di Daniele Poccia
1. Artefatti intellettuali
Nell’arco di tempo in fin dei conti piuttosto breve di due mesi, l’emergenza generata dalla pandemia di Covid-19 è stata oggetto di un’attenzione cognitiva decisamente straordinaria, da parte di intellettuali di ogni disciplina, un’attenzione che continua, giorno dopo giorno e ora dopo ora, a volerne registrare ogni singola, più o meno microscopica conseguenza. In particolare la filosofia mondiale tutta si è spesa in un incessante commentario incrociato di fatti che permettono, forse mai come prima nella sua storia bimillenaria, una continua schermaglia di approcci teorici maturati peraltro su altre arene, ben più specialistiche. La domanda sorge dunque quasi spontanea: che cosa, nell’evento Covid-19 – ammesso e non concesso che lo si possa effettivamente concettualizzare mediante la categoria dell’evenemenzialità epocale – ne fa un perfetto “attrattore strano” di elaborazioni teoriche? Come accade in fisica dei sistemi dinamici, dove un fenomeno non lineare segue un andamento tanto imprevedibile nel dettaglio quanto organizzato massivamente secondo una certa disposizione geometrica (l’attrattore, appunto), anche in questo caso si è assistito a un’esplosione certo imprevista, nella sua scaturigine e nelle sue evoluzioni particolari, ma per il resto affatto scontata nella sua articolazione di massima: quasi che l’intero spettacolo fosso stato orchestrato da un algoritmo di deep learning in fondo ancora troppo ‘meccanico’ nel produrre i suoi effetti illusionistici. L’impressione è stata insomma di assistere, nonostante la novità dello spettacolo, all’esecuzione di un copione già scritto, in funzione del quale i diversi attori sulla scena si sono limitati a recitare diligentemente il proprio ruolo. L’impressione è stata, per la precisione, quella di un déjà-vu, in cui il presente vissuto si è sdoppiato in se stesso per coesistere in maniera certo sorprendete con il proprio ricordo, ma facendo dell’esperienza in questione, in ultima analisi, una sorta di esperienza al quadrato: un’esperienza della forma in generale dell’esperienza. Facendo insomma del dibattito sul Coronavirus un’esperienza del trascendentale come tale, orientata sulle stesse condizioni di possibilità attuali della riflessione filosofica e, latamente, del dibattito intellettuale come tale.
Proviamo dunque a chiederci il motivo che ha determinato questo ripiegamento della Ragione in se stessa e che, come spesso accade, è innanzitutto l’effetto di un mutamento specifico concernente le condizioni materiali, prima ancora che intellettuali, del suo esercizio. Il trauma in questione, a nostro parere, non è infatti incarnato dalla pandemia in quanto specifico evento globale, ma da qualcosa che l’epidemia ha accelerato, e persino precipitato, senza però averlo autonomamente prodotto. Ci riferiamo alla distruzione tendenziale dello spazio pubblico cittadino, che il lockdown mondiale ha portato a compimento, sia pure, si spera, per un tempo limitato. Ancora più precisamente: pensiamo all’annichilimento di quell’a priori materiale imprescindibile del discorso riflessivo filosofico in cui consiste la città, quale supporto concreto dello spazio pubblico e che, tanto o poco frequentata che sia dai filosofi, è comunque sempre all’orizzonte della loro pratica discorsiva. La città è il trascendentale storico del pensiero filosofico occidentale, che si ritrova così a osservare, una volta che esso si è dileguato, lo stampo in incavo della propria esistenza concreta, proliferando a dismisura.
Questo a priori assegna infatti il lavoro filosofico non soltanto a un rapporto privilegiato con la città, in quanto sede realizzata di una discussione pubblica critica, ma alla dimensione di un artefatto intellettuale indirizzato a sua volta all’interiorizzazione, storicamente situata e determinata, di quegli artefatti trans-individuali che sono i differenti scenari urbani. Nello specifico, è innanzitutto l’ontologia, disciplina volta a rispondere alla domanda circa la natura complessiva e generica della realtà, a riflettere le forme di questa dipendenza della riflessione filosofica dal contesto urbano. In questa prospettiva, fare filosofia, e in particolare costruire un’ontologia, significa condurre un’attività tecnica precisa, la cui efficacia risiede nella traduzione, sul piano concettuale, dell’organizzazione civile delle comunità umane, al fine di renderle psicologicamente abitabili. Le ontologie che ne sono storicamente risultate rappresentano quindi una ‘manipolazione’ del senso comune, grazie al quale il pensiero riconfigura – assumendoli nel suo palinsesto e restituendoli al dibattito pubblico come condizioni della sua stessa (del dibattito) possibilità – i modi del vivere collettivo. L’ontologia filosofica, anzi, è innanzitutto una scienza delle formazioni cittadine, la cui progressiva trasformazione coincide con quella delle sue formazioni speculative. In breve, l’ontologia attiva l’esecuzione di un fondamentale compito pedagogico di urbanizzazione delle forme di vita umane, nel duplice senso della parola: come formazione del cittadino e come costruzione di un’infrastruttura intellettuale che rifletta un’immagine ‘urbanizzata’ del reale, fornendone un suo doppio cognitivo padroneggiabile. L’animale umano, in questo senso, deve infatti non soltanto adattarsi all’ambiente naturale che lo circonda, ma anche a quell’ambiente sui generis che deriva dalle sue stesse pratiche eso-somatiche di adattamento e del quale la città, in quanto forma integrata per eccellenza delle tecniche umane, è l’illustrazione più precisa. Una città esiste solo grazie all’investimento psichico dei suoi cittadini, che ne fanno l’oggetto di una continua esplorazione non soltanto fisica, ma innanzitutto meta-fisica, assumendola a condizione di possibilità, più o meno consaputa, della propria esperienza. Si dirà, certo, che questa necessità vale anche per gli ambienti naturali, per un consesso umano qualunque, o comunque per altri contesti antropizzati (un campo coltivato, per esempio) in cui la tecnicizzazione del circostante è comunque presente. Ma nella città tale esigenza di riconversione del fatto in idea, della percezione in interpretazione, diventa imprescindibile: vivere in una città significa farlo attraverso la continua ridefinizione delle proprie coordinate esperienziali. Donde una certa necessità della filosofia, come principale attuatrice di questa conversione.
2. Città e filosofia della filosofia
Non c’è dunque filosofia che non si strutturi come un commento debordante a una qualche città – alle forme di vita che la abitano, alle forme cangianti dei suoi edifici e delle sue strade: al complesso di fenomeni sociali, politici, economici che in essa hanno luogo. Quali che siano le tesi specifiche formulate da una filosofia, per quanto speculative e astratte possano essere, il loro unico, autentico correlato è sempre una città. Non sarebbe difficile, per quanto estremamente laborioso, mostrarlo nel dettaglio delle diverse prospettive filosofiche che hanno preso piede in ogni epoca. Limitiamoci dunque a registrare un fatto tanto generale quanto a nostro parere evidente: l’aspirazione sistematica e totalizzante del pensiero filosofico è già di per sé il portato di una traduzione, sul piano del sapere, delle strutture e delle dinamiche urbane, di cui i differenti palinsesti concettuali del filosofo riflettono l’articolazione ogni volta storicamente determinata. In effetti, non ci sono che le città, in forza della loro natura di spazio includente e immersivo, a testimoniare in favore di un’unità e di una totalizzazione che, per il resto, non ha cittadinanza da nessuna altra parte nell’ambito della nostra polifonica e frammentaria esperienza. La filosofia è la riproposizione e la reduplicazione di questa unificazione, sull’immagine della quale avviene la sua avventura.
Nel Novecento, tuttavia, l’avvento della metropoli e delle masse, con i loro confini inassegnabili e le loro modalità di crescita fuori controllo, ha sancito una sorta di soglia limite, oltre la quale il discorso filosofico si è trovato costretto a problematizzare la relazione privilegiata che intrattiene con il contesto cittadino, assumendo in particolare l’impossibilità della organizzazione sistematica a forma logica elettiva della propria discorsività. Le “filosofie della metropoli”, nel senso proprio e nel senso lato che qui intendiamo, hanno riconosciuto quasi immancabilmente uno stesso fatto: la disseminazione della realtà come proprio referente ontologico esclusivo. In questo contesto, la filosofia si è riscoperta allora per quello che è sempre stata: una forma di mediazione tra potere e senso comune, la cui ‘consulenza’ non è più, tuttavia, apertamente richiesta. Il potere, in qualsiasi sua forma (politica, scientifica, persino artistica), si legittima ormai da tempo, grazie a specifici apparati tecnologici, attraverso un contatto diretto con le masse. La filosofia è stata allora costretta a interrogare innanzitutto la propria natura, per venire a capo di questa estromissione, e a fare così del linguaggio, ovvero del suo medium inaggirabile, il proprio argomento prediletto. La forma metropolitana che, nel corso del XX secolo, giunge a compimento, rappresenta, in tal senso, una metafora e un monogramma di questa condizione, cui la filosofia rivolge le proprie attenzioni, rivolgendosi così a se stessa. Nel caso della metropoli, si raggiunge il punto limite in cui il prodotto dell’azione umana diventa il produttore, a sua volta, delle condotte umane, determinandone lo svolgimento sin nei suoi aspetti più intimi e minuti. La metropoli si propone per definizione come uno spazio ripiegato in se stesso, nel quale l’esperienza del luogo coincide al limite con la sua stessa presenza e le condizioni della sua praticabilità si identificano virtualmente con la capacità che esso possiede di mutare incessantemente forme e aspetto, funzioni e strutture. In cui, in altre parole, res gestae e historia rerum gestarum finiscono per con-fondersi. Una parte significativa della filosofia novecentesca si è metamorfizzata quindi in inchiesta meta-filosofica, con una sistematicità e una acribia mai avute in precedenza. Così facendo, è riuscita sì, in parte, a recuperare la propria efficacia di attore pubblico, restituendo al dibattito politico un’immagine funzionale alla sua articolazione di massa, e cioè, alla progressiva separazione, che fa corpo unico con la tecnica moderna, da un orizzonte di senso superiore e compartecipato. Ma ha così parallelamente rinunciato alla sua vocazione primitiva di «esperienza integrale» (Henri Bergson). Una comunità scollata da un fondamento trascendente, in grado di legittimarne la sussistenza e la capacità di affermazione nei confronti delle altre comunità, può infatti ritrovarsi solo in una teoria della filosofia come pratica senza una legalità preordinata e sovraordinata al suo esercizio, costretta ad abbandonare il suo ruolo arcontico di attività ‘urbanizzatrice’. In una filosofia, insomma, che non è una filosofia e che si produce, a sua volta, in una disseminazione di teorie senza un orizzonte comune di discussione, se non puramente procedurale.
A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, un tendenziale disallineamento tra forme del pensiero condivise e strategie d’azione collettive comincia allora ad affermarsi come conseguenza ulteriore di questa condizione e quindi come il nuovo panorama della comunicazione umana. In una parola, della comunità umana sempre più unificata dai processi inarrestabili della globalizzazione. L’avvento delle cosiddette «società del controllo» (Gilles Deleuze) e di un «capitalismo della sorveglianza» (Shoshana Zuboff) nel quale gli esseri umano si tramutano a loro volta in componenti di uno scambio simbolico potenzialmente illimitato, e quindi di un’estrazione di valore economico ormai ubiqua, sembra liquidare una volta per tutte la capacità filosofica di riorganizzare discorsivamente la polis, per renderla pubblicamente frequentabile. Nei giorni di quarantena, poi, abbiamo scontato più che mai una scissione crescente tra le nostre parole e le nostre azioni, anche quando a parlare (e ad agire) sono state le istituzioni. Lo stile prevalente della comunicazione contemporanea (del rischio, ma non solo), sparpagliata come è in un mare di commenti ad altri commenti e di esternazioni impulsive che si inseguono senza incontrarsi mai veramente, ci consegna a una incapacità crescente di regolare le nostre condotte sulla base di principi condivisi, quali che essi siano. Soprattutto in situazioni, come in questa emergenza da contagio, in cui sarebbe necessario coordinarsi senza esitazione, per fronteggiare la minaccia che ci attanaglia, la nostra crescente inettitudine a organizzarci diventa perniciosa. La catena che lega il pensiero all’azione (e viceversa) si è come rotta una volta per tutte, per eccesso ipertrofico di passaggi intermedi. La percezione del rapporto – non diciamo della coerenza – che dovrebbe legare il primo alla seconda è diventata irreperibile. A prescindere, quindi, da tutto quello che si viene dicendo in questi concitati momenti, e indipendentemente dal giudizio sulle misure drastiche di contenimento della pandemia, resta che abbiamo assistito a un fatto per molti versi clamoroso: la chiusura di ogni spazio davvero pubblico – chiusura di cui il frastuono comunicativo preesistente e la crisi del legame tra dichiarazione e iniziativa, tra detto e fatto, erano l’annuncio insistito. Quello spazio garantiva infatti, anche nella sua forma residuale di spazio cittadino di masse in decomposizione, l’articolazione tra quel che diciamo/pensiamo e quel che facciamo. Senza di esso siamo come bimbi sperduti, relegati in un’infanzia forzata (e infans, letteralmente, significa “non parlante”) nella quale ogni parola è inutile, o perché inascoltata, o, se ascoltata, perché subito esposta al pubblico ludibrio.
Lo stile comunicativo imposto dai media più recenti mescola infatti diabolicamente effetti di scrittura e di oralità. Da un lato, ci dà l’impressione di essere in presa diretta sul proprio altro. Dall’altro, impone una comunicazione tra ‘morti’, come quella che nella nostra civiltà chirografica e tipografica ha caratterizzato il dialogo millenario che prende il nome di “conoscenza” e che si sviluppa solo grazie alla «continuità del pensiero oltre la mente» (Walter Ong) che la scrittura e la stampa assicurano. Il risultato è un pervasivo senso di (in)sicurezza, per il quale ci si sente autorizzati a dire qualsiasi cosa o, altrimenti, ci si auto-censura, per paura di essere stigmatizzati pubblicamente. Si parla a qualcuno, mentre si vuole attrarre l’attenzione di tutti i propri contatti: o viceversa, si parla a tutti, per colpire uno solo. Non c’è più uno spazio per tutti (per le comunità), né più uno spazio per qualcuno in particolare (per gli individui). La sensazione condivisa di appartenere a un’impresa trans-generazionale di conoscenza e di emancipazione, di cui il Novecento ha incarnato l’apice e del quale la filosofia era la tutrice, sembra ormai un lontano ricordo.
Per quanto da tempo annunciata, e per certi versi persino abbondantemente rappresentata nella comunicazione spettacolare contemporanea (si pensi a certo cinema di fantascienza degli ultimi decenni, nel quale i protagonisti sono ritratti come vittime di un insuperabile impedimento a governare le proprie condotte), fatichiamo però a prenderne atto per davvero. La schisi tra parole e azioni, tra teoria e prassi che, a partire dal penultimo decennio dello scorso secolo, si è progressivamente imposta come l’episteme o l’ordine simbolico non valicabile del nostro essere al mondo di uomini post-moderni, è infatti una condizione che cela innanzitutto se stessa, impedendone la consapevolizzazione. Non siamo più quello che credevamo di essere, ovvero animali ‘proairetici’ in grado di organizzare la propria azione sul fondamento di una conoscenza che allestisca preventivamente un territorio adeguato di progettabilità e controllabilità del divenire delle cose. Ci aggiriamo muti, nel disastro che ci attornia, o proponiamo a più non posso terapie discorsive che non hanno rapporto con il reale stato di fatto del mondo. L’azione è disdetta dalla parola almeno quanto la parola rinviata nei suoi auspicabili effetti dai nostri gesti scomposti, che ne invalidano ogni volta la portata descrittiva e comunicativa. L’imprevedibile, performato e preformato da queste circostanze, la fa da padrone un po’ ovunque, per quanto i sistemi di predizione dell’attuale enciclopedia digitalizzata dei nostri saperi (si veda alla voce Big Data e algoritmi predittivi) ci proponga tutt’altro scenario, improntato a una promessa di anticipabilità generalizzata. Il paradosso è che tanto più ci aggiriamo in un mondo straniato e reso indisponibile al nostro controllo, tanto più i nostri comportamenti si uniformano all’insegna delle reazioni più basilari dell’appartenenza di specie (paura, fuga, ricerca della sicurezza, isolamento, ecc.). Tanto più il mondo si scompagina tanto più noi ci facciamo prevedibili. Il sistema del riconoscimento storico-sociale degli eventi, e quello psichico individuale annesso, si è come inceppato una volta per tutte, consegnandoci a un’afasia che fa rima, in maniera alternata, con un’altrettanto persistente aprassia. La crisi del Coronavirus, con la sua messa in questione pressoché totale dello spazio cittadino, lo dimostra a ogni piè sospinto.
3. Estinzione per inflazione
Al netto allora di tutte le baruffe, le contrapposizioni frontali, le confusioni categoriali, e quant’altro di poco utile ha caratterizzato il dibattito attuale, soprattutto sui social network e soprattutto il dibattito filosofico, constatiamo in effetti un dato elementare: la gran parte dei testi che circolano, in questa circostanza, sono testi monouso o, se si vuole, testi usa-e-getta. E questo a prescindere da quello che concretamente affermano e argomentano e da come lo fanno. Lo sono non soltanto perché lo scenario cambia incessantemente e mal si presta ai tempi lunghi della riflessione ben ponderata, istigando così solo abbozzi di riflessione. Ma perché non c’è modo – non c’è il tempo né l’occasione adeguata – per dedicargli una considerazione più attenta, che abbia bisogno, magari, di diverse (ri)letture. I testi si avvicendano l’uno dopo l’altro, a ritmo forsennato, mettendo il lettore interessato in una condizione di sistematica distrazione.
Dopo la filosofia occasionale, nasce la filosofia a obsolescenza programmata. Anche la filosofia entra alla fine, una volta per tutte, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica? E se sì, quali sono le conseguenze di questo integrale riassorbimento del pensiero nell’ambito del giornalismo più mordi e fuggi? È un fatto relazionale quello al quale ci troviamo posti di fronte: il valore di un pensiero è perlomeno co-determinato, a non voler esagerare, dall’interazione che esso intrattiene con gli altri pensieri, più che dalla portata intrinseca delle proposte interpretative sulle quali si fonda. Il singolo, per quanto sempre più propenso a presentarsi al cospetto del mondo intero nella solitudine del suo intelletto individuale, è sempre più influenzato, nel compiere il suo lavoro e nella ricezione che lo attende, dal continuo vociare dei suoi colleghi e dei suoi lettori, anch’essi pronti a scrivere e a dire la loro, dopotutto.
È questa una deriva, naturalmente, già in parte annunciata dalla diffusione epidemica sulla rete dei testi filosofici, e non solo filosofici, negli ultimi due decenni. Una diffusione che mette lo studioso, soprattutto se apprendista, nella condizione di non potersi mai sentire padrone, sia pure per il tempo limitato della scrittura, di un certo campo di ricerca. Il novero dei riferimenti da perlustrare è sterminato ed è diventato virtualmente impossibile circoscrivere un tema originale, nel dibattito filosofico internazionale globalizzato. Esiste ormai un libro su quasi ogni argomento, a meno di non cercarne uno che, per il suo specialismo sfrenato, risponda all’interesse di un numero di persone talmente limitato da coincidere con la cerchia degli amici, più o meno stretti, dell’autore.
In questo modo, la filosofia rischia di estinguersi per inflazione di discorsi filosofici – non foss’altro perché, alla lunga, è l’approccio idiosincrasico a prevalere. Ogni ricercatore, per un motivo o per un altro, trasforma un’inclinazione personale in oggetto di studio e, quando le ambizioni sono maggiori, ne fa il principio d’ordinamento di una visione teorica. A prescindere dalla valutazione sulla riuscita o meno di questa trasmutazione del privato in concetto – che forse ha sempre qualificato l’autobiografismo celato della pratica filosofica – resta che, in un quadro mondializzato come l’attuale, il pensiero diventa un esercizio essenzialmente fàtico, un modo per dire: “eccomi, ci sono anche io”. Stabilito il contatto, effettuati i dovuti saluti e reciproci riconoscimenti, sembra che tutto possa finire. Lo stesso succede in questo specifico frangente, nel quale ognuno (ivi compreso chi scrive) cerca il posto non ancora occupato sul quale piantare la propria bandierina. Alla volontà di comporre una sintesi delle esperienze della propria epoca, volontà che qualifica la cifra del gesto filosofico, si sostituisce senza rimedio la messa in forma epocale della propria esperienza personale. Che ne è della critica, alla quale, diceva Immanuel Kant, nulla deve poter sfuggire? Cosa resta della sua capacità di imporsi nei secoli dei secoli?
4. Una libertà imprevista
Da più parti comincia allora a emergere la consapevolezza che la crisi determinata dal Coronavirus sia una crisi tecno-logica, tecnica e di pensiero, nella maggior parte, se non in tutti, i suoi aspetti principali. Anche là dove si insiste sulla «doppia articolazione tra determinazioni naturali e determinazioni sociali» (Alain Badiou) che caratterizza il fenomeno pandemico, la questione rimane infatti sempre la medesima. Cosa garantisce questa articolazione duplice se non una rete di sistemi tecnologicamente istruiti, attraverso i quali ciò che chiamiamo “natura” e ciò che chiamiamo “società” possono effettivamente entrare in comunicazione tra di loro, essendone compenetrati? Cosa, se non una città, artefatto materiale e intellettuale esistente in qualche sua forma almeno embrionale, permette di identificare i modi specifici mediante cui l’articolazione in questione si dispiega? Quel che contraddistingue il dibattito in corso – il quale può essere scambiato per una serie di scaramucce senza altro reale referente a parte il narcisismo dei suoi partecipanti solo in forza del provincialismo miope che affligge l’intellighenzia italica – è infatti una certa, strisciante consapevolezza circa l’impossibilità crescente, nelle società attuali, di governare il divenire, quale che sia la sua forma: naturale, sociale o appunto soprattutto tecnica (che le prime due forme ‘contiene’). Il punto capitale, allora, è che la tecnica incarna da sempre una dinamica di imprevedibile auto-posizione, rispetto alla quale l’umano è, in ogni epoca, un poco dislocato, ma la cui evidenza si è imposta solo gradualmente, man mano che la modernizzazione si è presentata sempre più chiaramente come un processo di progressiva (ri)tecnicizzazione, e insomma di artificalizzazione rinnovata delle stesse dinamiche della nostra forma di vita. La tecnica, insomma, è naturalmente foriera di una crisi ripetuta – dalla critica platonica della scrittura in poi, almeno. Le tecniche, quali che esse siano – dalla scrittura alfabetica al machine learning, passando per la macchina a vapore e la bomba atomica – hanno infatti la singolare prerogativa di precedere costitutivamente qualsiasi provvedimento che si possa scientemente prendere a loro conto. La tecnologia è l’occasione in cui viene costantemente verificato il ritardo delle nostre soluzioni, tese comunque alla ri-progettazione del suo funzionamento. Un funzionamento che procede in larga parte senza la nostra supervisione, e non da qualche tempo, con lo sviluppo delle intelligenze artificiali, ma da quando la prima «catena operativa» (André Leroi-Gourhan) elementare di gesti eso-somatici è stata trasmessa da una generazione all’altra. Da quando insomma l’umanità è diventata quella che è anche attualmente.
Questa situazione di prolessi tecnica rispetto alla nostra capacità di previsione e quindi di intervento, prolessi della quale l’umanità è l’operatore non sempre consapevole, è in continuità con quanto, in natura, prende l’aspetto della novità assoluta, dell’irruzione, a volte catastrofica, del novum. Tutto quello che, volta per volta, si presenta all’insegna del trauma, nel mondo naturale – terremoti, carestie, epidemie, ecc. – ha la singolare proprietà di ricordarci come la nostra natura sperimenti, in forza della sua capacità di formulare ipotesi concernenti l’avvenire, questa postura, non sempre gradevole, di sorpasso da parte degli elementi del suo stesso mondo-ambiente, anche di quelli che, in un modo o nell’altro, sembrano derivare dall’operato delle nostre mani e dalle escogitazioni della nostra mente. C’è insomma una continuità profonda tra il modo in cui siamo inseriti nella natura e il mondo in cui lo siamo nell’insieme delle nostre abilità tecniche; la tecnica umana non è che una figura di una tecnicità che inizia da prima dall’uomo e, sovrapponendosi con l’insieme delle soluzioni del mondo biologico, si situa già da sempre un passo avanti a noi. Ne va in ogni caso, in breve, della nostra incapacità – per lo più foriera, a sua volta, di una certa innovatività – di antivedere integralmente il corso degli eventi. È perché siamo animali schiantati dalla propria stessa capacità di agire che sperimentiamo vieppiù lo stupore di quello che la natura ci impone a volte di tollerare e che tentiamo, innovando ancora, di controllare. È perché scontiamo sempre uno scarto tra il nostro pensiero e il reale, scarto esistente in funzione delle previsioni che pure formuliamo, che il reale stesso ci si presenta in guisa di ripetuta sorpresa e, conseguentemente, come una scommessa da raccogliere. L’umano è il veicolo, dunque, di una volontà di articolare tecnicamente le stesse tecniche, naturali o meno che siano, che derivino o meno dalla sua azione, e rispetto alle quali è però sempre in una condizione di fruttuoso indugio e differimento. L’unica occasione in cui il pensiero umano trova di che riflettersi compiutamente nei prodotti della propria azione è rappresentata appunto dalla città, complesso artificiale nel quale le diverse tecniche configurano una composizione istantanea, per quanto soggetta anch’essa a continui mutamenti. La città è il luogo in cui i dispositivi giungono a coagularsi in una figura unitaria perché avvolgente. È lo snodo convergente delle nostre pratiche di trasformazione del reale. Il che ci porta forse a concludere rapidamente che una crisi tecnologica può essere affrontata soltanto sul piano che le compete: quello, ancora tecno-logico, di una riforma della nostra comprensione della tecnicità e, quindi, della nostra capacità di intervento su noi stessi e sul mondo che ci circonda. E quindi, in ultima istanza, della creazione di una nuova città. È questa la circostanza straordinaria che si è imposta al dibattitto, in primis, non a caso, filosofico. La filosofia si è riscoperta come attività di città-formazione, in questa crisi che ci ha colpiti. Il che non è cosa da poco.
D’altronde, ce ne stiamo forse accorgendo. Tra gli effetti collaterali della gestione istituzionale dell’emergenza ce ne è uno che ha un carattere veramente paradossale. Questa volta siamo stati noi cittadini a permettere alla crisi di cominciare a rientrare, accettando nella maggior parte dei casi con una certa disciplina le regole del lockdown. Senza che nessuno, o quasi, se ne accorgesse, e senza che nessuno, soprattutto, lo avesse preventivato, siamo stati investiti di un potere sulle nostre vite che avevamo quasi dimenticato di avere. Possiamo cambiare le cose, è un fatto, e possiamo farlo anche a partire dal recupero di una posizione di protagonismo dal basso che, negli ultimi decenni, sembrava ormai soltanto un ricordo sbiadito. Di fronte a una situazione che pare condurre definitivamente a una massa senza metropoli, o una metropoli disertata da ogni massa, come è quella provocata dalla tecnica contemporanea, si profila nondimeno una terza possibilità, l’unica che sembra foriera di una qualche speranza: quella di una massa che è essa stessa città e di una città che è di per sé massa e che, a prescindere da luogo in cui prende forma, è comunque portatrice di una capacità enorme di cambiamento delle cose. Una metropoli globale, in questo senso, esiste nel cuore di ognuno di noi, non altrove, così come in tutti i posti concreti in cui è possibile ritrovare anche solo un principio d’iniziativa e d’azione autonoma praticabile. E la filosofia a questo è ben preparata. Tra le sue prestazioni principali c’è sempre stata l’educazione a una rigorosa libertà dell’individuo che la pratica. La filosofia è sempre stata, prima di ogni altra cosa, una «tecnologia del sé» (Michel Foucault) che, in corrispondenza con un certo assetto cittadino, produceva il suo abitante ottimale e, cioè, libero, anche quando nella città reale imperversava una qualche odiosa limitazione della libertà. Anche la filosofia ha la natura, più di ogni altra realtà, dell’artefatto intellettuale, per il quale la presenza del reale deve poter arrivare ad occupare la condizione, al limite, di una totale trasparenza cognitiva e quindi di una completa padronanza; una padronanza, in realtà, sempre e solo incoativa, certo, ma non per questo del tutto inefficace, nella misura in cui ha come primo obiettivo la costruzione di un ‘animale urbano’, in grado di destreggiarsi sempre meglio con il mondo tecnico e naturale che lo circonda. La città è quanto di più vicino vi sia alla coincidenza di idea e cosa, e dunque di storia e idea, che la filosofia erige, più o meno dichiaratamente, a propria utopia intellettuale. La città è una filosofia realizzata, nella forma di un mondo rilevato dal concetto e portato fino alla sua totale identificazione con il concetto. La città è la ‘tecnica delle tecniche’, al pari di quella tecnica della vita (techne tou biou, scriveva Platone) che la filosofia si propone di incarnare, raccogliendo nel proprio procedimento, per il tramite dell’individuo che vi riflette su, la funzione di tutte le altre tecniche particolari e determinate.
Questa libertà imprevista prende allora anzitutto la forma di un auto-governo individuale, quale è, in fondo, quello che abbiamo dimostrato di saper esercitare – malgrado, e non grazie al volto spesso autoritario e paternalistico dei provvedimenti istituzionali e non che sino a qui ci hanno comunque condotto. Tra le conseguenze inattese della tecnica contemporanea, e della sparizione della città a essa connessa, una libertà ci è però stata donata, una libertà che ci impone di ricostruire le nostre città, dentro e fuori di noi. Nonostante lo stato di sconnessione in cui negli ultimi decenni versano parole e cose, nel loro reciproco (non)-rapporto, qualcosa di segno opposto si è improvvisamente affermato. Grazie alla convergenza di una duplice epifania, relativa all’essere superati dagli effetti delle nostre azioni e al non poter fare a meno di tentare di organizzarli, anche discorsivamente, ci siamo scoperti in dovere di essere liberi, e, quindi, auto-nomi, capaci di darci da noi stessi la regola. Cerchiamo di fare buon uso di questo insight inaspettato, rivolgendolo a sua volta, per esempio, contro la deriva anti-urbana, in tutti i sensi, del mondo contemporaneo.
[Immagine: © Foto di Jeffrey Millstein].
Più che di (non) rapporto reciproco parlerei, sulla base di una concordia discordante con l’autore, di rapporto ( non) reciproco (penso al saggio di Benjamin su Kafka) con lo spazio abitabile, inteso come rovescio dello spazio altrimenti de-finito che come dispositivo della nuda immanenza. Che altro è la nostra polis deflagrante in metropoli se non la trascrizione topica/antropica della permanente migrazione del pensiero dalla sua misura misurante ( l’agrimensore K.) verso l’aperto, la radura, l’oasi, il pensare/depensare del nomadismo e dell’esodo, di cui la reclusione di questi mesi ha tracciato, per l’appunto, il sentiero à la fois interrotto e l’immagine “züruckwendig” retroversa?