di Enzo Rossi
Avrete visto questo video: una giovane donna nera si allontana di corsa da una vetrina infranta stringendo chissà cosa, e grida, apparentemente felice: “I got some stuff! I got some stuff! [ho preso della roba]”. Ecco invece un episodio meno pubblicizzato: a Minneapolis, l’epicentro delle proteste per l’assassinio di George Floyd per mano della polizia locale, un gruppo di attivisti ha occupato un albergo della catena multinazionale Sheraton e lo ha trasformato in un ostello per senzatetto, peraltro con la collaborazione dei proprietari, almeno per ora. A prima vista si tratta di episodi completamente diversi. Un saccheggio di beni di consumo non c’entra nulla con l’appropriazione di uno spazio privato per far fronte ai bisogni di persone che vivono ai margini della società. Eppure le cose non stanno proprio così. Vorrei mostrare che le due azioni—il saccheggio a fini personali e l’occupazione a scopi di assistenza ai più vulnerabili—possono essere viste come manifestazioni dello stesso fenomeno. Il fenomeno in questione è l’azione diretta contro un sistema che nega strutturalmente a moltissime persone opportunità concrete per avere uno stile di vita che il sistema stesso indica come non soltanto desiderabile, ma necessario all’integrazione sociale.
Per capire come ciò sia possibile, torniamo indietro di un paio di settimane. Prima delle proteste per la morte di George Floyd abbiamo assistito a un’altra ondata di manifestazioni negli Stati Uniti—manifestazioni meno turbolente e con motivazioni decisamente discutibili, ma non meno significative, almeno da un punto di vista antropologico. Mi riferisco alle proteste contro il lockdown per il Covid 19. Il linguaggio della libertà era il tema dominante di queste manifestazioni. Anche se a volte gli slogan scelti dai manifestanti raggiungevano vette comiche accidentali (“Abbiamo diritto a un taglio di capelli!”, o “Non annullate la mia stagione golfistica!”, per esempio), il messaggio era chiaro: nella nostra società non si è liberi se non si può andare a fare compere o affari. E sto parlando di libertà in un senso importante, importante al punto che nello stesso periodo molti cittadini (perlopiù bianchi e maschi) hanno ritenuto opportuno irrompere nelle assemblee legislative di vari stati per ricordare ai governatori (le autorità responsabili per il lockdown) che i patrioti americani sono pronti a difendere la loro libertà con tanto di costumi carnevaleschi da forze speciali trovati su eBay, e fucili d’assalto veri—e quasi altrettanto facili da ottenere.
Ammetto che qui potrebbe emergere un sospetto: chi ci dice che le pretese di libertà in questo caso sono sincere, e non un semplice strumento retorico, o addirittura frutto di semplice confusione? Senza dubbio la cultura americana è piena di equivoci più o meno intenzionali sul concetto di libertà. Sono passati quasi vent’anni dall’anno accademico che trascorsi negli Stati Uniti, eppure ricordo ancora una assurda pubblicità televisiva per uno scooter per anziani: “Giving freedom back to the free!” [Restituire la libertà ai liberi], diceva lo slogan, con tanto di aquila calva e bandiera a stelle e strisce sullo sfondo.
Tuttavia credo vi sia un nesso reale tra l’autorappresentazione degli Stati Uniti come “land of the free” [terra dei liberi] e il ruolo centrale del commercio e del consumo nella cultura americana. Di certo non mi sarà possibile classificare tutte le declinazioni del concetto di libertà nel pensiero politico, né tantomeno cercare di tracciarne le ricadute nella politica concreta, o vice versa. Il mio punto è relativamente modesto: uno degli aspetti importanti in cui l’idea di libertà gioca un ruolo nella narrativa che legittima l’ordine economico-politico americano riguarda il modo in cui i consumi rappresentano forse il principale veicolo per l’espressione di sé e la realizzazione personale. Probabilmente anche l’attaccamento alle armi da fuoco dei manifestanti anti-lockdown non è tanto una riaffermazione del diritto di portare armi riconosciuto dal Secondo Emendamento della Costituzione americana, quanto una difesa del diritto di comprare un certo tipo di gadget, per quanto letale.
Senz’altro l’archivio culturale degli USA contiene tradizioni ostili al consumismo e incentrate su altre concezioni della libertà—per esempio il puritanesimo, o l’antimaterialismo degli hippies, o lo spirito civico delle democrazie cittadine del New England—eppure dalla metà del ventesimo secolo studi storici indicano il trionfo del consumo come principale forma di partecipazione sociale. Dunque chi non consuma, e soprattutto chi non consuma perché non può, è ai margini della società, ben più di chi non vota (l’astensionismo rimane altissimo negli Stati Uniti, per non parlare dell’indifferenza verso la soppressione del voto dei detenuti e degli Afroamericani).
Ora cerchiamo di applicare queste considerazioni al nostro paragone iniziale tra saccheggio e occupazione a fini di assistenza ai più vulnerabili. Il passo è breve. Qui non è né necessario né possibile descrivere gli intricati meccanismi che hanno riempito il vaso che l’assassinio di George Floyd ha fatto traboccare. Possiamo semplicemente osservare che il capitalismo americano rimane una promessa non mantenuta per milioni di persone strutturalmente escluse dalla partecipazione alla società dei consumi, o comunque severamente limitate nelle loro possibilità di partecipazione. Da questo punto di vista i senzatetto e le minoranze etniche urbane possono essere considerati esempi tra i più tipici dell’esclusione sociale—una misura non soltanto della povertà assoluta e relativa di questi gruppi, ma soprattutto della sistematica riduzione delle loro capacità di condurre il tipo di vita che la società ritiene normale e che, come abbiamo visto, prevede l’avere fissa dimora, ma anche l’accumulo di beni di consumo. Ecco: la giovane saccheggiatrice e gli ex senzatetto dell’ex albergo Sheraton hanno semplicemente deciso di cercare di rimediare alla propria esclusione sociale con l’azione diretta—una strategia politica tornata al centro della resistenza all’ordine capitalista dalla fine del secolo scorso.
Se la mia argomentazione funziona, una morale un po’ più ampia della storia potrebbe essere questa. Dobbiamo diffidare delle nozioni di senso comune quali “proprietà privata” o “saccheggio”, perlomeno quando vengono impiegate per condannare categoricamente azioni insorgenti, ossia azioni che chiamano in questione la legittimità di un ordine costituito—soprattutto quando quest’ordine è capitalista, e quindi fondato proprio sul connubio tra il monopolio della violenza da parte dello stato e la proprietà privata come chiave di volta dell’organizzazione sociale. Ciò che sembra senso comune è spesso una distorsione ideologica a favore dello status quo. L’azione diretta, sia nelle sue forme rudimentali, sia in complesse manifestazioni di politica prefigurativa, ci può aiutare a strappare il velo dell’ideologia, e quindi a spostare l’orizzonte di ciò che è socialmente desiderabile, o perfino possibile.
È un articolo,duro, graffiante: finalmente! Con limpida argomentazione , osa percorsi e nomina categorie, luoghi con indirizzi e finalità necessarie. Almeno ,in teoria,una boccata di ossigeno. Grazie.