di Giuseppe Nibali

 

Non si sentono musiche. Non c’è nessun rumore.

La scena è quella descritta da Elio Petri in apertura di Todo modo[1]: una grande macchina bianca, uno Scudo della croce rossa a corsa sulla strada deserta che dagli altoparlanti grida il messaggio nero della paura: la pandemia è arrivata, morti si contano in Salento e nel beneventano, alcune decine al giorno, e in tutta Italia, naturalmente.

Il mezzo si muove nel deserto grande del meridione d’Italia: tra i filari, accanto ai cortili e ai campi che da verdi come l’inverno li ha lasciati si sformano adesso con gioia nel giallo dorato del grano che li accompagnerà durante l’estate, un’estate che, come pare, sarà silenziosa e solitaria.

 

Trotta magro e sicuro, scriveva Bodini ne La luna dei borboni, un gatto nel Sud nero, e sembra quasi ridotta a gatti e uccelli di rapina, questa metà del Paese, avvolta com’è dal silenzio dell’ipocondria, immersasi, inabissatasi finalmente, entità talattica, nel mare Mediterraneo.

Solo alcuni animali, sempre diversi, con le loro peregrinazioni lacerano gli sterrati tra i paesini chiusi, tra i greti e i viticci, sui campi di carciofi abbandonati, mentre dalle portefinestre semichiuse, dalle case arriva l’eco delle bestemmie e degli improperi per il ristorante chiuso, per il male del virus.

 

A seguire il gatto, tutti noi. I vinti (pochi, per fortuna) nelle terapie intensive palermitane, napoletane e pugliesi, il personale medico negli ospedali, gli statistici che giorno su giorno aggiungono terrore ai numeri e allo stato del contagio, con curve epidemiologiche che fanno da sfondo a un Paese nel Paese che forse è sempre stato in emergenza e che adesso a quella può forzare, con un po’ di gusto, un abito che prima mancava, un abito globale, finalmente.

Così oggi tutti, in tutte le terre e lungamente, si scoprono meridionali, fallibili e terremotati, vincolati a continue strategie di povera sopravvivenza e non ridono provando per la prima volta una condizione che qui è antica maledizione.

Facile è raccontare la storia nel suo divenire, e per questo si vuole qui divagare leggendo, in un viaggio letterario recente del meridione, alcuni personaggi, rileggendone altri e, soprattutto, risemantizzando tutto.

I primi personaggi che incontriamo, le prime maschere, sono i cristiani. Cristiano è qui, si badi bene, espresso nell’accezione siciliana, quindi come sineddoche per indicare gli uomini poverelli, gli ultimi, i cittadini, gli impotenti.

 

Di nome faceva Giuseppe. Giuseppe Buscemi. Trent’anni. Siculo americano. Nato lì: a Milton, West Virginia. Era basso, coi muscoli tesi come gli orecchi di una bestia impaurita nella stalla durante la notte, preda dei tuoni. Le sue orbite erano scure. I capelli di quella paglia nera che sono le ceneri dei campi notturni[2].

 

Cristiano è Giuseppe Buscemi, protagonista di Suttaterra, che metaforicamente intraprende il suo “viaggio verso la morta” dall’America a una Sicilia gotica e tetra, che perfetta pare a raccontare questo tempo. Morta la moglie si imbarca dunque sulla petroliera Christmas per attraccare a Gela, vicino al petrolchimico.

Giuseppe è il figlio di Razziddu, protagonista de Lo Scuru, esordio letterario di Labbate e padre e figlio, pur odiandosi, rappresentano nel migliore dei modi una maledizione che, per linea paterna, si protrae fino all’epilogo tragico.

 

Cristiano è Michele Trevi, protagonista mancato dell’esordio narrativo di Andrea Donaera, giovane morto suicida, pare, per colpa della bella Nicole e del suo amore non ricambiato, e tormento del padre, Mimì, capobastone della Sacra Corona Unita, che, a differenza di Razziddu, non condivide la stessa categoria del figlio.

Michele è infatti un ragazzo sensibile e introverso ed è l’autore di un piccolo canzoniere che diventa pseudobiblium del romanzo.

 

Sono debole? Lo dici sempre tu e ora mi dormi accanto e non mi vedi, e non vedi l’enorme massa irrobustirsi sopra il mio torace e le sue unghie infierire nella mia carne, la sonante carne e le unghie vivide della Nerissima. La Nerissima ha mani, o sono zampe!, mi toccano, e sono mani d’insetto, mani d’infernale brulichio[3].

 

Cristiano è l’ignoto protagonista del primo romanzo di Francesco Iannone, Arruina, cristiana è sua moglie, innocenti immersi nel tentativo di salvare la bambina (che tiene addosso il germe di una nuova umanità, finalmente libera dal male) dalle Nerissime, le janare che la rapiscono. Il percorso è di nuovo quello semi-gotico proposto da Labbate ma qui questo si arricchisce con caratteristiche tipiche della fiaba nera meridionale, la fascinazione, l’occhiatura, la stregoneria (che Iannone brillantemente riesuma) da Basile in poi. Ne viene fuori un capolavoro di marciume e danze oscure, abitato da creature dell’abisso provinciale, del bosco. Qui è chiaro come tutti i cittadini siano i cristiani mentre le Nerissime, gli aiutanti e soprattutto la bambina sfuggano a questa categoria.

 

I cristiani sono innocenti. Ci sono i cristiani e poi ci sono gli onorevoli.

«Nell’uomo politico – scriveva Manlio Sgalambro ne Dell’indifferenza in materia di società – si incarna lo stato medio di una società – i vizi, le mediocrità, i difetti – come se egli ne assorbisse i mali alla maniera dei vecchi stregoni che succiano la ferita purulenta succhiandone anche il maleficio. Così i loro vizi, le turpitudini, il malaffare, sanno di qualcosa di diverso. È come se essi imbrigliassero tutto ciò che di turpe vi è in una convivenza e ne liberassero gli altri».

 

Onorevole è Jole Santelli che violando le direttive dell’ultimo DPCM fa riaprire i bar e i ristoranti della Calabria, causando, in una regione che non sarebbe preparata a una ondata sul modello lombardo, l’ira del governo e la reazione di Boccia, che minaccia una diffida.

 

Onorevole è il governatore siciliano Nello Musumeci, il meno esposto mediaticamente tra le grandi regioni del Sud. Un po’ si è lamentato, un po’ ha chiuso, ma sempre meno di altri. E così anche lui, adesso, in coda agli altri governatori di opposizione, è pronto ad alcune riaperture.

 

La Sicilia, dice, ha retto bene, e bene si sta allontanando dal virus.

 

Appartengo a una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni; e che che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri[4]?

 

Onorevole è soprattutto il governatorissimo De Luca, che durante la settimana pubblica continuamente ordinanze, aggiornamenti, news e direttive sulla regione Campania. Fa lo sceriffo, De Luca, e gioca sulla chiusura della direttrice Nord Sud (che tanto ha fatto discutere su quella, molto più battuta, di senso contrario).

 

Dalla mascherina di Bugs Bunny fino al lanciafiamme in mano ai carabinieri per combattere le feste di laurea De Luca è senza dubbio il Gattopardo, il grande onorevole che ogni venerdì fa puntuale il suo discorso alla nazione. L’imperativo è sempre lo stesso: resistere, mantenere le limitazioni nel modo più stringente possibile. Spesso anche De Luca, pur venendo da posizioni politiche non dissimili da quelle del governo, ha espresso dubbi e opposizioni ma in senso contrario rispetto a Santelli e Musumeci.

 

Gli onorevoli non sono colpevoli, ma non sono innocenti.

 

Giuro sulla punta di questo pugnale, bagnato di sangue,

di essere fedele a questo corpo di società formata, di disconoscere padre,

madre, fratelli e sorelle, fino alla settima generazione.

Giuro di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi,

attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita

e di rappresentarne ovunque il Santo, san Michele Arcangelo[5].

 

Ci sono i cristiani, ci sono gli onorevoli e poi ci sono le Nerissime.

Sono le Nerissime a infestare i sogni e la vita della donna e dell’uomo protagonisti di Arruina. Sono loro a rapire la Sperduta che è, secondo la profezia, l’unico antidoto possibile al male. Le Nerissime sono entità amorfe, difficilmente riconoscibili se non per la scia mefitica di putredine che portano con loro. Si vedono poco, si sentono solo quando le abbiamo addosso.

 

E Mimì pensa che li ammazza tutti. Tutti, se non se ne vanno da lì, se non lo lasciano da solo, in quella sala, Mimì fa un macello, li ammazza tutti. In quella sala, dove ci sono stati momenti belli, solo momenti belli, serate di carte, vino, amici, parenti, discorsi, progetti, risate, donne di là a dormire, in quella sala, che la si apriva solo per questo, per le serate[6].

 

Nerissima è Mimì, per indole e per sventura. Mimì è un capomafia, un uomo abituato a risolvere con la violenza qualunque contenzioso, ma Mimì è anche un padre che perde il figlio a causa di un suicidio. Causa incausata che crea scompiglio nelle vite di tutti, innocenti o meno.

Mimì è strutturato e proposto da Donaera come un animale e da belva reagisce al dolore causandone altro, mille volte amplificato, nel tentativo di una vendetta che non può mai davvero avere luogo.

 

Nerissima è Alfonsino Scibetta, nano infero di Suttaterra, che tutti guarda dalla sua posizione di eterno presente, i vizi e le virtù di quanti come Orfeo, come Razziddu, come Giuseppe scendono alle sue porte per provare a forzarle.

Labbate sapientemente lo pone a giudice sciancato dell’Averno, ad un tempo Cerbero e Caronte, creatura dell’informe.

 

Le Nerissime ci spiano dai vetri delle finestre, si leccano vicendevolmente le gocce di latte cadute tra le piume e dul lucido smalto delle unghie. Hanno bocche larghe e denti aguzzi. Ma non hanno voce, solo suoni che urtano gli abissi. Si dicono cose. Sono una cucciolata mugolante nella paglia. Le loro parole non sono parole[7]

 

Nerissima è soprattutto la criminalità meridionale, l’unica azienda italiana che non ha subito battute di arresto ma che invece continua ossequiosamente a macinare nuovi consensi. Stato nello Stato, non teme tassazioni e, approfittando della sua natura informe, spera che nessuno senta i miasmi che dalle piazze di spaccio ancora si sollevano. Così veniamo a sapere dei famosi DPI che vengono distribuiti a pusher nel quartiere ZEN, a Librino, alle Vele, dove con mascherina chirurgica e guanti gli affari continuano.

È stato Peppe Provenzano, uomo che conosce bene il Sud, a proporre per primo una via di sostentamento per aiutare i lavoratori in nero. Anche se arriverà, e per quanto sia essenziale, potrebbe rivelarsi insufficiente per una massa così significativa di persone e contro la forza delle Nerissime.

 

Chi oggi racconta di una possibile via meridionale, di una Urbs Felix posta momentaneamente fuori dalla sua tragica Storia, dove i contagi non sono arrivati per la ammirevole condotta di cristiani e onorevoli, dice forse qualcosa di parziale.

Il popolo meridionale, la nazione nella nazione vive oggi uno dei momenti più difficili, quello che precede il balzo nel vuoto, la crisi economica che sarà con ogni evidenza il giorno delle Nerissime. Questa terra, che da più di due secoli è punto cardinale della nullificazione e del tormento, delle streghe e dei diavoli, sta per gridare ancora una volta.

 

Note

 

[1] Nel libro di Leonardo Sciascia che ha ispirato Petri non è presente l’epidemia di cui si parla nel film e che diventa causa della presenza del “Presidente” Aldo Moro (Gianmaria Volontè) alla corte di Don Gaetano (Marcello Mastroianni) nel monastero di Zafer.

[2] Orazio Labbate, Suttaterra, Latina, Tunuè, 2017, p. 13.

[3] Francesco Iannone, Arruina, Milano, Il Saggiatore, 2019, p. 16.

[4] Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Milano, Feltrinelli, 1958, p.213.

[5] Giuramento degli affiliati della Sacra corona unita, in Andrea Donaera, Io sono la bestia, Milano, Enne Enne Editore, 2019.

[6] Ivi, p. 11

[7] Francesco Iannone, Arruina, op. cit., p.18.

 

[Immagine: Foto di Matteo Maria Orlando].

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