma ora ha deciso di concedere qualche piccola libertà.»
«Ma dove dobbiamo andare, se tutto è chiuso?», mi dicono in coro.
«Intanto potete stare all’aria aperta, con queste giornate di sole non è male, andare in un parco, correre.»
«Pensa che possiamo giocare al pallone?»
«Questo non lo so, bisognerebbe chiedere. Forse se state a distanza di un paio di metri l’uno dall’altro.»
“Io penso che non sarà possibile», dice Davide, «fanno le multe appena vedono uno in tuta da ginnastica.»
«Hanno pure messo il nastro rosso dei lavori in corso sulle panchine per non farci sedere.»
«Ma che senso ha?», chiede Jessica.
«Prof, ci dica che torneremo a scuola.»
«Ragazzi, non dipende da me. Torneremo, certo che torneremo, non dipende da me o dalla preside, deve decidere il Governo quando. Ma torneremo.»
«Io non avrei mai creduto che mi sarebbe mancata così tanto la scuola», dice affranta Nadia, che effettivamente in classe era la campionessa dei distratti.
«Non hanno fatto altro che rimproverarci perché stavamo sempre attaccati al cellulare e ora siamo costretti a starci tutto il giorno», dice Morgan.
«Ma che senso ha?», ripete Jessica.
«Da ogni esperienza s’impara sempre qualcosa, soprattutto da quelle negative.»
«Francamente ne avrei fatto a meno», dice Isma, i capelli ben nascosti nel suo foulard nero.
Lei arriva dall’Iraq e di esperienze negative effettivamente ne ha vissute tante, a cominciare dal padre saltato in aria per colpa di un kamikaze. Anch’io sono stanco e non sempre so cosa dire per incoraggiarli, per dare un senso a quello che stiamo vivendo, però capisco che devo provarci, è il mio compito di adulto. Magari cercando aiuto nella letteratura.
La scorsa settimana abbiamo finito di leggere La strada di Cormac McCarthy, scelto per un percorso multidisciplinare sui cambiamenti climatici progettato dall’intero consiglio di classe e che doveva concludersi a giugno con una presentazione in aula magna. Per la presentazione avevamo scelto la forma teatrale, invitando un’attrice e regista che avrebbe tenuto un corso di teatro alla classe, insieme poi avrebbero scritto un testo che riassumesse il percorso affrontato nelle varie discipline da mettere in scena. Speravamo che l’esperienza teatrale, il mettersi in gioco attraverso la recitazione, servisse ad aiutare una classe che manifesta spesso comportamenti immaturi e una scarsa capacità di autocontrollo, insomma un modo per aiutarli a crescere, per migliorare la relazione fra di loro e con gli insegnanti, per imparare ad assumersi le responsabilità di funzionamento di un gruppo, attraverso l’attenzione all’ascolto e alla condivisione.
«Ha visto cosa c’è scritto a pagina 181?», mi hanno chiesto alcuni di loro.
«Cosa c’è scritto?»
«In un dialogo il padre dice al figlio: “Andrà tutto bene”.»
«Bravi, non me n’ero accorto.»
«Solo che nel romanzo non è andato tutto bene, dato che poche pagine dopo il padre muore», dice Sara.
«Però il bambino trova una famiglia che lo accoglie e lo porta con sé, dunque il finale offre una speranza. Forse la letteratura ci può aiutare a costruire sogni e speranze», obietto io.
Nessuno commenta le mie parole, allora chiedo di leggere insieme Dopo ogni guerra di Wislawa Szymborska, una delle poesie del percorso sulla poesia civile che abbiamo iniziato da poco.
Mi auguro che davvero la poesia e la letteratura li possano confortare e aiutare a crescere.
Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.
C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.
Non è fotogenico,
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.
C’è chi, con la scopa in mano,
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto lì si aggireranno altri
che troveranno il tutto
un po’ noioso.
C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva
di che si trattava
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.
Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con una spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.
(trad. di P. Marchesani, Scheiwiller, 1999)
* * *
Prendendo spunto dalla poesia di Wislawa Szymborska, ho chiesto agli studenti di scrivere un loro testo, in versi o in prosa, intitolato Dopo la pandemia. Ne ho scelti cinque da condividere in questo diario, l’ultimo è di uno studente che si diletta col rap e che ha molto forte il senso del ritmo.
dopo ogni pandemia
c’è chi deve rialzarsi
le cose al posto loro
non tornano da sole
c’è chi vuole rivedere i propri cari
chiusi nei reparti
e non dover più dipendere
dagli eroi di questi tempi
c’è chi deve smettere
di sprofondare nel vuoto
e nelle ceneri
e recuperare stracci insanguinati
c’è chi deve riportarsi a galla
per riconcimare da capo
c’è chi deve superare il lutto
e ricominciare a vivere
non è scomparso
ci vorranno mesi per quello
le attenzioni sono già passate
per un’altra emergenza
bisogna riaprire le strade
e i negozi
le braccia saranno stanche
a forza di rialzarsi
[Giulia]
Dopo una pandemia
le città deserte
si riempiranno della loro gente
cosi da sembrare una anomalia
C’è chi deve ripartire
con il proprio lavoro
per continuare a vivere
le loro vite
C’è chi deve riprendersi
da questa brutta situazione
che ha portato nel mondo
paura e maggiore attenzione
C’è chi deve scordarsi
di quel che è passato
e pensare a un futuro
migliore e incondizionato
C’è chi vuole rivedere
i propri cari e i propri amici
per poterli riabbracciare
ed essere felici
C’è chi vuole stare
tutto il giorno fuori
dopo giornate a casa
e senza uscire fuori
C’è chi vuole riappropriarsi
della propria libertà
che gli è stata negata
per tornare alla normalità
Il mondo non sarà
più come prima
ma forse speriamo
meglio di prima.
[Luca]
Dopo ogni pandemia
C’è chi deve rimediare
In fondo il caos
Da solo non si è creato.
C’è chi deve riprendere un’attività
La vita ricomincia
Nelle piccole e grandi città
Per provare a tornare alla normalità.
C’è chi deve restare così
Come se niente fosse risolto
Le video lezioni fatte da casa
I corridoi delle scuole ormai deserti.
La gente per strada con le mascherine
Coperto il sorriso sui volti di tutti
Solo gli occhi fanno trasparire emozioni
Niente è più come prima.
Su internet notizie sempre nuove
Alla televisione non si parla d’altro
La pandemia è sulla bocca di tutti.
La normalità sta tornando
Tutti con la paura di una ricaduta
Chi ancora ne parla
Chi il ricordo ormai ha sotterrato.
[Giorgia]
Dopo ciò che sta succedendo, ci saranno delle persone che si dovranno dare da fare per colmare vuoti e far tornare alla normalità quella che noi chiamiamo Terra.
Alcuni dovranno faticare per guadagnare qualche soldo e sopravvivere alla crisi.
Molti dovranno lavorare sodo, per rimettere in sesto la società, fra distanze, protezioni e limiti.
C’è chi ha perso persone care, senza la possibilità di un ultimo saluto.
Questo è un lungo processo, non è bello da vedere.
Tra qualche anno i giornalisti spingeranno la nostra attenzione su altro, facendoci dimenticare questi momenti, segregandoli in un angolo buio della nostra memoria.
Dovremo impegnarci a rispettare nuove regole, che prima o poi ci porteranno allo sfinimento.
Coloro che ripuliranno, ricorderanno com’era il mondo prima dell’emergenza.
Ci saranno quelli che tra qualche anno racconteranno di aver rischiato di morire o di aver salvato delle vite.
I sopravvissuti ascolteranno, annuendo, questi racconti. Pian piano, però, le generazioni future troveranno noiose queste storie.
Ogni tanto qualcuno tirerà fuori una vecchia storia che si unirà alle altre già raccontate, come a formare una pila di rifiuti.
Chi ha conosciuto queste storie, verrà seguito da chi le conosce di meno, e via via saranno dimenticate.
Laddove oggi ci sono persone affrante e distanti, in un futuro forse lontano ci saranno persone che potranno respirare all’aria aperta, ritrovarsi assieme e abbracciarsi.
[Thomas]
Zitto come la marea
È una strana sensazione
sembra tutto una finzione
C’è chi dice che tutto è reale
o sostiene che invece sia normale
Non ci sono case o ponti da ricostruire
né macerie che le strade fanno scomparire
ma negli occhi della gente si può percepire
la paura che dai cuori non vuole più svanire
Non c’è un soldato in fuga che abbandona il suo fucile
ma resta l’infermiere che dal fronte non può uscire
Perché questo nemico non si è ancora ritirato
nel buio sta covando come il fiato di un soldato
che adesso resta nascosto giù nella trincea
ma pronto a saltar fuori zitto come la marea
Dicono che questa è l’occasione per cambiare
forse è vero ma a me basterebbe ritornare
a quel giorno quando tutto si è fermato
e in un secondo il mio mondo si è rubato
Hanno ragione sono solo un ragazzino
ma hanno dimenticato di parlare del mio destino
ancora non han capito che domani sarò io
a prendere il mondo sulle spalle e il peso sarà mio
[Alessio]
* * *
Ho letto che in un paese della Lombardia pensano di mettere al polso dei bambini della scuola materna ed elementare dei braccialetti elettronici che vibrano e s’illuminano quando i bambini si avvicinano troppo. L’obiettivo è quello di costringere i bambini, che a quell’età trovano naturale giocare insieme, spingersi e rincorrersi, sporcarsi e buttarsi a terra, a mantenere la distanza di sicurezza per evitare contagi. In questo modo, deve essere la tesi di chi l’ha proposto, si può ritornare a scuola. A me sembra una soluzione mostruosa, messa in atto con una terribile logica pavloviana che mira a educare i bambini a non avvicinarsi troppo all’altro, ad averne paura, perché potrebbe rappresentare un pericolo. Già che ci sono potrebbero aggiungere anche una piccola scarica elettrica. Che adolescenti saranno quei bambini, dopo aver vissuto per qualche mese l’altro come una minaccia? Vorranno restare sempre chiusi in casa?
Abbiamo già qualche studente, non molti per fortuna, affetti da quella che si chiama fobia sociale, cioè la paura degli altri, causata da varie ragioni: timore di essere giudicati, scarsa autostima, ansia di sbagliare. Gli studi dicono che in prevalenza colpisce le donne, e infatti nel mio liceo, da quel che ricordo e per mia esperienza, abbiamo quasi esclusivamente studentesse affette da questa patologia. Sono ragazze e ragazzi che hanno una frequenza molto discontinua, trovando sempre scuse per non venire a scuola e restare chiuse a casa propria, fino a delle vere e proprie interruzioni della frequenza. Come altre scuole della Provincia di Bolzano, abbiamo attivato uno specifico progetto per sostenerli ed evitare l’abbandono scolastico. Vengono seguiti da un’educatrice che diventa una sorta di amica maggiore che talvolta semplicemente le accompagna nel percorso da casa a scuola, oppure le aiuta a fare i compiti, le porta fuori dall’aula per proseguire l’attività didattica in biblioteca o in un altro spazio isolato dell’edificio. Mi raccontava Manuela, mia ex alunna ed educatrice che da ottobre seguiva Eleonora, che quando la mattina andava a prenderla a casa, la ragazza chiedeva spesso di fermarsi al bar o in un parco lungo la strada, rallentando l’arrivo a scuola. Il progetto lo prevede, in modo che si riduca ogni forma di conflittualità e risulti molto rassicurante. Per cui gli studenti seguiti da questo percorso di sostegno hanno un loro orario scolastico concordato con il consiglio di classe, evitando soprattutto i momenti in cui c’è affollamento, ad esempio la mattina all’inizio delle lezioni o alla pausa. Eleonora ha un rapporto morboso col padre, che l’accompagna in tutte le sue uscite e spesso viene a prenderla a scuola. La ragazza non ha nessuna amicizia e nel tempo libero non frequenta nessuno. Ho sperimentato che non ha alcun problema cognitivo, anzi, è molto intelligente, sensibile e scrive in un ottimo italiano. Frequentava volentieri le mie lezioni, specie quando leggevamo testi di letteratura. Ma con la pandemia e il conseguente lockdown l’abbiamo persa. Non ha partecipato a nessuna videolezione e dopo qualche giorno non ha più risposto alle telefonate o ai messaggi dell’educatrice.