di Giovanni Accardo

 

[Quarta puntata del diario verosimile di Giovanni Accardo sulla scuola e la didattica a distanza. Le prime tre puntate si possono leggere quiqui e qui.]

 

A metà degli anni ’60 mia madre ha sperimentato la didattica mista: a distanza e in presenza. Insegnava nelle scuole popolari, dove si svolgevano dei corsi o di alfabetizzazione per gli adulti o per adulti già alfabetizzati che volevano prendere la licenza elementare. Le lezioni si tenevano a casa dei nonni materni, a Villafranca Sicula, in provincia di Agrigento, e siccome parte delle lezioni si svolgevano in televisione, il fratello di mia mamma, che aveva un impiego pubblico, aveva comprato il televisore, mentre mia mamma, al secondo anno di insegnamento si era procurata una lavagna. Tutti generalmente ricordano la trasmissione del maestro Manzi, Non è mai troppo tardi, che era indirizzata al corso A, cioè agli analfabeti, mentre mia mamma insegnava nel corso B, cioè a quelle persone che avevano la seconda o la terza elementare e volevano prendere la licenza di quinta. Gli studenti erano soprattutto vicini di casa dei nonni, prevalentemente casalinghe – visto che il corso si svolgeva di pomeriggio e gli uomini lavoravano – che con mano incerta riuscivano a malapena a mettere la loro firma. Ascoltavano la lezione in tivù, in una trasmissione che si chiamava Telescuola, e poi mia madre gli faceva fare i compiti. Il libro sul quale studiavano quelli già capaci di leggere e scrivere s’intitolava Continuando, pubblicato dalla casa editrice Marzocco Bemporad, un testo multidisciplinare con dentro storia, letteratura, scienze, matematica. Le letture erano quasi tutte a sfondo patriottico: Carducci, Mazzini, Settembrini, Silvio Pellico, oppure edificanti. Al Sud il tasso di analfabetismo tra gli adulti era molto alto e mia madre mi racconta che i suoi studenti erano molto contenti di imparare a scrivere o di prendere la licenza elementare. Negli anni si aggiunse anche qualche contadino o muratore che con la licenza di quinta elementare poteva concorrere a un posto fisso al Comune o alla Regione. Imparò a scrivere e a far di conto anche la nonna paterna, e grazie a ciò riuscì ad aprire un piccolo negozio di generi alimentari.

 

Insomma una didattica mista – a distanza e in presenza – che permetteva un’emancipazione sociale, a differenza di quella che stiamo sperimentando oggi, dove proprio i più fragili emotivamente o socialmente, coloro che non hanno mezzi sufficientemente adatti all’attività on-line, li stiamo perdendo. E quanto sia faticoso seguire le lezioni da uno schermo, l’ho potuto sperimentare ieri, seguendo un collegio docenti di tre ore del quale ero il verbalizzante. A fine collegamento ero sfinito, con gli occhi che faticavano a mettere a fuoco, disturbati da continui fosfeni che intasavano il mio campo visivo. Ma ho anche sperimentato il collegamento sullo smartphone per presentare un libro che ho curato, dato che col pc la connessione non funzionava, e vi assicuro che è stata una fatica immane. Pensate a farlo tutti i giorni. Infatti qualche alunno che soffre di emicrania sta avendo un peggioramento dei sintomi. Sofia, ad esempio, è finita al pronto soccorso, dove le hanno iniettato in vena due antidolorifici, ma invano; allora l’hanno sedata e addormentata per proteggerla dal terribile dolore che le impediva persino di parlare.

 


* * *

«Buongiorno, vedo che manca metà della classe, che fine hanno fatto gli altri?» chiedo agli studenti di quinta.

«Lorenzo mi ha scritto che non riesce a entrare.»

«Aspettate che mando un messaggio sulla chat per capire cosa succede», dico. «Non vorrei far perdere a metà della classe l’argomento di cui parleremo oggi.»

Laura: «Prof, io sono entrata ma la piattaforma mi ha buttata fuori.»

Claudia: «Mi scusi ma ho dovuto dare il computer a mia sorella che ha una simulazione della prova d’esame.»

Anna: «Io ho dovuto dare il computer a mia mamma perché ha una videoconferenza.»

Francesca: «Profe, io ho mio padre che sta lavorando con il tablet ed è in videoconferenza con il suo capo e i suoi colleghi.»


* * *

Anche tra gli studenti ci sono coloro che condividono le teorie complottiste, quelle che sostengono la creazione in laboratorio del virus o che addirittura non esista proprio e che dunque ci hanno chiusi in casa solo per poter limitare le nostre libertà e poterci controllare meglio. La letteratura è uno degli strumenti grazie al quale conserviamo le testimonianze di molte epidemie e pandemie che hanno sconvolto l’umanità nel corso del tempo. Ma gli scrittori hanno anche immaginato epidemie mai realmente avvenute, magari prendendo spunto dai racconti degli storici, raccontandole in modo accurato. Ho proposto agli studenti di quarta di fare una ricerca e costruire un percorso cronologico sulle epidemie raccontate dalla letteratura o dalla storia. Gli studenti hanno risposto in maniera davvero efficace, individuando anche autori che a scuola solitamente non vengono affrontati. È stato un modo utile e interessante per confrontare la pandemia che stiamo vivendo con le esperienze del passato. Gli studenti sono rimasti stupiti di come talune dinamiche – l’incredulità, le responsabilità della politica, la paura e le isterie collettive, la ricerca dei colpevoli – si ripetano a ogni epidemia.

 

Tutti gli studenti della classe hanno fatto la loro parte, ma voglio ringraziare in particolare Lisa, Anna e Sergio per la ricchezza della loro ricerca.

Nell’antichità si pensava che le pestilenze e le epidemie fossero una punizione divina, già nella Bibbia, nel Libro dei numeri, viene narrata una pestilenza di origine divina che ai tempi di Mosé uccise ventiquattromila persone. Ma la prima testimonianza nella letteratura la troviamo nel I canto dell’Iliade, dove Omero narra la peste di Troia del 1200 a. C., causata dall’ira di Apollo per il rifiuto di Agamennone di restituire la sua schiava Criseide al padre Crise, sacerdote del dio.

 

La seconda epidemia ad essere raccontata è la peste di Atene del 430 a.C., che probabilmente ebbe inizio in Etiopia durante la guerra del Peloponneso e inizialmente condizionò l’andamento della guerra, difatti i peloponnesiaci ne approfittarono per saccheggiare l’Attica. Secondo gli ateniesi la causa era da attribuire ai peloponnesiaci, che si credeva avessero gettato dei veleni nei pozzi. Nonostante si parli di peste, in realtà non si è sicuri di che malattia si trattasse, infatti i sintomi non erano quelli della peste bubbonica, forse si trattava di vaiolo o di tifo; in ogni caso era una malattia molto contagiosa e ignota ai medici dell’epoca.

 

Questa epidemia venne descritta da Tucidide nella sua unica opera La guerra del Peloponneso, il quale venne colpito dalla malattia ma riuscì a sopravvivere; con l’aiuto di Ippocrate descrisse l’avvenimento con un lessico preciso e realistico, offrendoci un’analisi che potremmo quasi definire scientifica. Ne descrive i sintomi con l’obiettivo di renderla facilmente identificabile nel caso in futuro scoppi una nuova epidemia: «Forte calore alla testa, con arrossamento e infiammazione degli occhi; le parti interne, gola e lingua, erano subito rosso sangue, e ne emanava un fiato irregolare e puzzolente. Sopraggiungeva starnuto e raucedine, e in breve tempo la malattia scendeva al petto con forte tosse. Corpo rossastro, con piccole pustole, le parti interne ardevano a tal punto da non sopportare i vestiti o i lenzuoli più leggeri, quindi si spogliavano nudi e si gettavano nell’acqua fredda.» Tucidide narra anche l’impatto che l’epidemia ebbe sulla società, mostrando una società completamente sconvolta che non credeva a rimedi naturali o soprannaturali, con la conseguenza di portare a un generale disprezzo delle leggi naturali e divine e a un enorme degrado morale. «Luoghi sacri pieni di cadaveri, ognuno seppelliva come poteva, capovolgimento continuo di ricchi e poveri, sfiducia negli dèi, nessuno pensava di vivere abbastanza da scontare una pena.» Molti ricchi morirono all’improvviso, lasciando le ricchezze a coloro che fino a quel momento non avevano avuto niente e che si lasciarono andare ai piaceri. I medici non riuscivano a fronteggiare una pestilenza così grave, tanto che erano i primi a morire. «Nulla potevano i medici, che non conoscevano quel male e si trovavano a curarlo per la prima volta – ed anzi erano i primi a caderne vittime in quanto erano loro a trovarsi a più diretto contatto con chi ne era colpito.» Le sepolture spesso non avvenivano e i cadaveri venivano ammucchiati nei santuari. É toccante la frase con cui Tucidide descrive il sentimento che si provava quando si scopriva di essere stati contagiati; i contagiati, infatti, erano demoralizzati e cercavano di aiutarsi tra di loro, per non morire abbandonati, come spesso succedeva, poiché si veniva abbandonati dai parenti timorosi di essere infettati. Solo coloro che erano sopravvissuti si mostravano solidali con i malati.

La sua analisi rappresentò un modello per gli altri autori che successivamente narrarono le pestilenze.

 

Intorno al 429 a. C. Sofocle mise in scena la tragedia Edipo re, ambientata nella città di Tebe sconvolta dalla peste. Poiché il re spesso era considerato come una divinità, è proprio a lui che il popolo fece appello per chiedere aiuto, così il re mandò Creonte all’oracolo di Delfi per avere consiglio. Si scoprì che la pestilenza aveva origine divina, poiché Apollo voleva vendicare la morte, rimasta impunita, del re Laio. Per far cessare la peste bisognava trovare e punire l’assassino che viveva ancora nella città. L’assassino è proprio Edipo, che si è macchiato di due terribili reati: il parricidio e l’incesto, essendo stato amante della madre Giocasta, da cui ha avuto quattro figli.

 

Questi scritti, specialmente quello di Tucidide, ispirarono Lucrezio, il quale riprese la narrazione della peste nel finale del De rerum natura, ma la sua descrizione è diversa dallo storico greco poiché egli voleva insegnare ai lettori che come non va temuta la morte, non vanno temuti nemmeno i cataclismi, perché la paura causa infelicità. Inoltre egli individua la causa non negli dei ma in un “flusso mortifero” che arriva dall’Egitto.

 

Ispirato da questi scritti, Virgilio, nel terzo libro delle Georgiche, descrisse la peste nel Norico, regione orientale delle Alpi, più o meno l’attuale Austria. «Qui un tempo per un contagio dell’aria sorse una funesta stagione, e divampò per tutta la calura dell’autunno, e portò alla morte ogni genere di greggi, ogni genere di fiere, e contaminò i laghi, contagiò i pascoli con l’infezione.» La peste, secondo Virgilio, si diffuse in seguito a una malattia nel cielo. Le vittime furono gli animali, in questo modo i popoli tornarono a uno stato primitivo e la contaminazione degli animali rese impossibile lo svolgersi dei sacrifici religiosi. La peste sovverte l’ordine naturale, impedisce il culto religioso, segna un regresso all’età che precedette l’invenzione dell’aratura.

 

Anche Tacito nei suoi Annales documentò l’epidemia del 66 d.C. che colpì Roma, una pestilenza che non risparmiava nessuno e che non faceva distinzioni di sesso, età, classe sociale. L’autore scrisse di come le case si riempivano di cadaveri e le strade di funerali; la religione non era più d’aiuto e infatti smise di credere negli antichi dei, come lui anche Nerone, il quel arrestò tutti i cristiani.

 

Nel 166 d. C. nell’impero romano si diffuse la peste antonina o peste di Galeno, dal nome del medico che la descrisse, si trattava di un’epidemia di vaiolo o morbillo, propagata dai soldati dell’esercito, i quali erano di ritorno dalle campagne militari contro i Parti (popolazione che occupava l’attuale Iran). L’epidemia fu talmente contagiosa che le vittime furono il 10-30% della popolazione (circa 2.000 morti al giorno) e tra questi vi furono gli imperatori Lucio Vero e Marco Aurelio. Come conseguenza molti si affidarono alla magia, speranzosi di non essere contagiati. La pestilenza fu raccontata proprio da Marco Aurelio nei Colloqui con sé stesso, dove affermò che la pestilenza attorno a lui era meno letale della menzogna, del comportamento maligno e della mancanza di vera comprensione.

 

Tra il 541-542 d. C., durante la guerra greco-gotica, una pandemia di peste bubbonica, causata dallo stesso batterio che nel XIV secolo avrebbe messo in ginocchio l’Europa intera, colpì l’Impero Romano d’Oriente. Lo storico bizantino Procopio di Cesarea racconta di come la malattia uccidesse addirittura centomila persone al giorno nella sola Costantinopoli. Questo numero è stato probabilmente aumentato dalle circostanze di panico che si erano diffuse, ma nonostante questo, è indice dell’immensa paura che i cittadini ebbero della pandemia. Questa, infatti, uccise il 40% della popolazione della capitale bizantina, costituendo una delle più grandi tragedie dell’antichità. Lo storico raccontò che non c’erano più luoghi dove seppellire i morti e perciò venivano lasciati lungo le strade oppure seppelliti in fosse comuni. Persino Giustiniano fu vittima della peste, ma riuscì a guarire. Il cosiddetto “morbo di Giustiniano” ebbe pesanti conseguenze anche sulla guerra gotica, permettendo agli Ostrogoti di occupare la penisola italiana, già travolta dalla malattia. Secondo lo stesso autore, la città di Roma rimase quasi priva di abitanti per alcuni mesi: e questo perché il re degli Ostrogoti decise di trasferire in Campania i pochi cittadini sopravvissuti alla peste. Alla fine dell’epidemia, la capitale aveva perso quasi il 40% della sua popolazione e in tutto l’impero avevano perso la vita quattro milioni di persone.

 

Una dettagliata descrizione degli effetti della “peste di Giustiniano” la fornisce Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum. Il monaco cristiano, vissuto nell’ottavo secolo, dedica infatti al racconto delle conseguenze dell’epidemia il quarto paragrafo del secondo libro. Egli concentra la sua attenzione sulla propagazione della peste in Italia, dove fu fortemente colpita la Liguria. Strane macchie apparvero prima sulle porte, sui vasi, nelle case, sui vestiti, per palesarsi poi sull’inguine della gente, e tramutarsi in ghiandole della grandezza di una noce che precedevano una tremenda febbre. Dopo tre giorni giungeva la morte, ma se si sopravviveva a quei tre giorni, aumentavano le speranze di restare in vita. L’autore si sofferma poi sull’isteria collettiva: le persone abbandonavano le proprie abitazioni e nella fuga morivano insepolte; emerge così come venisse a mancare, nella tragedia, la pietà umana verso il prossimo. Gli spazi dediti al pascolo si tramutarono per gli uomini in luoghi di sepoltura, e le loro vuote dimore divennero rifugi per le bestie. Inoltre scrive che ogni cosa era immersa in un silenzio profondo poiché tutti erano fuggiti e si poteva rivedere il mondo riportato al silenzio delle sue origini.

 

Intorno al 1348 arrivò in Italia la peste nera che straziò l’Europa. Partita nel 1347 dalla Mongolia, raggiunse Caffa, in Crimea, da dove si diffuse attraverso i commerci e dunque le navi, arrivando anche in Europa e a Messina, da dove si propagò negli altri porti italiani. Nel 1351 tutta l’Europa fu colpita dalla peste nera e la popolazione diminuì di circa un terzo. Ad oggi è considerata una delle più grandi pandemie della storia, infatti, secondo i dati degli storici, si stima che la penisola iberica perse circa il 60-65% della popolazione e la Toscana fra il 50 e il 60%. La popolazione europea passò da 80 a 30 milioni di persone. L’epidemia fu narrata dallo scrittore Giovanni Boccaccio, il quale ci racconta il diffondersi della peste e i suoi effetti sulla società del tempo. La testimonianza viene riportata nel Decameron, opera nella quale si narra la storia di dieci giovani che decidono di allontanarsi da Firenze per dieci giorni, nella speranza di sfuggire al contagio. E così, per tenersi compagnia, decidono di raccontare, a turno, dieci novelle ogni giorno, prestabilendo un tema a cui attenersi. L’obiettivo di Boccaccio era quello di proporre un progetto per ricostruire una nuova società, basata nuovamente sui valori e sugli equilibri che erano stati perduti con la malattia, infatti le leggi non venivano fatte rispettare poiché erano morti numerosi funzionari pubblici. Proprio come narrato da Tucidide, coloro che possedevano ricchezze le sperperavano, lasciandosi andare ai piaceri, in attesa della morte. E proprio come per tutte le altre pestilenze, non ci furono più luoghi per seppellire i morti. Come per ogni epidemia, anche in questo caso si cercarono i responsabili: furono incolpati gli ebrei e per questo vennero sterminati.

 

Nel 1575 la guerra di Mantova portò una grande pestilenza a Venezia, e nonostante il governo coordinasse disinfestazioni e seppellisse i morti nei lazzaretti, morirono circa 47000 persone, ovvero un quarto della popolazione. La pestilenza durò fino al 1633 e colpì duramente la città di Milano, con un bilancio di 165000 morti. Fu raccontata con grande scrupolo storico da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi, a partire dal capitolo XXXI: «La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, com’è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò buona parte d’Italia.» Il passaggio dell’esercito e la guerra costituiscono il veicolo per la diffusione dell’epidemia. La prima reazione, sia popolare che delle autorità, come altre volte nella storia, fu l’incredulità, il tentativo di minimizzare, poi la ricerca dei colpevoli, cioè gli untori. Manzoni identifica il primo contagiato in un soldato del quartiere di porta Orientale che doveva aver comprato delle mercanzie infette che gli eserciti si portavano dietro. Con l’arrivo della stagione più mite il contagio riprese vigore, allora le autorità non poterono più fare finta di nulla, organizzando la quarantena. Il numero dei ricoverati nel lazzaretto aumentò notevolmente e fu necessario trovare chi si dedicasse alla cura degli ammalati, il compito venne affidato all’ordine dei cappuccini. Manzoni sofferma la sua attenzione sulla condotta superficiale delle autorità politiche e sulla caccia agli untori, figlia dell’ignoranza e delle superstizioni. Il racconto di un processo nei confronti di alcuni cittadini ritenuti untori darà vita a un’opera autonoma, Storia della colonna infame. Naturalmente Manzoni, come aveva già fatto nel capitolo in cui c’è l’assalto ai forni, non perde l’occasione per mettere in scena l’irrazionalità e la malvagità dei comportamenti umani, ma anche il grave errore del cardinal Federigo Borromeo che, credendo di fermare l’epidemia, organizza un’affollata processione per le vie di Milano, che ebbe l’effetto di moltiplicare i contagi.

 

Nel 1664-1665 ci fu la grande peste di Londra, probabilmente dovuta agli scambi commerciali tra Londra e Amsterdam, che causò la scomparsa di un quinto della popolazione e fu raccontata da Daniel Defoe, il quale scrive che per non subire la quarantena molte famiglie riuscivano col denaro a fare registrare i morti di peste come morti di altre malattie. Furono prese numerose precauzioni, come, ad esempio, quella di seppellire i morti ad almeno 1,8 metri di profondità, vennero proibiti i funerali e chiuse le case dove si erano manifestati casi di contagio. I funzionari delle parrocchie fornirono il cibo ai bisognosi e i cosiddetti “cercatori” prendevano i cadaveri e li portavano di notte nelle fosse comuni. Tutti gli scambi commerciali con Londra e con le altre città colpite dalla peste furono interrotti.

 

Tra il 1835-1837 il poeta dialettale Giuseppe Belli raccontò in versi, Er collera mòribbus, l’epidemia di colera che colpì l’Italia. Egli iniziò a scrivere ancora prima che il colera arrivasse a Roma, poiché venne informato da amici, ma l’epidemia venne ufficializzata solo il 18 agosto 1837. Raccontò di persone che finivano al cimitero in massa per una malattia venuta dall’Oriente, Roma era senza messe e senza feste, mentre i lavoratori, preoccupati, si chiedevano se sarebbero morti per fame o per malattia. Scrisse che il 30 agosto 1835 vennero chiusi i teatri e per lui fu un problema, poiché guadagnava facendo la comparsa. Raccontò poi di come già allora girassero notizie false riguardo a cure miracolose che in realtà non funzionavano. Dai suoi versi emerge l’immagine di un male che non risparmiava nessuno, fatta eccezione per le donne, poiché amiche di San Rocco, ospedale di ostetricia. Pose l’accento anche alle differenze sociali, visto che i più poveri sarebbero morti, trasportati nei lazzaretti, al contrario dei più ricchi, i quali sarebbero rimasti al sicuro e curati nelle loro case; c’era infatti la credenza che il colera si fosse diffuso con l’autorizzazione del sindaco e del parroco e che fosse destinato soprattutto alla plebe, in quanto i ricchi possedevano il contravveleno.

 

Nel 1842 Edgar Allan Poe scrive due racconti sulla peste: La maschera della morte rossa e il racconto breve Re peste. Il primo è un perfetto esempio di come la peste possa diffondersi nell’inconsapevolezza della gente. Il secondo è una storia macabra ma allo stesso tempo leggermente comica.

 

Anche Giovanni Verga raccontò un’epidemia di colera, con la novella Quelli del colèra, contenuta nella raccolta Vagabondaggio (1887), in cui ritrae due villaggi della Sicilia orientale (San Martino e Miraglia) impauriti dall’epidemia che realmente colpì il Regno delle Due Sicilie nel 1837.  Lo scrittore ci mostra la folla spaventata dal diffondersi dell’epidemia che reagisce scegliendo come capro espiatorio rispettivamente un gruppo di commedianti e una famiglia di zingari. La novella racconta i fatti di San Martino, dove la morte di alcuni paesani scatena la rabbia della folla che si scaglia nottetempo contro dei commedianti di passaggio. Poi si racconta di quanto avvenuto nel paese di Miraglia, dove gli untori sono dei forestieri, ovvero degli zingari che si portano dietro «tutta la loro casa in un carretto sconquassato». L’aggressione contro costoro è talmente violenta che a morire sarà persino una giovane madre, intenta a proteggere il figlioletto dalle scuri dei paesani, tentando di schivarle a mani nude. Per comporre questa novella, Verga si era documentato sulle ricerche del Pitré sul colera, ma verosimilmente aveva in mente la peste narrata da Manzoni. Lo scrittore racconta anche l’epidemia di colera che colpì Catania nel 1854 nel romanzo Storia di una capinera e muore di colera Maruzza la longa nel romanzo I Malavoglia.

 

Nel 1912 Jack London pubblica un romanzo breve intitolato La peste scarlatta che racconta di una grave pestilenza che ha eliminato gran parte della popolazione umana e fatto ripiombare i pochi sopravvissuti nell’età della pietra. Tutto il mondo è afflitto da questa epidemia fatale che farà impazzire letteralmente gli abitanti: le città vengono date alle fiamme nella speranza di eliminare la peste; le persone si allontanano le une dall’altre, perché è troppo alto il rischio di contagio, mentre i ladri saccheggiano le case ormai vuote. Un vecchio, tra i pochi superstiti, racconta come andarono le cose ai nipoti inselvatichiti dei sopravvissuti, cercando di impartire loro una lezione di saggezza e di conoscenza.

 

Proprio nel 1912 Thomas Mann pubblica La morte a Venezia, in cui la passione erotica del protagonista, il professor Gustav von Aschenbach, è funestata da un’epidemia di colera che colpisce la città, nonostante le autorità cerchino di nasconderne la gravità: «Sui primi di giugno, i padiglioni d’isolamento dell’Ospedale Civico si erano silenziosamente riempiti, nei due orfanotrofi lo spazio mancava già, e un sinistro viavai si svolgeva tra le Fondamenta Nuove e l’isola del cimitero, San Michele. In città, tuttavia, il timore di un danno generale, l’ansia per l’esposizione d’arte da poco inaugurata ai Giardini Pubblici e le perdite ingenti che, in caso di panico o di discredito, minacciavano gli alberghi, i negozi, l’intera e complicata macchina del turismo, si mostrarono più forti dell’amore della verità e del rispetto delle convenzioni internazionali, e indussero le autorità a persistere cocciutamente in una politica di silenzio e di smentite

 

La peste di Albert Camus, pubblicato nel 1947, è probabilmente il più celebre romanzo del ‘900 in cui viene narrata un’epidemia. I fatti si svolgono a Orano, in Algeria, e raccontano un’epidemia mai avvenuta realmente ma da leggere in chiave allegorica, con un chiaro riferimento a una “malattia” che ha colpito l’Europa pochi anni prima: il nazismo. Col suo romanzo Camus, tra le altre cose, vuole sottolineare il rischio di un ritorno dell’epidemia, convinto che la peste sia solo apparentemente sconfitta, mentre in realtà cova costantemente nell’oscurità; tocca perciò mantenere sempre vigile la ragione: «Lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai

 

Nel 1972 lo scrittore brasiliano Jorge Amado pubblica il romanzo Teresa Batista stanca di guerra che parla di un’epidemia di vaiolo nero. Quando si diffonde la pestilenza, la protagonista resta a curare i poveri e a vaccinarli, correndo il rischio di ammalarsi, e grazie ai suoi sforzi diventerà l’eroina che permetterà di sconfiggere l’epidemia.

È del 1985 il romanzo L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcia Marquez, dove la malattia è solo un termine di paragone della passione amorosa che come un’epidemia sconvolge la vita dei protagonisti.

Di tutt’altra epidemia racconta lo scrittore portoghese Josè Saramago nel suo libro Cecità (1995), una cecità mai esistita realmente. La storia narra una perdita della vista che contagia tutti i protagonisti del libro, può essere interpretata come una lunga metafora dell’egoismo umano, dove ogni forma di socialità viene meno. Quando la cecità inizia a diffondersi in maniera capillare, il governo decide di mettere i ciechi in quarantena, che, divisi in gruppi e rinchiusi in edifici fatiscenti, tornano a uno stato primitivo. In più, i crimini che poco prima essi avrebbero condannato, diventano all’ordine del giorno. L’unica eccezione a questo spietato individualismo è rappresentata da una donna non colpita dalla malattia, che si immola per il prossimo e diventa simbolo della generosità. La cecità è dunque un pretesto che l’autore utilizza per raccontare e denunciare l’indifferenza dell’uomo contemporaneo e la sua irrazionalità.

 

Pubblicato nel 2010, Nemesi di Philip Roth racconta di un’epidemia di poliomielite avvenuta nella città di Newark nel 1944. L’epidemia colpisce principalmente i bambini, e per lo scrittore, che sceglie di concentrarsi sulla fisicità del male e i suoi effetti, mettendo in scena il dramma dell’impotenza umana, essa è una metafora del nemico ingiusto. Nel narrare l’avanzare inesorabile dell’epidemia, Roth si serve della consueta scrittura asciutta e incalzante che coinvolge il lettore in ciò che appare fin dall’inizio come una battaglia che non lascerà né vincitori né vinti.

 

[Immagine: Pieter Bruegel il vecchio, Il trionfo della morte].

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