di Beatrice Seligardi

 

[L’estratto che proponiamo è tratto dal volume di Beatrice Seligardi, appena uscito, Lightfossil. Sentimento del tempo in fotografia e letteratura (Postmedia Books, Milano 2020), un viaggio attraverso le opere  di Francesca Woodman, Agnès Varda, Max Klinger, André Breton, Deborah Levy, Sophie Calle, Louise Bourgeois e Mary Ruefle. “Lightfossil”, spiega Seligardi, è “un sentimento del tempo che ingloba il gesto di immortalare tracce di qualcosa che è stato, ma che facendo questo crea un altro tempo e un altro modo di rappresentare i soggetti, pietrificati insieme agli altri segni di luce che li accompagnano; una figura che emerge e che fa del processo di affioramento una propria cifra, ma senza confondersi con lo sfondo; una giustapposizione misteriosa di elementi il cui significato risiede nell’alludere all’essenza stessa dell’enigma; un emblema, in cui l’associazione tra le sue parti è per sua natura non concettosa, ma misteriosa, come se ci trovassimo di fronte a un ricordo che non appartiene, tuttavia, al nostro passato].

  

Se guardiamo avanti e indietro nell’opera fotografica di Francesca Woodman, ritroviamo una serie sorprendente di tracce che rimandano a porte e a colonne, un procedimento che culmina in uno degli ultimi progetti concepiti dall’artista, datato 1980. Si tratta dell’immaginazione di un vero e proprio tempio antico e moderno insieme, che ricalca la struttura architettonica del modello classico greco secondo un’interpretazione sconcertante tanto nella forma quanto nel contenuto, e all’interno del quale l’elemento fondativo è costituito proprio da lei, la donna-colonna, la cariatide. […]

 

Temple Project è un’opera concettualmente ambiziosa. Si tratta di un collage imponente, addirittura colossale se paragonato alle fotografie di piccolo formato, preponderanti nella produzione di Woodman, che avevano caratterizzato soprattutto il periodo romano, del quale tuttavia si conserva un’eco importante anche nel progetto newyorkese. Nei documenti raccolti da Giuseppe Casetti, in cui ritroviamo lettere, cartoline e disegni che la fotografa continuò a mandare agli amici romani, e non solo, dopo il rientro a Providence e il trasferimento a New York, Woodman esprime chiaramente l’influenza derivata dall’esposizione continua all’arte della città italiana[1], così come alle sollecitazioni avanguardiste della libreria Maldoror. Ma in modo altrettanto chiaro, la giovane artista indica un nuovo percorso da intraprendere, sulla scorta anche della lettura fondamentale della Recherche proustiana. L’opera, infatti, si rivela per Woodman un esempio paradigmatico di come trasformare esperienze quotidiane in espressioni artistiche di ampio respiro[2]. La sua volontà, più volte ribadita nelle lettere a Giuseppe Casetti, Edith Schloss e Suzanne Santoro, è quella di uscire dalla dimensione intimistica esibita nei suoi autoscatti, rivolgendosi a qualcosa di più “calmo e distante”. Ed è proprio sulla temporalità del fossile, del corpo pietrificato, dell’umano trasformato in puro indice e del tempo interiore mineralizzato in quello esteriore, che si giocano la forma e il senso di Temple Project.

 

Chris Townsend riporta la duplice natura di quest’opera collage, inscindibilmente legata alla forma della diazotype (diazotipia), spesso chiamata anche blueprint per la colorazione bluastra che riproduce, ma differente dalla cianografia in senso stretto sia nel procedimento che nel risultato finale:

 

Woodman cominciò a lavorare seriamente con la diazotipia all’inizio del 1980, usando due metodi differenti. Nel primo caso creava delle composizioni con sue immagini, testi scritti e disegni, su della carta trasparente da architetti, che poteva misurare dai 16 x 40 cm circa, ad altri formati più lunghi, “narrativi”, di circa 24 x 150 cm. Venivano stampati facendo passare l’opera attraverso una copiatrice cianografica, come se si trattasse di un progetto architettonico. Nel secondo caso, una diapositiva in bianco e nero veniva proiettata su un’ampia porzione di carta cianografica appesa al muro di una camera oscura, di solito per molte ore di seguito. La carta veniva poi “processata” facendola passare attraverso una fotocopiatrice cianografica commerciale, esponendola ai gas di ammoniaca[3].

 

Confrontando la versione visibile in uno scatto in cui Woodman e l’amica Betsy Berne vengono ritratte di fronte all’opera – fotografia che risale probabilmente alla mostra organizzata presso l’Alternative Museum di New York nel maggio 1980 – con quella esposta presso il Metropolitan Museum of Art nel 2012[4], Temple Project pare incorporare entrambe le tecniche. La parte principale è costituita dal collage di più diazotipie a grandezza naturale che riproducono, in modo trasfigurato eppure preciso al tempo stesso, un tempio greco, esplicitamente ispirato all’Eretteo sull’Acropoli di Atene, e in particolare al portico delle cariatidi. Il centro visivo di questa architettura bidimensionale è occupato infatti da alcune figure femminili, senza viso o con il volto coperto dalle braccia, che simulano, nell’abbigliamento e nella funzione compositiva, le antiche canefore. La parte sommitale allude a un fregio (in cui possiamo riconoscere bizzarre metope costituite da immagini di colonne, decorazioni pavimentali e altre forme) e a un timpano, in cui vengono recuperati nuovamente motivi a mosaico. Giustapposizione di elementi che richiamano direttamente l’originale (le “vere” colonne dell’Eretteo fotografate, ma anche le decorazioni alla greca) insieme ad altri totalmente eccentrici (frammenti di lavabi), ed altri ancora che si rifanno, ma in modo perturbante, a quelle stesse architetture attraverso la materia viva del contemporaneo (i corpi femminili): come definire questi accostamenti se non all’insegna di una “paratassi incongrua”, densissima e pregna di riferimenti indicali il cui significato ci rimane per lo più sconosciuto?

 

È all’interno della stessa opera, perlomeno nella versione probabilmente allestita all’Alternative Museum, che possiamo trovare una guida alla decifrazione delle molteplici immagini-fossili che compongono Temple Project: una guida apparente, perché scopriremo essere essa stessa puro indice di un rapporto sentimentale, intimo ma anche impersonale, con il tempo. Nell’immagine in cui Woodman posa di fronte all’opera è possibile, infatti, intravedere un altro pannello laterale che si integra pienamente all’interno del progetto complessivo. Quasi fosse una colonna aggiuntiva, della quale emula altezza e larghezza, questa sorta di appendice presenta su fondo scuro alcune fotografie di piccolo formato sormontate da un’immagine più grande. Ed è all’interno di questa immagine, una diazotipia realizzata secondo il primo metodo ricordato da Townsend, che troviamo, a sua volta, un montaggio di fotografia, disegno e scrittura.

 

Il testo in due parti che riusciamo a leggere ricorda la brevità degli appunti, ma proprio nel suo essere brachilogico ci rimanda anche alla natura dell’indice enigmatico:

 

project: a blueprint for a temple

 

for a temple of contemplative classical proportions

made out of classically inspired fragments of

its modern day counterpart the bathroom

 

bathrooms with classical inspiration are often found in

the most squalid and chaotic parts of the city they

offer a note of calm and peacefullness [sic] like

their temple counterparts offered to wayfarers

in ancient Greece

 

Si tratta di frasi brevi ma altamente evocative, che tradiscono una cura della e nella parola che non è mai stata estranea all’opera di Woodman[5]: troviamo parallelismi (classical proportionclassical inspiration) che esprimono non solo rafforzamenti semantici, ma anche opposizioni percettive (squalid and chaoticcalm and peacefullness [sic]); troviamo ripetizioni che assumono il valore ora del poliptoto (classical – classically), ora dell’anadiplosi (bathroom – bathrooms alla fine e all’inizio dei due periodi), ora della variatio contrastiva (modern day counterpart – temple counterparts); e se leggiamo i due testi insieme, quasi fossero le strofe di un componimento poetico[6], rispettando gli a capo scelti dall’autrice (che non segue la lunghezza naturale della pagina), l’intera struttura pare reggersi su di un chiasmo (contemplative + temple + classical / modern + counterpart + bathroom // bathroom + classical + calm / temple + counterpart) in cui spicca l’uso sistematico dell’enjambement, a unire in modo più fluido le corrispondenze antitetiche. In queste brevi note c’è una serie di indicazioni fondamentali: c’è il tempo interiore e c’è quello della Storia; ci sono il caos e la precarietà della metropoli moderna e c’è la lentezza dell’antichità; c’è il gesto intimo di rifugiarsi in un bagno, luogo privato per eccellenza, e c’è l’atto pubblico del viandante che cerca ristoro in un luogo collettivo, destinato alla divinità; c’è la dimensione prosaica della quotidianità e c’è quella sacra dello spazio dedicato al misticismo.

 

A partire da queste coppie contrastive, quella che emerge in A Blueprint for a Temple è un’operazione di montaggio, come se ci trovassimo di fronte contemporaneamente a un progetto architettonico, a una pagina di appunti, a una collezione di immagini. I tre media che compongono la diazotipia suggeriscono a chi guarda diverse possibili chiavi di interpretazione dell’opera principale, senza che tuttavia alcuna di queste riesca a illuminare un significato univoco. Il testo scritto non è una descrizione di Temple Project, né tantomeno serve a spiegare in modo esaustivo il collegamento tra i bagni newyorkesi e i templi greci. Tra i due ambienti la scrittura crea, piuttosto, un’analogia basata su di un comune effetto sensibile: la calma e la pace che sono in grado di indurre in chi solca il loro limitare. È sulla base di una condizione “sentimentale” che è possibile, dunque, lanciarsi in un ardito anacronismo che trova una sua ragione in una questione sensibile – calm and peacefullness [sic] – e allo stesso tempo formale, cioè quegli indizi di forme classiche che Woodman individua nei basamenti dei lavandini, nelle vasche da bagno, nei motivi decorativi dei pavimenti a mosaico degli appartamenti da squattrinati nei sobborghi di New York.

 

[…]

 

A partire dalla cariatide, presagita nella nostra immagine iniziale e compiuta in Temple Project, possiamo attivare un primo significativo movimento al di fuori dell’opera della fotografa statunitense, che ci conduce non molto lontano nel tempo – anzi, proprio negli stessi anni – ma oltreoceano, in una città in cui l’architettura ha dialogato costantemente con il ritorno dell’antico.

 

Nel 1984 Agnès Varda, tra le più importanti registe della storia del cinema, realizza su commissione, per un programma d’arte della rete televisiva Antenne 2, un corto documentario intitolato Les dites cariatides, attraverso cui esplora, accompagnandoci con la propria voce fuori campo, le cariatidi ottocentesche che costellano le facciate dei palazzi di Parigi. Varda comincia il suo percorso non da una cariatide, ma da una donna di bronzo semi-nuda che sorregge un lampione, molle nelle sue carni inventate, sensuale nella posa sinuosa che assume. D’altronde, era “il nudo nell’arte” il tema assegnato alla regista per la puntata, e le prime inquadrature del corto mettono a confronto la viva pelle di un giovane uomo che cammina nudo per la strada – piccolo choc urbano – con i seni e i glutei di statue e bassorilievi femminili che difficilmente i nostri occhi riescono a cogliere con sorpresa. Ma Varda, ben presto, prende la propria strada, anzi, le strade che compongono una Parigi particolare, quella del decennio tra il 1860 e il 1870, il periodo in cui le cariatidi iniziano a popolare le facciate di edifici abitativi e di banche, di tombe funerarie e di portici. […] La presenza della parola, e in particolare di quella letteraria, è fondamentale all’interno del corto di Varda, perché crea una conflagrazione di tempi e spazi diversi. L’incorporazione di alcuni versi dai componimenti di Baudelaire, recitati dalla voce della regista, produce una triplice sovraimpressione fra il punto di vista del poeta, quello di Varda e quello delle cariatidi, che ora ne sembrano le emittenti, ora le destinatarie, senza che tuttavia sia mai possibile decidersi. […] Varda utilizza la lingua di Baudelaire non tanto perché si tratti necessariamente dell’unica e sola chiave di lettura possibile. Lo fa perché c’è un’analogia che l’occhio e l’orecchio della regista captano nell’atmosfera di cui le cariatidi si fanno ancora portatrici, traccia di una sensibilità che ha abitato Parigi attraverso Baudelaire, e che la abita ancora attraverso Varda. Ci dice la cineasta in un’intervista:

 

Je me promenais dans Paris, je lisais […] surtout Baudelaire qui me fascine. J’entends sa voix, ses poèmes habitent mes oreilles. L’association s’est faite comme ça et le film est devenu: les cariatides au moment des dernières années de Baudelaire[7].

 

Varda indugia sulle cariatidi con un occhio che è fotografico e cinematografico insieme, statico e in movimento allo stesso tempo, e che ci restituisce in due forme differenti le temporalità che si depositano come un’aura sulle donne di pietra. C’è la temporalità dell’eterno, che è il tempo sacro dell’esperienza della bellezza, che sembra sospesa, senza ancoraggio alcuno alla vita terrena: questo è il tempo delle cariatidi, angeli o muse, divinità o madonne – parafrasando Baudelaire – che sorreggono oggi e che sorreggeranno sempre, e che vengono colte in inquadrature statiche, perfettamente simmetriche e centrate su prospettive classiche. E poi c’è il tempo del qui e ora, il tempo contingente che è fatto di attimi, di continui spostamenti, di movimenti che colgono ora un dettaglio, ora un altro. È il tempo del nostro sguardo, che Varda introduce attraverso i lenti movimenti di macchina che dal basso verso l’alto, da sinistra verso destra accarezzano benevolmente i corpi scolpiti, ma che talora si fanno rapidi e veloci, come fulmineo è il passaggio di un’automobile che serve da transizione tra una coppia di cariatidi e l’altra. C’è il nostro tempo e c’è il loro tempo, e le cariatidi appartengono a quest’alterità che non è, semplicemente, la femminilità su cui si proiettano i desideri del male gaze, benché questo sia un elemento che Varda certamente non vuole negare, tutt’altro[8]. Ma c’è da parte della cineasta anche un “sentire” come Baudelaire, poeta che la regista dichiara esplicitamente di amare, e con cui, in realtà, condivide anche più intimamente un certo modo di percepire la bellezza. […]

 

Je suis belle, ô mortels! comme un rêve de pierre,

Et mon sein, oùchacun s’est meurtri tour à tour,

Est fait pour inspirer au poète un amour

Éternel et muet ainsi que la matière[9].

 

Je suis belle, et j’ordonne

Que pour l’amour de moi vous n’aimiezque le Beau;

Je suis l’Ange gardien, la Muse et la Madone[10].

 

Mentre la voce fuori campo di Varda recita questi versi, la camera ripete, quasi si trattasse di un rituale, lo stesso movimento, dall’alto verso il basso, per visualizzare una serie di cariatidi, colte singolarmente. Rêve de pierre, eternel, muet: i versi scelti dall’autrice mettono in scena un campo di morte (il mutismo è quello delle cose scomparse, che non possono più parlare) e di eternità (éternel), di materialità fossile (la rima pierre-matière) e di impalpabilità eterea (rêve, inspirer). Le forme che la cariatide via via assume e con cui si confonde (ange gardien, muse, madone) rimandano a una medesima dimensione, che è quella del divino, dell’ideale, della perfezione. Ed è proprio nell’irriducibilità del tempo moderno, che si discosta dal tempo fossile e dal suo tenersi fuori dal corso degli eventi, nell’incommensurabilità tra i luoghi del presente e quelli ideali e compiuti dell’antico, che si produce la lacerazione di Baudelaire, ma anche l’inquietudine che si consuma nei bagni e nei templi di Temple Project di Woodman, così come la malinconia lieve di Les dites cariatides.

 

Note

[1] «It’s funny how while I was living in Italy the culture there didn’t affect me that much and now I have all this fascination with architecture etc.», da una lettera di Francesca Woodman in Edith Schloss, “Francesca”, in Giuseppe Casetti, Francesco Stocchi (a cura di), Francesca Woodman: Roma 1977-1981, Agma, Vienna 2011. Il testo fu scritto da Schloss nel novembre del 1995 in occasione della mostra “Francesca Woodman a Maldoror” presso la galleria “Il museo del Louvre Roma”.

[2] Cfr. lettera di Francesca Woodman a Giuseppe Gallo, 4 gennaio 1980, in Giuseppe Casetti, Francesco Stocchi (a cura di), Francesca Woodman, cit.

[3] Chris Townsend, Francesca Woodman. Scattered in Space and Time, Phaidon, London 2006, p. 234 [traduzione mia].

[4] Francesca Woodman, Blueprint for a Temple, 1980, diazotype collage, 173 1/4 × 111 3/16 in. (irregular), Metropolitan Museum of Art, New York, in Claire Raymond, Francesca Woodman’s Dark Gaze: The Diazotypes and Other Late Works, Ashgate, Burlington 2016.

[5] In numerosi scatti di Woodman sono presenti brevi didascalie che hanno spesso l’aspetto grafico e semantico di brevissimi componimenti poetici, oppure di microstorie epifaniche.

[6] La scrittura poetica costituisce per Woodman un mezzo espressivo largamente praticato nel privato – come possiamo leggere nelle pagine di diario pubblicate nelle appendici di alcuni cataloghi (in particolare quello curato da Chris Townsend) – e incorporato sotto forma di didascalie anche in numerosi scatti. Questa pratica continuativa nell’attività artistica di Woodman, così come il fatto che A Blueprint for a Temple sia inserita nell’esibizione di Temple Project, ci consente di ipotizzare un’analisi in chiave poetica o comunque più spiccatamente letteraria anche per i testi inclusi nella diazotipia.

[7] Agnès Varda, Varda par Agnès, Cahiers du Cinéma, Paris 1994, p. 266.

[8] Cfr. Isabelle McNeill, “Ways of Seeing in Agnès Varda’s Les Dites Cariatides (1984)”, in Marie-Claire Barnet (a cura di), Agnès Varda Unlimited. Image, Music, Media, Legenda, Cambridge 2016, pp. 109-125; Eloise Ross, “Wandering in the Presence of Women: Les dites cariatides”, in cléo a journal of film and feminism, vol. 6, n. 1, Summer 2018, www. cleojournal.com; Jennifer Wallace, “Agnès Varda in Paris: The Urban Gaze of the Female Filmmaker in Three Short Films,” in Siobhán McIlvanney, Gillian Ni Cheallaigh (a cura di), Women in the City: French Literature and Culture. Reconfiguring the Feminine in the Urban Environment, University of Wales Press, Cardiff 2019, pp. 72-96.

[9] Charles Baudelaire [1857], “La Beauté”, in Id., Les fleurs du mal [trad. it. I fiori del male e altre poesie, Einaudi, Torino 2014, pp. 32-33].

[10] Charles Baudelaire, “Que diras-tu ce soir, pauvre âme solitaire”, in Les fleurs du mal, cit. [pp. 68-69].

 

[Immagine: Francesca Woodman, Temple Project (particolare)].

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *