di Paolo Costa
[Hans Joas (Monaco 1948) è uno dei sociologi più originali del nostro tempo. Dalla sua inedita fusione di fiducia pragmatista nella creatività umana e sensibilità storica ha preso forma una teoria della società sospesa tra fedeltà all’universalismo morale e rispetto per la contingenza dell’azione individuale e collettiva. Joas è attualmente Ernst Troeltsch Professor di Sociologia della Religione all’Università Humboldt di Berlino e Visiting Professor di Sociologia all’Università di Chicago. Dal 2002 al 2011 ha diretto il Max-Weber-Kolleg für kultur- und sozialwissenschaftliche Studien. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo:Praktische Intersubjektivität. Die Entwicklung des Werkes von George Herbert Mead (Suhrkamp, 1980);Die Kreativität des Handelns (Suhrkamp, 1992); Die Entstehung der Werte (Suhrkamp, 1997);Abbiamo bisogno della religione? (Rubettino, 2004/2010); La fede come opzione (Queriniana, 2012/2013); La sacralità della persona (Franco Angeli, 2011/2014); Die Macht des Heiligen (Suhrkamp, 2017).
L’intervista che pubblichiamo qui in versione ridotta è stata realizzata (in inglese) il 17 giugno 2019 a Berlino. La versione integrale apparirà sugli «Annali di studi religiosi», 21, 2020 (pc)].
Vorrei cominciare questa intervista con una riflessione su un tratto che mi sembra tipico della tua figura intellettuale. Da un lato do per scontato che tu ti consideri professionalmente un sociologo. Dall’altro lato, però, i temi di cui ti occupi intersecano ambiti disciplinari molto diversi e i tuoi scritti sono letti con interesse anche da filosofi, teologi, antropologi, studiosi di letteratura, ecc. Come vivi e come interpreti questo ruolo intellettuale a cavallo tra diverse comunità di ricerca?
La questione è molto ampia. Se me lo consenti, preferirei scomporla in due diverse «sottoquestioni»: quella dell’interdisciplinarità, da un lato, e quella della provenienza non solo accademica dei miei lettori, dall’altro.
Per quanto riguarda il primo punto, sono effettivamente convinto che si possa fare, per così dire, della «buona» sociologia solo se la propria ricerca si basa in larga misura sulla conoscenza storica ed è sufficientemente riflessiva da poter competere con la filosofia sul suo stesso terreno. Questo, per altro, è esattamente ciò che hanno fatto i capostipiti della sociologia moderna. Weber, in particolare, deriva chiaramente le sue generalizzazioni sociologiche dalla storia dell’umanità nel suo complesso. Col passare del tempo, però, è vero, c’è stata una tendenza a ridurre la sociologia a un’indagine del presente e ad accantonare lo studio della storia universale o mondiale.
Ora, l’affermazione precedente va qualificata, nel senso che nessuno può seriamente ambire a conoscere o supervisionare tutta la storia della specie umana. Programmaticamente, tuttavia, ha senso attenersi a questa idea regolativa che ha proprio la funzione di contrastare il presentismo del sapere orientato empiricamente. Su questo punto la mia sintonia con Weber non potrebbe essere maggiore. Penso inoltre che il confine che separa la sociologia dalla filosofia sia, per così dire, «poroso», aperto. Voglio dire, insomma, che le categorie fondamentali dell’investigazione sociologica – un esempio su tutti: il concetto di «azione» – richiedono anche una riflessione filosofica.
Non mi spingerei però sino al punto di dire che io, da solo e lancia in resta, stia combattendo una battaglia titanica contro la corrente della storia. La verità è che negli ultimi trent’anni sono stato così fortunato da poter svolgere il mio lavoro in istituzioni basate proprio sull’interdisciplinarità. Ho lavorato infatti per dodici anni al John F. Kennedy Institute for North American Studies, presso la Freie Universität a Berlino, un istituto che ha fatto dell’interdisciplinarità la sua bandiera. Sono stato Direttore del Max Weber Kolleg di Erfurt, altro istituto interdisciplinare. Ho lavorato al FRIAS (Freiburg Institute for Advanced Studies), gomito a gomito con un gruppo di storici. Anche se per «storia», è bene precisarlo, si intendeva qui in senso lato quel gruppo di discipline che condividono un orientamento o una sensibilità storica, e non la «storia» in senso stretto. Last but not least, non posso non menzionare il Committee on Social Thought di Chicago, che è la realtà accademica più interdisciplinare che uno possa immaginare.
Esistono dunque istituzioni dedite programmaticamente alla coltivazione di un habitus intellettuale interdisciplinare. Istituzioni del genere hanno bisogno di persone che, pur in possesso di una solida base teorica, hanno curiosità e interessi non ristretti al loro ambito di specializzazione.
La seconda questione concerne invece la composizione del mio pubblico. Qui non posso che darti ragione: il mio pubblico è molto misto, e personalmente ne sono felice. Anche un libro relativamente complesso come Die Macht des Heiligen è stato letto da persone con competenze e provenienze molto diverse.[1] Per altro, io ho deliberatamente progettato e scritto anche libri più brevi destinati proprio a questa fetta di pubblico colto, ma non specialista. Non tutti i miei libri, dunque, sono rivolti a un pubblico di accademici. Un libro in particolare, Fede come opzione, è stato scritto proprio con l’intenzione di rispondere a domande che mi erano state rivolte da profani con una genuina esigenza di comprensione.[2] La coerenza o sistematicità in questo caso sta a valle e non a monte della scrittura. È una conseguenza cioè del fatto che ho preso sul serio le richieste di chiarimento che circolano nella società o, quantomeno, negli ambienti che mi capita di frequentare grazie al mio lavoro.
Quindi, se posso estrarre una tesi generale da quello che hai appena detto, tu non consideri filosofia e sociologia come due discipline in competizione. Preferisci, anzi, porre l’accento su ciò che le accomuna e le possibilità di collaborazione tra le due. Mi domandavo, però, se non ritieni che esista comunque una differenza di principio e che essa abbia a che fare con l’atteggiamento verso il dato empirico, che sembra imprescindibile per le indagini sociologiche. È così anche per te? D’altra parte, correggimi se sbaglio, all’inizio della tua carriera ti sei dedicato allo studio delle dinamiche del mercato delle professioni lavorando come sociologo quantitativo presso il Max Plack Institut di Berlino.
È vero che ho cominciato la mia carriera di sociologo così, ma la mia non era esattamente una scelta vocazionale. Tutt’altro. Diciamo che all’inizio mi sono guadagnato da vivere contribuendo alla realizzazione di ricerche empiriche basate su metodi quantitativi e con agende di problemi predefinite, anche se i miei interessi teorici mi avrebbero spinto altrove. Ma, dettagli biografici a parte, io distinguerei tra un’accezione ristretta di conoscenza «empirica», che presuppone l’uso fortemente standardizzato di metodi di raccolta ed elaborazione dei dati, e un’idea più ampia di «empiria» o esperienza. Quest’ultima include qualsiasi affermazione basata sulla conoscenza di fatti. Tale conoscenza, tuttavia, non deve necessariamente dipendere da un’indagine empirica condotta personalmente, insomma da una conoscenza di prima mano. Può anche trattarsi di un sapere acquisito tramite lo studio di ricerche empiricamente informate. Voglio dire, questa è l’esperienza comune di chi svolge indagini storiche. Certo, uno può sempre realizzare autonomamente una piccola approfondita ricerca d’archivio. Allo stesso tempo, però, deve fare affidamento su molte altre indagini sulle cui fonti non può avere un controllo diretto.
Detto ciò, sono personalmente disposto a sostenere, senza tema di smentita, che i miei lavori poggiano in larga misura su una conoscenza empirica di fatti del mondo e li descriverei come tentativi di provare tesi che hanno un riscontro nell’esperienza.
Per quanto riguarda il rapporto tra filosofia e sociologia, di nuovo, credo che per poter dire qualcosa di sensato sul tema sia meglio evitare di parlare di «filosofia» in generale. Esistono infatti stili filosofici molto diversi e ciascuno di essi si relaziona al sapere sociologico in maniera differenziata. Personalmente penso – e lo ho anche sostenuto pubblicamente in varie occasioni – che qualcosa di molto importante sia accaduto nella seconda metà del XIX secolo tanto nella filosofia tedesca, sotto l’etichetta di storicismo o ermeneutica, quanto nella filosofia americana, sotto l’etichetta di pragmatismo. A cosa mi riferisco? Non solo alla comparsa di autori e scuole di pensiero originali, ma al fatto che tali autori comprendevano in maniera nuova la relazione tra la filosofia e le singole discipline scientifiche. In particolare, è stata cruciale la rinuncia all’idea che la filosofia fosse la regina delle scienze e che il suo compito consistesse nel raccogliere, portare a sintesi e sistematizzare tutto lo scibile prodotto nei vari ambiti del sapere umano. L’alternativa emersa allora si potrebbe riassumere con uno slogan: «riflessività!». Nella nuova ottica, cioè, per farla breve, la filosofia aveva anzitutto il compito di produrre un’autoriflessione metodologica utile per le varie discipline. Le indagini filosofiche non si riducono a questo, è chiaro, ma il loro principale contributo alla crescita della conoscenza veniva fatto coincidere proprio con l’aumento di riflessività nella produzione di sapere empirico.
Questa descrizione dei compiti della filosofia si applica altrettanto bene, credo, sia a Dilthey che a Peirce. Con ciò, lo ribadisco, non voglio dire che la filosofia si riduca a epistemologia o a filosofia della scienza, perché l’esercizio di autoriflessione funziona altrettanto bene quando viene rivolto al senso comune o alla conoscenza ordinaria del mondo.
Riguardo alla filosofia contemporanea è importante non dimenticare mai quanto siano diversi gli stili di pensiero che ricadono sotto l’etichetta di «filosofia» senza aggettivi. I filosofi, d’altronde, lo sanno bene e, non a caso, passano gran parte del loro tempo a difendere l’idea che quella che fanno i propri avversari teorici non sia «vera» filosofia. Ci sono, ad esempio, filosofi che non hanno affatto abdicato a quel ruolo «maestoso» e superambizioso, sia esso di matrice kantiana o hegeliana, da cui filosofi come Dilthey e Peirce volevano prendere congedo. Detto altrimenti, le pretese fondazionaliste non sono sparite con la crisi dell’immagine della filosofia come regina delle scienze. Abbiamo poi i filosofi analitici che descriverei come filosofi che imitano le scienze naturali e, rinunciando sia all’obiettivo di produrre una sintesi teorica globale sia a quello di esercitare una forma di autoriflessione a partire dalle singole discipline, vorrebbero trasformare la filosofia in una scienza come tutte le altre, anche se il più delle volte non vanno oltre un mero scimmiottamento delle virtù delle scienze naturali. Ci sono, infine, i postmodernisti che rivendicano esplicitamente un ridimensionamento dell’aspirazione tradizionale alla verità e finiscono così per produrre un indebolimento dei criteri stessi della giustificazione.
La filosofia contemporanea ha dunque molte facce ed è questo il principale motivo per cui non mi è possibile condensare in una sola frase la mia visione del rapporto tra essa e le indagini sociologiche. Prima di farlo avrei bisogno di sapere di quale filosofia stiamo parlando. E, comunque, non potrei fare molto di più che spiegare in che modo quella specifica filosofia ha contribuito ad arricchire la mia riflessione negli anni.
La tua relazione con il pragmatismo americano è nota e ne hai parlato spesso nei tuoi scritti autobiografici. Volevo comunque chiederti come la interpreti oggi, con il senno di poi e in un momento storico in cui il pragmatismo è tornato di moda e assistiamo a una rinascita di interesse anche per autori a lungo trascurati come John Dewey. Ti senti un po’ un pioniere di questa riscoperta dell’attualità del pragmatismo americano?
Il pragmatismo è stato fondamentale nella mia formazione intellettuale, questo è fuor di dubbio. Lo è stato fin dagli anni dell’università e per tutti gli anni Settanta. La mia fase pragmatista è durata, direi, fino alle indagini sull’origine dei valori che sono confluite in Die Entstehung der Werte, un libro che ho finito di scrivere nel 1997.[3] Dopo di allora, le cose sono un po’ cambiate. In effetti, con la mia indagine sulla genesi dei valori mi ero consciamente proposto di concludere il lungo periodo della mia vita in cui il pragmatismo era stato al centro delle mie ricerche, sia direttamente come oggetto di indagine, sia indirettamente come strumento per la soluzione di alcuni importanti snodi teorici in ambito sociologico. Di fatto, poi, a prescindere dalle mie intenzioni, quel libro ha segnato anche l’inizio di una nuova fase del mio itinerario intellettuale che prosegue ancora oggi. Questo, invece, non lo avevo messo in conto. D’altra parte, è così che accadono le svolte nella vita delle persone. Non sono cose che si possono progettare a tavolino.
Lo scopo principale che mi prefiggevo con Die Entstehung der Werte era chiarire un equivoco generato dal libro sulla creatività dell’azione.[4] Molti interpreti, sbagliando, avevano capito infatti che io volessi difendere la creatività come un valore in sé, travisando così la portata normativa della mia teoria. I volumi dedicati a George Herbert Mead e al nesso tra pragmatismo e teoria sociale erano effettivamente libri sul pragmatismo.[5] Die Kreativität des Handelns, invece, era un tentativo di trarre una lezione filosofica dalla tradizione pragmatista per correggere quelli che mi parevano i difetti delle teorie dell’azione più popolari in quegli anni. Con mio disappunto dovetti prendere atto che il mio progetto era stato da molti frainteso come un tentativo di difendere la creatività come il valore umano supremo. A quel punto non mi restava altro da fare che mostrare come non fosse la creatività in sé a essere un valore, e come fosse al contrario possibile comprendere i processi attraverso cui le persone sviluppano i loro impegni assiologici solo applicando a tali processi il concetto pragmatista di creatività e la concezione pragmatista dell’azione e dell’esperienza. Ed è esattamente quello che ho cercato di fare, appunto, nel libro sulla genesi dei valori.
Dopo di allora, è vero, ho continuato a contribuire alla diffusione del pensiero pragmatista – l’ho fatto anche recentemente su invito di un gruppo di studiosi italiani – ma il pragmatismo ha smesso di essere il fulcro della mia ricerca.[6] È diventato così più evidente il carattere articolato del mio retroterra culturale. È noto, ma vale sempre la pena ribadirlo, che io non sono nato negli Stati Uniti, non ho nemmeno frequentato un college americano, non sono cioè cresciuto a diretto contatto con la tradizione pragmatista. Quando ho cominciato a studiare seriamente il pragmatismo avevo già altri riferimenti solidi e il mio interesse per il pragmatismo è nato sotto la spinta delle sue affinità e differenze con tradizioni intellettuali che mi erano più familiari. In particolare la scuola di pensiero tedesca che definirei ermeneutico-storicista ha svolto un ruolo speciale nella mia formazione, anche se – è vero – gli scritti che le ho dedicato non sono numerosi come quelli che ho dedicato al pragmatismo. Ciò non toglie che Dilthey e, negli ultimi vent’anni, Ernst Troeltsch – un pensatore di cui non avevo compreso appieno la grandezza prima di scrivere Die Entstehung der Werte – hanno rappresentato un punto di riferimento non meno importante per me di Mead o James.
Quanto a Dewey devo premettere che mi sono avvicinato al suo pensiero solo dopo aver studiato approfonditamente Mead, che ha rappresentato la mia via d’accesso al pragmatismo americano. Perché proprio lui? Qui c’è sicuramente lo zampino di Habermas e della sua insistenza sulla svolta linguistica. Più in generale, però, credo che l’enfasi di Mead sull’intersoggettività sia entrata in risonanza con la mia identità cristiana, insomma con l’importanza che viene attribuita all’amore per il prossimo e alla comprensione dell’altro nell’insegnamento cristiano. Da Mead a Dewey il passaggio è stato quasi automatico mentre per arrivare a James è servito un piccolo sforzo supplementare. Quanto a Peirce, il quarto nume tutelare del pantheon pragmatista, la sua influenza è stata inferiore nel mio caso perché i suoi contributi scientifici più importanti appartengono ad ambiti della riflessione in cui sono meno competente. James è un pensatore straordinariamente sottovalutato per via della qualità altalenante della sua produzione scientifica, ma non serve insistere sul fatto che i suoi scritti sulla religione sono stati importantissimi per le mie ricerche e lo sono tuttora.
Se capisco bene quello che mi stai dicendo, a te non interessa tanto difendere l’importanza del pragmatismo in quanto tale, ma in relazione al tuo specifico itinerario intellettuale?
Sì, anche se non vorrei dare l’impressione di avere una relazione strumentale con gli autori che ho appena menzionato. Per me non sono meri strumenti di lavoro, sono fonti di ispirazione. Preferisco allora usare il lessico delle relazioni personali e parlare di incontri che hanno cambiato in profondità la mia vita. Le persone care non sono mai mezzi per la nostra autorealizzazione o se lo diventano c’è qualcosa in noi che non va. Il loro compito è piuttosto quello di trasformarci, nella misura in cui rispondono al nostro desiderio o impulso a essere trasformati. In questo senso ci permettono, per così dire, di diventare chi veramente siamo. C’è qualcosa in loro che ci aiuta a compiere un passo importante che non sapremmo fare da soli. Lo stesso discorso vale per lo sviluppo intellettuale. Nel corso della vita, se siamo fortunati, incontriamo autori, testi, punti di vista che riescono a far fiorire ciò che in noi esiste solo in potenza. Tutto comincia con un’intuizione, con l’impressione che ci sia qualcosa di promettente in un autore o in una corrente di pensiero e da lì nasce poi il desiderio di saperne sempre di più. Questa è una molla potente e preziosa e, come dicevo, nel mio caso è scattata leggendo Mead e i pragmatisti.
Spostandoci dal pragmatismo al tuo ultimo libro, Die Macht des Heiligen,[7] volevo chiederti qual è la tua percezione del suo ruolo nel tuo itinerario teorico: lo vivi come una sorta di coronamento della tua produzione scientifica o più banalmente come un ulteriore passo in un lungo ragionamento che ha le sue radici nel passato e lo sguardo rivolto verso il futuro?
Nei due anni che sono trascorsi dalla sua pubblicazione ho fatto ormai il callo a persone che nel commentarlo usano espressioni come opus magnum o summa di una carriera, ecc. In realtà, per me è semplicemente un altro passo nella direzione in cui sto procedendo da tempo. D’altra parte, un libro per un autore è un condensato di pensieri passati. Il presente è racchiuso nei libri che devono ancora uscire. Attualmente ne ho due in corso di stampa. Il primo è un volume snello che uscirà per la casa editrice Kösel-Verlag, che ha già pubblicato altri due miei scritti: Sind die Menschenrechte westlich? [I diritti umani sono un’esclusiva occidentale?] e Kirche als Moral-agentur [La Chiesa come agenzia morale]. Si intitolerà Friedensprojekt Europa? [Il progetto europeo è un progetto di pace?], col punto di domanda bene in vista.[8] Il secondo ha come tema il rapporto tra il culto moderno della libertà e la riflessione religiosa. Si intitolerà Im Bannkreis der Freiheit: Religionstheorie nach Hegel und Nietzsche [Sotto l’incantesimo della libertà: la teoria della religione dopo Hegel e Nietzsche] e la sua uscita è prevista per l’autunno 2020.
Come puoi immaginare, sullo sfondo del primo libro c’è la questione della plausibilità di quell’argomento assai popolare oggi che giustifica l’esistenza stessa dell’Unione Europea nei termini di un progetto di pacificazione tra Stati che fino a pochi decenni fa hanno combattuto sanguinosamente l’uno contro l’altro. Molti sono interessati a capire se questo discorso di autolegittimazione del processo di unificazione europea come strumento essenziale di stabilizzazione sia corretto, cioè storicamente fondato, oppure no. Nel libro non tratto direttamente il tema, ma faccio leva su tale legittima curiosità per provare a chiarire, servendomi di argomenti storici, in che modo l’Europa in quanto progetto di pace possa sopravvivere alle spinte in senso contrario presenti nello scenario geopolitico contemporaneo.
Scusa se ti interrompo, ma posso chiederti qual è la tua opinione riguardo al quesito più generale: la legittimazione del progetto europeo nell’ottica della pacificazione è giustificata secondo te?
Qui ho il tempo per rispondere solo a grandi linee. Nel libro parto dagli anni Venti del Novecento, quando è stata fondata la Lega delle Nazioni, e mi concentro su un dibattito teorico che ha avuto luogo in quel periodo. Il problema era stabilire se una federazione di nazioni rendesse o no meno probabile un conflitto violento tra gli Stati. La mia autorità in materia è Otto Hintze, il più grande esperto di storia prussiana, che in quegli anni stava lavorando su una storia costituzionale comparata dell’Europa. La sua tesi, in breve, era che un sistema politico federale da solo non fosse sufficiente per impedire l’assunzione di comportamenti imperialistici verso gli altri Stati, esterni alla federazione. Nel libro è da qui che prendo le mosse per chiedermi se l’Unione Europea, che è riuscita effettivamente a portare a termine con successo un processo di pacificazione interna – a nessuno, infatti, passa nemmeno per l’anticamera del cervello che, in un orizzonte temporale ragionevole, la Germania possa dichiarare guerra alla Francia – debba essere perciò considerata una garanzia di pace nel mondo. Che cosa esattamente significa questa tesi? Significa forse che abbiamo la certezza che un’Europa finalmente unificata tratterà anche i paesi esterni all’Unione Europea come i paesi interni all’UE si sono trattati reciprocamente durante il processo di unificazione? O non è più probabile, al contrario, che un’Europa unificata si comporterà con gli Stati non europei allo stesso modo in cui gli Stati più forti si sono sempre comportati con i più deboli nel corso della storia umana?
Lo scopo che mi prefiggo nel libro, perciò, è provare a mostrare che le tipiche storie del processo di unificazione europea tendono a idealizzare alcuni passaggi cruciali di tale tragitto. Per esempio, dopo il 1945 è evidente che la Francia fece di tutto per mantenere il proprio impero coloniale. In questo senso, la prima fase del processo di unificazione europea significò pace in Europa e colonialismo fuori dall’Europa, con l’inevitabile uso della forza, inclusa la forza militare, che ciò comportava. A questo fatto va aggiunto il sostegno finanziario della Germania per le imprese coloniali francesi. Insomma, non c’è nessun automatismo nel processo di pacificazione europea, quasi si trattasse di un processo di civilizzazione. La questione rimane aperta. Non possiamo dunque sostenere con certezza che quello europeo sia un Friedensprojekt.
La cautela che scaturisce dalla consapevolezza storica è particolarmente importante in questo caso, perché dobbiamo evitare che l’Europa, qualora dovesse diventare un vero attore geopolitico globale, si consideri immune dai difetti tradizionali delle grandi potenze. Il rischio è simile a quello che corrono gli Stati Uniti allorché si sentono legittimati dal loro ruolo storico di difensori della libertà ad applicare un doppio standard in politica interna ed estera, assumendo quando serve atteggiamenti imperialistici al di fuori dei propri confini. È essenziale per me che la futura Unione Europea non si senta legittimata dal successo della sua vicenda di pacificazione interna a fare eccezioni in tal senso.
Tutto ciò non ha direttamente a che fare con la parte più sistematica della mia riflessione: è piuttosto uno sguardo gettato sull’attualità. Lo sfondo storico però rimane centrale. Riassumendo, il mio ragionamento parte dal progetto nazista di unificazione europea, prosegue con un’analisi della coesistenza di colonialismo e unificazione europea nei primi decenni del Secondo dopoguerra e si conclude con un accenno al dibattito attuale su un possibile esercito europeo.
Ritornando alla parte più sistematica del tuo lavoro, posso chiederti di descrivere in poche parole la questione che catalizza i tuoi sforzi intellettuali?
Nel discorso che ho tenuto quando mi hanno conferito il Max-Planck-Forschungspreis nel 2015 ho provato a spiegare nel modo più semplice possibile quale fosse il macro-obiettivo delle mie ricerche, il mio «long-term plan», per così dire.[9] In estrema sintesi lo potrei descrivere come un abbozzo di storia globale dell’universalismo morale. Più precisamente, però, quella che vorrei raccontare è la storia di un intreccio. Ciò che mi sta a cuore, infatti, è capire come la nascita e diffusione di ideali morali universali si sia intrecciata nel corso dei secoli alla storia politica degli Stati. Per questo la nascita dei diritti umani o la svolta assiale sono fenomeni così importanti per me. Il fatto, cioè, che nel primo millennio a.C. in diverse aree geografiche del globo (Grecia, Palestina, Persia, India, Cina, ecc.) sia comparsa una visione universalista dei nostri doveri morali verso gli altri è importantissimo sia perché ci preme comprenderne meglio la fonte sia perché ci interessa capire che cosa ne abbia favorito o ostacolato la diffusione. Qui viene a galla il lato politico della questione, perché tutte le grandi religioni assiali hanno dovuto fare i conti con le realtà statuali esistenti al tempo, soprattutto con gli imperi.
In questo senso, dal mio punto di vista la storia globale dell’universalismo morale non è la storia lineare dell’autorealizzazione di un ideale morale, ma al contrario la vicenda intricata dei nessi contingenti tra la storia dello Stato e la storia dell’universalismo morale, dei loro conflitti e dei loro armistizi. Nel passato dell’umanità si sono susseguiti in sostanza momenti in cui gli ideali morali hanno fatto irruzione nella vita delle persone e momenti in cui l’innovazione si è stabilizzata adattandosi al contesto politico. Allo stesso modo, nel caso dei diritti umani, la loro lenta affermazione è proceduta di pari passo con fenomeni politici come l’assolutismo, il colonialismo, il totalitarismo, ecc.
Il titolo provvisorio delle conclusioni del libro sulla libertà che sto scrivendo – «La storia globale della religione e l’universalismo morale» – lascia intendere quale sia la costellazione di problemi che mi appassiona oggi e quello che ho definito sopra il mio obiettivo più ambizioso. Nelle Nietzsche-Vorlesungen che ho tenuto a Weimar nel 2018 («Religion und Imperium – zur Geschichte ihrer Verschränkung im XX. Jahrhundert» – Religione e impero: la storia del loro intreccio nel XX secolo) ho spinto il mio interesse per la storia globale dell’universalismo morale fino al XX secolo e, dopo aver reso omaggio a Nietzsche contrapponendo alla sua genealogia smascherante il mio modello di genealogia affermativa che attingo da Weber, Troeltsch e Scheler, ho esaminato a fondo tre mobilitazioni popolari novecentesche che considero particolarmente significative: il movimento americano per i diritti civili guidato da Martin Luther King, la lotta per l’indipendenza dell’India promossa dal Mahatma Gandhi e la rivoluzione culturale cinese degli anni Sessanta del Novecento.[10] È presto, però, per entrare nel dettaglio della mia analisi. Con questi cenni alla mia agenda di problemi volevo solo chiarire in quale direzione sto procedendo con il mio long-term plan.
L’ultima domanda che vorrei farti ha una relazione più stretta con l’attualità. Uno dei temi centrali di Die Macht des Heiligen è proprio la relazione che esiste tra il potere politico e il sacro religioso e la speranza che le religioni, in particolare le religioni universali, possano fungere da antidoto contro le forme tradizionali di sacralizzazione del potere. Ai nostri giorni stiamo assistendo in effetti a un ritorno del nazionalismo, sotto forma di sovranismo o populismo, in cui si intravede qualche segno della antica tentazione di sacralizzare il popolo o la nazione. Come interpreti la situazione odierna da questo punto di vista?
La questione è delicata. Comunque, il punto più importante per me è questo. Sebbene io sia un sostenitore dell’universalismo morale e un fermo oppositore del nazionalismo, non considero affatto l’Unione Europea come la portabandiera dell’universalismo morale. Non esiste nessuna relazione logica tra l’unificazione europea e la fine del nazionalismo perché un Superstato europeo, al pari di qualsiasi altro Stato federale, potrebbe produrre a sua volta una forma di ideologia nazionalista. Ne ho già accennato in precedenza quando ho parlato del nesso non scontato tra UE e affermazione dei diritti umani. Per questo trovo assai problematiche e contestabili le affermazioni di quegli uomini di chiesa che in Germania sostengono che esista una relazione diretta tra il messaggio cristiano e l’unificazione europea, quasi che il nazionalismo fosse sempre anticristiano e l’europeismo necessariamente in sintonia col cristianesimo. La vera alleanza, questa è la mia obiezione principale, è tra il Vangelo e l’universalismo morale, non tra il cristianesimo e l’Europa. E gli universalisti morali – è la tesi che ho sostenuto con forza in Kirche als Moral-agentur – devono accettare il fatto che esistono non solo doveri universali, ma anche obblighi particolari. Non esistono cioè «universalisti morali» punto e basta. Esistono anche obblighi verso i figli, i genitori, i partner, gli amici, i propri concittadini entro una comunità storica particolare.
Ho scritto da qualche parte che per me l’Europa non è un valore. La democrazia è un valore. Il welfare state è un valore. Il rispetto dei diritti umani è un valore. Non l’Unione Europea né, viceversa, la Germania, l’Italia o la Francia. La mia proposta è appunto di partire da questo assunto per discutere i meriti specifici del processo di unificazione europea senza trasformare la discussione sull’UE in una questione di principio. Se l’UE contribuisce a rafforzare la democrazia, lo stato sociale, il rispetto dei diritti umani, allora sono favorevole all’UE. Se non lo fa, sono contro. Quello che mi infastidisce è la fatica che si fa a ragionare in questi termini oggi, visto che la discussione pubblica si è trasformata in una specie di referendum pro o contro l’«Europa», a prescindere dai suoi meriti specifici. Personalmente non mi interessa schierarmi a fianco degli «europeisti» o degli «euroscettici»: è un modo questo di classificare le persone che trovo inutile e fuorviante. Io voglio essere classificato come un sostenitore della democrazia, del welfare state o dei diritti umani, non dell’UE.
Detto ciò, non credo sia sbagliato far notare che lo stato sociale non si è affatto rafforzato durante il processo di unificazione europea. Per nulla. E anche la democrazia a livello nazionale si è indebolita, senza che questo indebolimento fosse compensato da un aumento di democraticità a livello delle istituzioni europee. Esistono quindi validi motivi per essere scettici riguardo al processo di unificazione europea senza per questo aderire a posizioni reazionarie o populiste.
Per quanto riguarda la sovranità nazionale, non trovo irragionevole la tesi secondo cui la sottrazione di potere decisionale a livello nazionale sia accettabile solo a patto che venga accompagnata da un simultaneo rafforzamento della sovranità, e delle relative responsabilità, a livello europeo. Ciò di cui siamo stati testimoni diretti negli ultimi anni, invece, soprattutto per quanto riguarda il fenomeno migratorio, è stato un indebolimento della sovranità statale a livello nazionale senza che essa si rafforzasse a livello sovranazionale. Questo non può che fare il gioco dei sovranisti e populisti che, come fa Salvini in Italia, dicono: «se l’Unione Europea non si fa carico dei problemi che stanno a cuore ai nostri concittadini, allora vogliamo occuparcene direttamente noi e tornare a essere padroni a casa nostra».
Da qui nasce il ritorno di interesse per la questione della sovranità nazionale. Tutto ciò non mi sembra insensato. Proprio per l’intreccio tra doveri universali e obblighi particolari di cui parlavo sopra, non credo esista un argomento valido a priori contro questo modo di ragionare. Se uno vuole criticare seriamente Salvini deve spiegare nel dettaglio quali potrebbero essere i passi concreti in direzione di un rafforzamento della sovranità statale a livello europeo. Tutti coloro che sostengono che nell’epoca della globalizzazione gli stati nazionali non avrebbero più alcun ruolo da svolgere dovrebbero però spiegarci perché mai, allora, un elettore dovrebbe impegnarsi o anche solo partecipare a un’elezione nazionale, se i rappresentanti che elegge non avranno la possibilità di decidere alcunché. Mi sembra che troppo spesso i paladini della globalizzazione sottovalutino le conseguenze politiche della loro diagnosi del tempo.
Trump, in effetti, è stato molto bravo a sintonizzarsi con questo sentimento d’impotenza assumendo l’atteggiamento di chi è assolutamente certo di poter fare qualcosa, di poter usare cioè le leve del potere statale per mettere l’America nelle condizioni di controllare il proprio destino. Il lato positivo del suo antintellettualismo sta proprio nel rifiuto di abbracciare quelle teorie che sbandierano i processi storici come la ragione inoppugnabile per accettare le politiche industriali, ad esempio la delocalizzazione o la rimozione dei dazi, che hanno impoverito le classi sociali più deboli.
Se capisco bene, quello che suggerisci, insomma, è di fare un passo a lato e mostrare come i sovranisti e gli antisovranisti alla fine non siano altro che due facce della stessa medaglia.
Essendo stato per decenni un sostenitore e un membro del Partito Socialdemocratico non ti nascondo le difficoltà che ho incontrato nella difesa di questa terza via tra europeisti ed euroscettici. È dal 2015 ormai che sostengo pubblicamente, mediante interviste o interventi, la necessità di modificare la linea politica che ha condotto la SPD in una condizione di emorragia di consensi che non sembra avere fine. Trovo che sia un errore politico gigantesco abbandonare ai partiti di destra o estrema destra i molti elettori che sono genuinamente preoccupati dell’indebolimento della capacità dello Stato di rimediare agli effetti negativi della globalizzazione.
Ma questo non sta avvenendo un po’ ovunque in Europa?
Sì, ma con l’eccezione della Danimarca, che è un caso di studio molto interessante. Nelle ultime elezioni politiche (giugno 2019) la coalizione guidata dal Partito Socialdemocratico ha ottenuto infatti la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento (93 su 179) sulla base di un programma elettorale che coniugava politiche sociali fortemente orientate a sinistra con una politica migratoria assai restrittiva. Immediatamente dopo le elezioni Sigmar Gabriel, che è stato Segretario della SPD dal 2009 al 2017, ha scritto un articolo per invitare il partito a non seguire le orme dei socialdemocratici danesi. Io stesso ho potuto sperimentare in prima persona l’opposizione della leadership socialdemocratica tedesca al modello danese. Questo tipo di resistenza al cambiamento alimenta il mio pessimismo sul futuro del partito in cui ho militato per decenni.
Ma alla fine come interpreti, allora, le difficoltà che la tradizione politica socialdemocratica sta incontrando un po’ ovunque nel mondo? È davvero la fine di un’epoca?
Quello che accomuna partiti così diversi come la SPD tedesca e, ad esempio, il Partito Democratico americano è il divario che si è aperto tra il loro elettorato tradizionale e gli attivisti. Questa frattura è pericolosissima, perché crea le condizioni per l’affermazione di quei movimenti politici di destra che a loro modo rispondono alle ansie delle persone che, come dicevo sopra, hanno la sensazione di avere perso il controllo sulle proprie vite e non trovano più nella politica una sponda per sentirsi meno indifesi. Questo è il primo problema che bisogna risolvere per invertire la tendenza al declino delle forze che dovrebbero assumersi oggi l’onere di difendere l’universalismo morale nella storia.
Note
[1] Cfr. H. Joas, Die Macht des Heiligen. Eine Alternative zur Geschichte von der Entzauberung, Suhrkamp, Berlin 2017.
[2] Cfr. H. Joas, Fede come opzione. Possibilità di futuro per il cristianesimo, trad. it., Queriniana, Brescia 2013.
[3] H. Joas, Die Entstehung der Werte, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997. Una traduzione italiana del volume a cura di Matteo Santarelli è in corso di stampa con il titolo L’emergere dei valori presso Quodlibet.
[4] H. Joas, Die Kreativität des Handelns, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992.
[5] Cfr. H. Joas, Praktische Intersubjektivität. Die Entwicklung des Werkes von George Herbert Mead, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980; Id., Pragmatismus und Gesellschaftstheorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992.
[6] Cfr. H. Joas, Interpretation and Responsibility: A Synthesis of Troeltsch and Mead?, paper presentato al convegno «Comparing Philosophical Traditions: Selfhood, Historicity and Representation between Hermeneutics and Pragmatism» (Università di Cagliari, 14-16 marzo 2019), tradotto ora col titolo Interpretazione e responsabilità: una sintesi tra Troeltsch e Mead?, in A.M. Nieddu – V. Busacchi (a cura di), Pragmatismo ed ermeneutica. Soggettività, storicità, rappresentazione, Mimesis, Udine-Milano 2020.
[7] Cfr. Hans Joas, Die Macht des Heiligen, cit.
[8] Cfr. Hans Joas, Sind die Menschenrechte westlich?, Kösel-Verlag, München 2015; Id., Kirche als Moral-agentur, Kösel-Verlag, München 2016; Id., Friedensprojekt Europa?, Kösel-Verlag, München 2020;
[9] A proposito del conferimento del Max-Planck-Forschungspreis a Joas e Bryan Turner, cfr. https://www.mpg.de/9329087/max-planck-research-award-2015.
[10] Per alcune notizie riguardo a questo ciclo di lezioni cfr.: https://www.klassik-stiftung.de/service/presse/pressemitteilung/religion-und-imperium-im-20-jahrhundert-ab-mittwoch-laedt-das-kolleg-friedrich-nietzsche-zu-vier-vorlesungen-seines-distinguished-fellow-hans-joas-ein/. Per una disamina dell’idea di «genealogia affermativa» cfr. H. Joas, La sacralità della persona. Una nuova genealogia dei diritti umani, trad. it., Franco Angeli, Milano 2014, cap. 4.
Affascinante e ben condotta intervista di Paolo Costa a Hans Jonas. Da leggere e meditare.