di Natascia Tosel
[Pubblichiamo il secondo intervento della rassegna intitolata Chi ha ucciso la critica? Un’indagine indiziaria, a cura di Mariano Croce, in cui autrici e autori si confrontano sulla recente contrapposizione, dialettica o meno, tra critica e postcritica. Il primo intervento può essere letto qui].
“La vita bassa” – espressione che prendiamo a prestito, pur stravolgendone il senso, da Alberto Arbasino[1] – indica, nell’intenzione di chi scrive, ciò di cui si occupa la postcritica. “Nell’intenzione di chi scrive” è, innanzitutto, una precisazione doverosa poiché la postcritica si dice (e si fa) in molti modi e sarebbe pertanto inopportuno cercare di darne una definizione univoca. “La vita bassa”, in secondo luogo, non ha nessuna connotazione morale, etica o geometrica. È bassa come l’acqua di un fiume che fa intravedere ciò che sta sotto: è la vita nella sua quotidianità[2], caducità, ordinarietà, casualità, contingenza. La postcritica è un modo di guardare alla vita bassa senza la pretesa né di elevarla a vette mistiche né di sprofondarla negli abissi; si tratta di saper stare sulla superficie della realtà, ma è questo un know-how niente affatto facile da apprendere per una disciplina come la filosofia, abituata da sempre ad ergersi sull’Olimpo delle idee.
La filosofia, tuttavia, ha già subito nel corso della sua storia un primo stravolgimento con l’arrivo della critica che le ha insegnato a rimettere i piedi per terra invece che continuare a “camminare sulla testa”. Si è trattato di una vera e propria rivoluzione, i cui effetti, però, oggi sembrano esauriti. La critica si è istituzionalizzata come metodo filosofico per eccellenza: un metodo di ricerca, un modo di scavare nel fango della realtà per scoprire che non si tocca mai il fondo, che c’è sempre qualcosa di nascosto/non-visto/non-detto, da scoprire. In questo modo la teoria critica è divenuta autoreferenziale: si fa teoria sulla teoria e non si fa altro che correggere le teorie di altri. Ci si è dimenticati la vera natura dello spirito critico, quello di rimettere i piedi per terra, ed è esattamente ciò che la postcritica rivendica. Con un accorgimento in più, però: il reale in quanto oggetto di indagine deve essere certamente esplorato attraverso i concetti (la postcritica, del resto, è pur sempre una postura filosofica), ma senza la pretesa che questi ultimi siano universali, esaustivi, assoluti. Se osserviamo la vita bassa, non possiamo che notare come essa si componga di inesauribili cambiamenti, adattamenti, relazioni, casi: nulla che possa assurgere a rotonda verità. Come mette bene in luce Mariano Croce la postcritica è legata «all’osservazione della realtà minuta, del dettaglio, dell’interstizio, perché non vengano mai piegati alle esigenze delle spiegazioni generali della realtà e dei suoi meccanismi[3]». La vita bassa, dunque, come piega del reale, come micro-realtà da intendersi non dell’ordine del più piccolo, ma del più dettagliato.
Deleuze e Guattari utilizzavano il concetto di molecolare per esprimere tale ordine e scrivevano che bisogna «cercare sempre il molecolare o perfino la particella submolecolare con la quale si stringe alleanza[4]». Nella vita bassa prolifera il molecolare e il compito della postcritica è quello di non soffocarlo nelle maglie troppo strette dei concetti universali, globali, profondi. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, infatti, l’universale ed il globale non sono mai troppo ampi, vasti o aperti; essi hanno il problema contrario: il loro spazio è eccessivamente chiuso, esiguo, claustrofobico[5]. Non c’è letteralmente posto per il singolare.
Questo sembra aprire la via ad un rigido aut aut: o rinunciamo ai concetti e, dunque, ad una postura filosofica, oppure rinunciamo al singolare e continuiamo ad abitare sistemi filosofici che aspirano all’universalità. La postcritica, tuttavia, si desta proprio per immaginare una terza via, una soluzione alternativa e “barocca” che consiste nel moltiplicare i concetti così che «se ne tirerà sempre fuori uno dalla manica, e con questo accorgimento se ne cambierà l’uso. […] Si farà […] un uso riflettente, s’inventerà il principio una volta dato il caso[6]». Questo modo di procedere che, secondo Deleuze, è tipico del Barocco coincide con «il matrimonio del concetto e della singolarità[7]» e si rifà ad un uso riflettente dei concetti. Riprendendo la distinzione kantiana tra giudizio determinante e giudizio riflettente, potremmo allora ascrivere quest’ultimo come compito specifico della postcritica. Mentre il giudizio determinante presuppone che vi sia un concetto generale già dato sotto cui sussumere il particolare, si ha, al contrario, un giudizio riflettente quando ci troviamo di fronte ad una singolarità – un caso, un evento – che si presenta come problematica nella misura in cui richiede l’invenzione di un nuovo concetto. In altre parole, nel caso del giudizio determinante il concetto è già dato e ha, pertanto, funzione costituente nei confronti del singolare; con il giudizio riflettente, invece, la situazione si capovolge: il particolare, nella misura in cui accade, diventa costituente rispetto al concetto. Sta tutta qui, a nostro modo di vedere, la distanza tra critica e postcritica: l’una si occupa di giudizi determinanti e, dunque, costruisce macro-teorie e macro-concetti; l’altra, invece, inventa micro-concetti molecolari.
Non interessa in questa sede esprimere un giudizio di valore su questi due differenti modi di procedere; entrambi, infatti, vanno incontro a delle difficoltà. La critica costruisce concetti che aspirano ad un’estensione universale e globale, ma rischia così di perdere la presa sulla realtà; la postcritica, dal canto suo, ridà voce alla materia singolare, ma rinuncia così a costruire delle teorie generali di ampia portata. Ciò che preme far notare, tuttavia, è che queste due differenti posture filosofiche possono produrre sullo stesso oggetto di indagine due narrazioni molto diverse che si muovono su terreni non solo teorici ma anche e soprattutto politico-sociali ben distinti. In altri termini, scegliere di adottare un approccio critico oppure postcritico e, di conseguenza, produrre una macro-narrazione oppure una narrazione molecolare, è sempre anche un gesto politico. Tentiamo di mettere in luce tale aspetto attraverso un esempio concreto, ossia leggendo lo stesso evento prima con l’ausilio di macro-categorie e poi, invece, attraverso l’operazione riflettente propria della postcritica. Il caso in questione riguarda il riconoscimento dei diritti delle coppie dello stesso sesso e scegliamo tale esempio, tra i molti possibili, proprio per la sua estrema rilevanza politica e sociale.
1. Macro-narrazione
Le istituzioni europee condannano qualsiasi forma di discriminazione perpetuata contro persone a causa del loro orientamento sessuale. Tali discriminazioni sono considerate violazioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e, in particolare, degli articoli 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione).
2. Micro-narrazione
Il 26 febbraio 1998, E.B., un’insegnante francese di 45 anni, ha depositato presso i servizi sociali la richiesta di autorizzazione per l’adozione di un minore. Nel modulo preposto ha reso noto il suo orientamento sessuale e la sua relazione stabile con la sig.na R. Nonostante la legislazione francese garantisca espressamente ad una persona sola il diritto di adottare, la sua domanda è stata respinta a causa della «mancanza di un’immagine o di un referente paterno in grado di favorire lo sviluppo armonioso di un bambino adottato». E.B. ha presentato ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) affermando di aver subito un trattamento discriminatorio a causa del suo orientamento sessuale[8]. Con una maggioranza di 10 a 7, la Corte europea ha stabilito che il rifiuto di concedere l’autorizzazione per l’adozione ha violato gli articoli 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il caso di E.B. si è rivelato in seguito determinante in molte altre decisioni della CEDU a sostegno dei diritti delle coppie dello stesso sesso. Solo per fare alcuni esempi, la sentenza del caso E.B. ha aiutato: una coppia omosessuale ad ottenere un’estensione della copertura assicurativa (P.B. and J.S. v Austria, 2010); una coppia dello stesso sesso a procedere con la stepchild adoption (X and Others v Austria, 2013); una cittadina della Bosnia-Erzegovina ad ottenere un permesso di soggiorno in Croazia ai fini del ricongiungimento familiare con la sua partner dello stesso sesso (Pajić v. Croazia, 2016).
L’evento alla base di queste due narrazioni è il medesimo, eppure abbiamo costruito intorno ad esso due storie e due costellazioni concettuali ben differenti. La prima è una narrazione macro-politica, molare, segmentaria, rigida. Essa utilizza delle macro-categorie (discriminazione, orientamento sessuale, diritti dell’uomo, libertà) al fine di guardare l’evento da un punto di vista globale: per farlo è necessario mettere in luce solo quegli elementi che consentono di ricondurre il caso singolare all’organizzazione sociale istituita annullandone così la portata creativa ed innovativa. In altre parole, vengono rintracciate le cause profonde dell’evento: la discriminazione basata sull’orientamento sessuale è condannata in quanto fa parte della categoria più ampia di discriminazione e violazione dei diritti umani.
La seconda narrazione è, invece, micro-politica, molecolare, fluida, attenta al dettaglio. Essa guarda alle linee che l’evento produce, a quelle che incontra e alle deviazioni e ramificazioni che ne conseguono. Si tratta, dunque, di considerare gli effetti istituenti che l’evento crea. È il caso di E.B. che ha creato relazioni impreviste con altre singolarità incrementando la loro potenza, congiungendole a loro volta ad altri casi, costituendo un tessuto connettivo di forze, linee, vettori che non si lasciano categorizzare. Proprio per questo esse sono problematiche: non vi è un concetto già pronto che possa contenerle. Parlare in generale di discriminazione o di i diritti umani significa usare parole vuote che non rendono conto della forza materiale, dirompente e vitale di questi casi singolari e delle loro connessioni. Tale forza, però, può essere vista solo se si guarda in superficie, se si presta attenzione alla vita bassa, se si tiene conto del caso e della sua intrinseca contingenza. Come ha messo bene in luce Olivia Guaraldo «la postcritica non considera i dispositivi di potere, le istituzioni, come oggetti alieni calati dall’alto, verità rivelate, ma prodotto umano, dentro il quale gli umani agiscono, si muovono, modificano quelle stesse istituzioni[9] ». Questo è il compito della postcritica: partire dal particolare, dal micro, dal dettaglio per ricostruire i vettori che lo congiungono con le altre singolarità. Produrre giudizi riflettenti diviene, perciò, un’attività al contempo di connessione (ossia di messa in relazione del particolare con altri particolari) e di costruzione di assemblaggi. La postcritica non sforna concetti, bensì crea concatenamenti.
Questa contrapposizione tra macro e micro, critica e postcritica, non deve però rischiare di condurci fuori strada: esse non sono due operazioni filosofiche opposte ed inconciliabili, poiché in tal caso verrebbe completamente meno il senso del prefisso “post” che la postcritica, invece, rivendica. Esse sono piuttosto due modi di guardare differenti, due posture che – come sottolinea Mariano Croce – sembrano destinate «all’integrazione[10]». Nessuna di esse, infatti, è esaustiva e completa senza l’altra (da qui l’esigenza del prefisso “post” come legame irrinunciabile) e non ve ne è una migliore dell’altra (come scrivono Deleuze e Guattari, non bisogna commettere l’errore di «credere che basti un po’ di elasticità per essere migliore[11]»). Semplicemente sono due modalità operative distinte e coesistenti: si tratta di volta in volta di capire quale sia la più efficace. Ogniqualvolta sentiremo la necessità di far parlare la vita bassa e di mettere alla prova la potenza istituente del singolare, ecco che quello sarà il momento di volgere il nostro sguardo verso la postcritica per farla divenire strumento privilegiato di navigazione in mare aperto nelle materialissime acque del reale.
Note
[1] A. Arbasino, La vita bassa, Adelphi, Milano 2008.
[2] Sul concetto di quotidiano siamo debitori, in particolare, di D. Cooper, Utopie quotidiane. Il potere concettuale degli spazi sociali inventivi, traduzione di M. Croce, ETS, Pisa 2016.
[3] M. Croce, Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Quodlibet, Macerata 2019, p. 16.
[4] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010, p.55.
[5] Sulla claustrofobia e la saturazione dello spazio critico si rimanda a un prossimo intervento in questa indagine, quello di Valeria Venditi, dal titolo Politica, un problema di spazio.
[6] G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 2004, p. 112.
[7] Ibidem.
[8] EB v France [2008] ECHR 43546/02 (22 January 2008).
[9] O. Guaraldo, “Da Versailles a Torre Maura: il pane e la critica”, Le parole e le cose, www.leparoleelecose.it/?p=38219.
[10] M. Croce, “Presentazione di un delitto”, Le parole e le cose, www.leparoleelecose.it/?p=38219.
[11] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani cit., p. 271.
[Immagine: Todd Selby, Rusty Tools at Renaissance Forge, 2010 (particolare)].
“ Lunedì 18 ottobre 2004 – Dalla Dolce vita alla Vita bassa / Saggio sulla Seconda Repubblica. “.
Mi chiedevo se una pre-critica (molecolare) della postura (verso una pre-postura) non si renda necessaria per una post-postura che sia scevra da ogni im-postura, che è quello che la post-critica propone/postpone, se non ho capito male.
Ciao Mauro, grazie per il tuo commento. Dal mio punto di vista una pre-critica ed una pre-postura, per quanto teoricamente auspicabili, sarebbero concretamente irraggiungibili: qualsiasi teorica o teorico crea e lavora con un apparato concettuale che risente inevitabilmente dell’influenza di chi l’ha preceduto. L’intento della postcritica non è gettare un colpo di spugna sulla critica e pensare ad un nuovo “cominciamento” (come il prefisso “pre” potrebbe forse far pensare), bensì fare i conti con ciò che c’è (questo il senso del prefisso “post”, perlomeno per come lo leggo io). Natascia Tosel