di Riccardo Donati
Tra gli effetti della pandemia di Covid, oltre ai cori infernali delle voci disforiche e a quelli angelici di chi scioglie la paura col solvente di facili pensierini rassicuranti, c’è stata una nuova ondata di vetrinizzazione del mondo. Mi spiego. Negli ultimi duecento anni si è assistito alla realizzazione – o soltanto alla progettazione, alla fantasticazione – di miriadi di superfici, schermi, pareti, strutture e diaframmi traslucidi. Dalle vetrine commerciali alle case di vetro, dai centri commerciali ai biodome e alle biosfere, la trasparenza è stata un elemento chiave del modello di sviluppo del mondo contemporaneo; e lo è stata sia sul piano della concreta pratica dell’allestimento di spazi e della creazione di oggetti (ciò che chiameremo funzione) sia sul piano dell’immaginario condiviso sotteso a quelle forme e da quelle forme alimentato (qui detto finzione). Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria, ha scritto Marshall Berman nel suo capitale saggio sulla modernità: tra le altre cose, la prima ondata di vetrinizzazione del mondo ha significato un progressivo dissolversi delle pareti come argini visivi, sebbene queste abbiano mantenuto saldo il loro ruolo di disgiungere, silenziare, isolare gli altri sensi (per chi volesse approfondire, rinvio al mio Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico, Rosenberg&Sellier). Ora, queste trasformazioni non sono affatto prive di conseguenze. Esiste evidentemente una correlazione diretta tra la necessità di imporre una distanziamento (dunque, alla lettera, creazione di una separazione tra gli individui) e il tentativo di un suo illusorio, immediato (e sottolineo: immediato), annullamento. Essere vicinissimi, ma non potersi toccare; afferrarsi con lo sguardo, restando però intangibili; stare dentro, senza però ritrovarsi mai visivamente tagliati fuori da quanto accade all’esterno. Questo doppio movimento di (vero/falso) allontanamento e (vero/falso) avvicinamento non è solo un fatto fisico (nessuna esperienza, per un essere umano, è solo fisica): è una faccenda mentale, coscienziale, se si vuole spirituale. La sua totale innaturalezza rispetto alle coordinate del nostro sistema percettivo induce uno stato di sospensione, e quasi trance, o narcosi; ci dispone in precario equilibrio psico-emotivo tra la realtà concreta e la fantasmagoria.
La gestione medico-politica delle prime “fasi” dell’epidemia di Covid-19 ha imposto un isolamento forzato (e, al contempo, un attivismo acritico, da riflesso condizionato) che ha moltiplicato, su scala globale, le occasioni di vita “in trasparenza”. Ecco cos’è la nuova ondata di cui sopra. In questa primavera 2020 il valore immuno-sistemico delle superfici diafane – che una lunga tradizione anche artistico-letteraria considera per eccellenza pure, sterili – ha avuto modo di manifestarsi a un livello immediato, primario, biologico. Alludo intanto alle giornate trascorse in quarantena da centinaia di milioni di individui che per molte settimane hanno vissuto “alla finestra”, col naso schiacciato contro lastre di vetro concepite e realizzate allo scopo di separare il fuori (la libertà, il rischio) dal dentro (la reclusione, il rifugio). Penso poi ai caschi Cpap, agli occhiali, alle visiere e agli altri dispositivi di protezione individuale e collletiva impiegati dentro e fuori le strutture e le residenze sanitarie come scudi contro il virus. Soprattutto, penso al moltiplicarsi delle barriere di plexiglass installate negli uffici pubblici e, almeno in alcuni Paesi, nei ristoranti, nei bar, nei cinema, nelle chiese (insomma, in tutti i luoghi di scambio e incontro) a scopo profilattico. Già da settimane, ad Amsterdam, si cena lungo i canali dentro piccole, romantiche serre attrezzate. Più di tutto mi ha colpito la proposta, avanzata da un’azienda italiana, di installare barriere di plexiglass sulle spiagge, in modo da isolare tra loro i bagnanti, ciascuno confinato nel proprio fazzoletto di sabbia sterile. Probabilmente l’iniziativa cadrà nel vuoto: ma è già molto significativo che sia stata concepita e vagliata come un’ipotesi credibile. Di banchi scolastici con separatori anticontagio sta parlando in queste ore la ministra dell’Istruzione. Sempre in questo torno di tempo ci è stato definitivamente chiarito, e imposto, il valore insostituibile delle tecnologie digitali, che del sogno di smaterializzazione alla base di tutte le utopie e distopie della trasparenza sono la conseguenza ultima: non esistono migliori finestre (windows…) da cui guardare il mondo, ci viene detto, di queste, e dovremmo sforzarci di ammirare un po’ più di quanto già non facciamo il mirabile strumento che ci consente di restare in contatto (stay in touch, dicono gli anglosassoni) senza avere alcun contatto. Condividere senza mischiarsi; sedurre e interdire; favorire connessioni permanenti a fronte di una disconnessione prolungata dei legami sociali, immergendo tutti e nessuno in una spettrale impalpabilità: ecco come i bit governano la vita a distanza.
Sono tutti messaggi scritti sul vetro, che dicono: troviamo il modo di combinare il diritto alla salute e i piaceri sociali con la sicurezza del singolo, il bisogno di relazione con quello di una reclusione protettiva. Facciamo un ragionevole tentativo collettivo di vivere vite private. Visti in quest’ottica, gli scenari escatologici, di apocalisse o rivoluzione, che filosofi e intellettuali hanno prospettato in queste settimane potrebbero apparire decisamente esagerati. E forse lo sono. Ma questo non ci esime dal dovere di riflettere su questi “ragionevoli tentativi” di gestione della cosa pubblica che passano per ulteriori, massicce iniezioni di ragionevolissima trasparenza. Intanto perché dovremmo ricordarci che la funzione (le pratiche concrete) non è tutto; solo nel suo combinarsi con la finzione (l’immaginario soggiacente) acquista senso, o modifica il senso che ha, in direzioni spesso imprevedibili. A quanto ci è dato vedere, e prevedere, dalla ristretta specola dell’Europa dell’inizio di giugno 2020, ciò che ci dobbiamo aspettare è una massiccia vetrinizzazione delle architetture, del design degli spazi, forse persino dei paesaggi esterni oltre che degli stessi corpi. La funzione di tali ostacoli, di tali inibitori del contatto fisico (ma non ottico, val la pena ripeterlo: la purovisibilità, tra le caratteristiche precipue della civiltà della trasparenza, è assolutamente garantita, anzi esaltata dalla correlata deprivazione di altri sensi) è palmare e, ripeto, “ragionevole”: proteggere dal contagio, ridurre i rischi che la pandemia si diffonda. La finzione che vi si legge, senza difficoltà, in filigrana, si pone in continuità con lunghi anni di immaginario distopico (quello post 11/9 in particolare – ma la foggia di alcuni oggetti, penso alle visiere, si direbbe volutamente retro, richiama la fantascienza anni Sessanta-Settanta) che in qualche modo hanno reso familiare, e in ultima istanza accettabile, oltre a una sigla sci-fi come Covid-19, l’ipotesi di una limitazione della nostra stessa fisicità (possibilità di spostamento, di relazione ecc.) e di una riconfigurazione del paesaggio sensoriale in cui siamo immersi. Del resto nell’Ottocento il sorgere dell’architettura trasparente, e penso in particolare al Crystal Palace di Londra e ai primi department store, fu accompagnato, e sostenuto, da massicce dosi di immaginario fantastico pregresso, in quel caso perlopiù euforizzante: le fiabe, i miti, le epopee cavalleresche. In sintesi: ieri come oggi, alla vetrinizzazione del mondo si accompagna una promessa di normalità insieme a una promessa di eccezionalità, entrambe ragionevolissime e a portata di mano, entrambe lunari e fantasmagoriche.
È difficile, si dice, pensare che un progetto macroimmunologico di questa portata, tale da innescare il primo vero grande fenomeno di stand-by socio-economico su scala globale dalla fine della Seconda guerra mondiale, non comporti delle trasformazioni o almeno dei cambi di passo, anche sul piano della ridefinizione degli ambienti vitali, oltre che dei grandi orientamenti psico-politici. Sì, ma in che misura e in che direzione? Per il momento non si vedono tentativi di uscire dal solco già tracciato, di abbandonare la strada che la modernità, sopravvissuta senza troppo scomporsi ai totalitarismi, a due guerre mondiali e a varie crisi economiche, ha percorso sin qui. La trasparenza è ancora e anzi sempre più il cavallo su cui la nostra civiltà – che ci ostiniamo a identificare con la civiltà, vedendo anche nella sua possibile fine la fine di ogni civiltà – intende scommettere per perpetuare se stessa. È del resto ciò che fanno tutte le società, da sempre: mirano al mantenimento dei propri equilibri interni, per quanto discutibili e precari questi possano essere. Può darsi però che l’attuale impasto di immaginario e amministrazione biopolitica, nel suo imprevedibile rimescolarsi, renda la trasparenza sempre meno disponibile a rispondere trasparentemente ai compiti che le vengono assegnati. Nel dozzinale schermo della visiera sanitaria che protegge il viso di chi ci sta davanti si coglie certo il riflesso, per moltiplicate trasparenze, del volto unico dell’epoca, ma forse sullo sfondo anche l’ombra enigmatica di quel che verrà.
La prospettiva stessa che le città diventino sempre più, e per un tempo indefinito, labirinti di superfici diafane, che la loro integrità spaziale si dissolva in un reticolo di diaframmi divisori e che il volto del nostro prossimo sia destinato a inquadrarsi, almeno nelle sue manifestazioni pubbliche, nel perimetro chiuso di visiere, parafiato, pannelli e schermi vari non sappiamo dove possa condurci. Sulla scorta del passato, e sulla base delle tendenze ideologiche in essere, possiamo provare a sollevare quattro quesiti, forse utili per riflettere su ciò che la nuova ondata di trasparenza potrebbe significare:
1) perché fatichiamo a immaginare una gestione dell’ambiente (degli ecosistemi) che non passi per una sua ulteriore compartimentazione, frammentazione, smembramento in sottounità?
La permeabilità, la continuità lineare, il transito e lo scambio incontrollati di aria e corpi sono oggi come mai in precedenza avversati e ostacolati: non è solo una questione tecnica, o medica, ma una postura mentale. L’ipotesi stessa di ingabbiare le spiagge dentro muri di plexiglass, creando delle grottesche arcadie da farsa concentrazionaria, è una dimostrazione plastica – nel doppio senso della parola – di tale orientamento. E che dire della prospettiva di classi compartimentate? Quella alla frammentazione dell’ambiente in spazi razionali finiti è una coazione cui, pare, non sappiamo sottrarci, una tendenza che la pratica della trasparenza incoraggia e moltiplica. La sorreggono massicce dosi di terrorizzato immaginario isolazionista, opportunamente controbilanciate dalla spinta uguale e contraria a sognare evasioni e fughe in spazi ininterrotti e senza limiti: esemplari in tal senso le pubblicità di automobili, scatole di vetro lanciate in corse a perdigas attraverso paesaggi sconfinati;
2) perché il proposito di incrementare muri e pareti divisorie utili a confinare l’altro (che è ormai chiunque, se la tutta la vita, persino quella del genitore, del fratello, dell’amico è potenzialmente indesiderata perché sospetta di essere inquinata, dannosa, infetta) appare tutto sommato accettabile?
Vengono alla mente gli abitanti del pianeta Solaria immaginato da Isaac Asimov: totalmente dipendenti dalla tecnologia, evitano di vedersi (seeing) preferendo visionarsi (viewing) a distanza, poiché trovano repellente l’idea stessa di condividere il medesimo ambiente, e dunque il respiro, con un altro organismo vivente. The human touch is gone, “il tocco umano è andato”, si legge in Il sole nudo (1956). Forse per noi abitanti del Ventunesimo secolo, come per i solariani di Asimov, la prospettiva di rinunciare all’altro non contrasta, anzi può ben conciliarsi, con l’imperativo irrinunciabile a oliare ulteriormente i meccanismi di circolazione del desiderio di consumo di beni e servizi, entro spazi dove solo la luce, magari artificiale, morbida e controllata, e non l’indisciplinato soffio dell’aria, possa fluire senza ostacoli. Dunque: la vita biologica con la via sbarrata; le merci in transito costante e illimitato lungo le strade del mondo, siano esse lastricate di asfalto o di pixel (il segreto osceno della vita disinfettata è il traffico di corpi che la rende possibile: autotrasportatori, corrieri, riders ecc. Per tacere naturalmente del lavoro dietro le quinte del personale medico-sanitario, di badanti, colf, operatori ecologici). Niente di più probabile che il mondo ulteriormente vetrinizzato acceleri i processi di divisione sociale in atto da tempo, ampliando le soglie che articolano e separano ciò che è dentro da ciò che è fuori, distinguendo una volta per tutte chi ha (diritto alla vita, che oggi significa soprattutto diritto alla produzione e al consumo, almeno a giudicare da alcune delle decisioni prese in questi mesi dai governi occidentali) da chi non ha (questo diritto). Il progetto al cuore del moderno, solo occasionalmente e localmente frenato da meccanismi inibitori, sembra oggi potersi realizzare con un’ampiezza e una facilità fino a poco tempo fa impensabili: e a supportarne la funzionalità c’è ancora una volta il suo correlato fantasma finzionale. La fabulazione ottimistico-consolatoria di queste settimane di pandemia (di cui si sono fatti carico, non casualmente, molti marchi commerciali), con fiumi di slogan, video, musiche e narrazioni tra il fiabesco e l’allucinato, con effusioni di pathos o gioia filtrate attraverso il vetro colorato dei media, va esattamente in questa direzione. Ci sono i pixel al posto dell’inchiostro ma siamo ancora alla buona vecchia cara idealizzazione del capitalista (ribattezzato uomo d’affari, manager, Ceo) come redentore dell’umanità…;
3) quali indicazioni dobbiamo trarre circa i futuri assetti politici dalla sempre più strisciante convinzione che sia desiderabile vivere in una società ben regolata, dove ognuno è chiamato ad agire in ragione di una volontà superiore, coartato al meglio, al giusto, al sano, entro una sorta di russoviana armonia prestabilita dell’ordine collettivo?
Non penso, per esser chiaro, al rischio di un ritorno al totalitarismo novecentesco, ma alla prospettiva di uno stato di eccezione biopolitica permanente, governato da una ratio managerial-tecnocratica policentrica e insituabile, un processo che ben prima di Foucault e dei suoi continuatori era stato antiveduto dall’“uomo-topo” di Dostoevskij. Un esito che covava già da tempo sotto le ceneri delle democrazie social-liberali, ma che la nuova ondata di vetrinizzazione del mondo potrebbe far esplodere. Sarebbe questo l’Eden: una società che aspira a essere auto-regolata, auto-moralizzata, ripulita da ogni scoria, menda, scarto dalla norma; una collettività almeno all’apparenza (in superficie: ciò che resta sommerso, fuori scena è altro discorso…) lucida liscia e luminosa (ma anche gelida e respingente, se non acuminata quando la lastra si scheggia…) come un vetro. Lo stato di eccezione di queste settimane di pandemia ha convinto molti, come mai prima d’ora era accaduto, che sia desiderabile e vantaggioso vivere in un regime di sorveglianza panottica – per via di finestra, schermo di drone o visiera tecnologicamente implementata. La vita d’alveare di questa primavera 2020 ha del resto già indotto molti ad abbracciare spontaneamente un regime di controllo reciproco: scoperchiando con occhio ingordo le intimità delle case altrui per sfogare le frustrazioni quotidiane, approvando incondizionatamente lo sviluppo di dispositivi tecnologici in grado di tracciare gli spostamenti dei cittadini, e più in generale esaltando la trasparenza come migliore e forse unico criterio di gestione della convivenza civile. Anche per questo si tende a incorniciare il mondo tramite la funzione/finzione purovisibilista: per darsi l’illusione del controllo, e in tale illusione cullarsi, e cullandosi far vista di cambiare tutto solo per non cambiare nulla;
4) sul piano del sentire collettivo, e del linguaggio che lo veicola, la prospettiva di una diffusa vetrinizzazione della vita non induce forse a rispolverare quell’intramontabile nostalgia per la restaurazione di un fantomatico equilibrio perduto (perché la nostra società è pur sempre, ancora, romantico-idealistica nelle sue linee di fondo) che è il maggior freno ad ogni ipotesi di trasformazione in senso egualitario e libertario-non-liberale, delle nostre società?
Dietro la compatta e inviolabile lastra della vita in vetrina il brulicame biologico si ferma, ma non così il virus del linguaggio, mutato ora in retorica patriottarda (la difesa del “focolare”, feroce e interessata), ora in melassa di dolciastri pensierini irenistici, ora in vuoto nichilismo massimalista. Prospera insomma nei messaggi(ni) scritti sul vetro dell’ultima tecnologia alla moda quell’intreccio di emozioni disparate, ma comunque incorniciate entro forme convenzionali, che impedisce nuove forme di coagulazione comunitaria e soffoca ogni tentativo di rifondare, su basi meno asfittiche e ottuse, la sfera dell’immaginario. Difficile in questo contesto prospettare una declinazione della trasparenza che spalanchi quei nuovi orizzonti economico-politico-creativi di cui pure una società fortemente travagliata come la nostra (cioè in oggettiva sofferenza materiale ed emotiva, comprensibilmente spaventata da scenari di privazione inimmaginabili per tutto il secondo Novecento) avrebbe disperatamente bisogno.
Quale che sia il futuro che ci attende, il fatto che si sia reagito all’emergenza facendo dilagare la trasparenza rende evidente, come mai prima d’ora, le contraddizioni non solo economiche ma addirittura biologiche ed ecosistemiche alla base delle nostre società. Nessuno scenario, per quanto fosco, ci autorizza però alla resa. Non sta scritto da nessuna parte – o, meglio, sta scritto da ogni parte, su un’infinità di schermi – che si debba capitolare di fronte allo strapotere delle funzioni, e correlate finzioni, che l’epoca ci vende come ineluttabili. Penso al Claudio Parmiggiani di Labirinto di vetri rotti (una performance del 1970 poi ripetuta nel tempo fino agli anni Duemila), al suo addentrarsi nel dedalo solo per poi calare sulle cristalline pareti di quella gabbia diafana, luminosa ma inabitabile, una pesante mazza, fino a farne una distesa di rovine trasparenti. Chi lavora per rifondare i linguaggi e l’immaginario forse sogna, ma non c’è altro modo per preparare il mondo che verrà.
Analisi magistrale per chiarezza di dettato e forza persuasiva data da un impianto di pensiero che poggia su un personale e efficace attraversamento della cultura illuministica.