di Giovanni Accardo
[Quinta puntata del Diario della distanza di Giovanni Accardo, sulla scuola e la didattica a distanza. Le puntate precedenti sono leggibili qui: 1 – 2 – 3 – 4].
Mi telefona la collega e cara amica Roberta, in lacrime: suo figlio Claudio, primo anno in un istituto tecnico economico, è insufficiente in tutte le materie.
«Lo capisci?», ripete tra i singhiozzi, «Insufficiente in tutte le materie.»
«Quando l’hai saputo?»
«Due ore fa. Mi ha convocato in videoconferenza il coordinatore di classe e mi sono trovata davanti tutti gli insegnanti. È stato orribile! Una mortificazione mai provata.»
«E come te lo spieghi, non studia?»
«Lo sai che non è mai stato particolarmente studioso, ma non da essere insufficiente in tutte le materie.»
«Non ti eri accorta che andava male?»
«Ma come mi dovevo accorgere? Da due mesi passo le giornate on-line, a fare collegamenti video, a chattare con i miei studenti, a mandare files e link, a preparare lezioni. Ho sei classi. Quando la sera vado a letto, sono praticamente svenuta.»
«Quindi negli ultimi mesi non hai controllato nel registro elettronico.»
«No, non l’ho controllato. Mi viene da vomitare all’idea di passare altro tempo on-line. Ma dovevano avvisarmi il 18 maggio? Ora come può recuperare?»
«E il tuo ex marito, visto che fa un altro mestiere, non controlla neanche lui il registro?»
«Ma figurati, quello si occupa dei figli solo per mettermeli contro. Da quando ci siamo separati non ha mai parlato con un insegnante, è da tre anni che deve ritirare la password per il registro elettronico.»
«Forse è arrivato il momento di coinvolgerlo.»
«Non ci penso neppure, non perderebbe l’occasione per darmi addosso, per dirmi che non sono capace di fare la madre. L’ultima volta che ci siamo sentiti, mi ha minacciato di chiedere una perizia psichiatrica, mentre il pazzo è lui.»
«E Linda?»
«Lei non ha problemi, è sempre stata brava e responsabile. Pensa che Claudio ha detto ai suoi insegnanti che aveva la webcam rotta, così teneva il video spento e durante le lezioni si faceva i fatti suoi.»
«Passerà l’estate a studiare per recuperare quello che non ha fatto.»
«Cavoli suoi. E di suo padre. Io me ne vado al mare, sono sfinita! Non voglio nemmeno portarmi dietro il telefono: sino alla fine di agosto nessuno deve parlarmi di chat, messaggi, piattaforme o didattica a distanza. Né a distanza e né in presenza!»
«All’inizio non pensavo che questa malattia causata dal COVID-19, di cui si sentiva parlare continuamente nei telegiornali, si sarebbe potuta evolvere in una situazione del genere. Poi siamo rimasti a casa da scuola, il che inizialmente ci ha fatto solo piacere; infatti sia io che i miei compagni eravamo contenti di saltare le lezioni, pensando di vivere una vacanza non prevista. Però, i giorni passavano, poi le settimane, i mesi e ora addirittura si discute su come riprendere la scuola a settembre. Col prolungarsi del tempo dello “stare a casa” è aumentata anche la mia preoccupazione: al telegiornale si apprendevano ogni giorno notizie sull’aumento degli infetti, sulle migliaia di morti e gli ospedali che non erano in grado di gestire un tale flusso di malati.
Tutte queste notizie, unite al fatto che le persone si barricavano in casa, rappresentavano una situazione assolutamente nuova. Né i miei genitori né i miei nonni avevano mai vissuto un’esperienza simile, cioè una pandemia.
Sinceramente, benché preoccupato, a casa mi sono sentito molto protetto e non mi sono mai agitato più di tanto. Ora però mi mancano le lezioni frontali, la presenza fisica in classe dei professori (di quasi tutti) che ci spiegano, raccontano, sorridono, si arrabbiano. Così è molto diverso. Quello che non mi manca, invece, è l’atmosfera della classe, dei compagni tutti insieme che parlano in continuazione, rumoreggiano, impediscono la concentrazione, che per me è sempre difficile. Questo problema lo vivo dall’inizio della scuola media, ma forse non ho memoria del periodo scolastico precedente.
Nel resto della giornata, finite le lezioni online, il mio modo di passare il tempo non si è modificato molto, dato che, a differenza dei miei compagni, non ho relazioni di amicizia e affettive al di fuori della famiglia. Sono stato in casa, come sempre, occupato con i compiti e nel tempo libero con i video, poi con i miei familiari e miei nonni, con i quali purtroppo i rapporti sono avvenuti solo via web.
Chiuso tutto il giorno tra quattro mura, mi è mancato anche lo sfogo fisico, soprattutto il corso di tennis in piccolo gruppo che stavo seguendo con progressi e con molto piacere. E penso che in futuro, se la situazione rimarrà così incerta, mi mancherà anche il nuoto, che adoro, sia nel mare che in piscina. Come si potranno evitare gli affollamenti?
Unico lato positivo: l’aria nelle città è diventata più pulita con la riduzione del traffico, tanto che gli animali selvatici ormai si arrischiano a girare per i centri abitati. Speriamo che nel dopo pandemia, se ci si arriverà, i cittadini e le istituzioni ripensino la produzione e tutto il sistema economico, tenendo conto dell’inquinamento e dell’ambiente che dobbiamo proteggere.»
[Milo]
«Scusi prof, ma col viaggio in Bosnia come faremo?»
La domanda è di Giada, la rappresentante di classe della quarta. Insieme a un’altra quarta del liceo avevamo programmato un viaggio a Sarajevo, Tuzla e Srebrenica, nei luoghi della guerra fratricida degli anni ’90 e del genocidio che si è consumato nel mese di luglio del 1995 ad opera dei serbi guidati dal generale Mladic. Abbiamo già accompagnato altre classi negli anni passati ed è sempre stata un’esperienza molto utile e emotivamente intensa. Il viaggio prevede un’accurata preparazione storica e anche psicologica, visto che l’impatto emotivo è molto forte, soprattutto quando si va a visitare l’ex base dei caschi blu di Potocari, alle porte di Srebrenica, dove i musulmani di Bosnia avevano cercato riparo e aiuto e dove ora c’è il Memoriale che attraverso un video molto angosciante, costruito con immagini originali, racconta cos’è accaduto.
«Purtroppo non possiamo prevedere nulla. Certamente non potremo andarci a ottobre, come avevamo programmato, forse o spostiamo alla primavera.»
«Ma l’altra classe sta facendo la preparazione on-line.»
La preparazione è curata ad un ex collaboratore della Fondazione Langer di Bolzano che per anni ha seguito i progetti con la Bosnia e ha accompagnato studenti da tutta Italia, dandogli la possibilità di incontrare il generale Djviak, che ha guidato la difesa di Sarajevo durante i quasi quattrocento giorni di assedio, la psichiatra Irfanka Pasagic, che si è occupata delle donne vittime di stupro etnico e degli orfani che ne sono nati, e poi i testimoni del genocidio di Srebrenica e i membri dell’associazione che da anni tenta di ricostruire una convivenza tra serbi e musulmani. A Srebrenica si dorme a casa delle famiglie che hanno accettato di far parte della rete di ospitalità ed è un modo per fargli guadagnare una piccola somma, in cambio del pernottamento e della prima colazione, e anche per portare un po’ di vita in una città solitamente deserta e desolata.
«L’altra classe aveva cominciato prima della quarantena ed erano già avanti con la preparazione, mentre noi, se ricordate, dovevamo cominciare proprio nella settimana in cui hanno chiuso la scuola.»
«Pensa che riusciremo ad andarci?»
«Non lo so, bisognerà aspettare settembre per decidere. Nel caso possiamo andare a Corleone, dove due anni fa ho portato una classe per fare un viaggio nei luoghi della mafia, incontrando diversi importanti testimoni: la nipote di Peppino Impastato, l’ex autista del giudice Chinnici e collaboratore di Falcone e Borsellino, i responsabili dei campi della legalità che coltivano le terre sequestrate ai mafiosi, siamo stati a Portella della Ginestra. Forse sarà più facile andare in Sicilia e vi assicuro che è un viaggio altrettanto interessante. Insomma, qualcosa certamente faremo, si tratta solo di ritornare a scuola.»
«Durante questa quarantena ho provato diverse emozioni. Nei primi giorni, nonostante non potessi vedere i miei amici, uscire o giocare a calcio, sono stato quasi contento di questa situazione. All’inizio ci era stato detto che sarebbe durata solo una settimana e poi tutto sarebbe tornato come prima; non ci credevo molto in realtà, ma non ci ho fatto caso. Quando la quarantena è stata prolungata e abbiamo iniziato a fare le video lezioni da casa, ero ancora convinto che quella situazione, dopotutto, non fosse così male e che sarei riuscito a resistere. Mai avrei pensato, però, di dover rimanere chiuso in casa per due mesi. Andando avanti, le giornate hanno iniziato a diventare sempre più lunghe e noiose, sembrava non finissero mai, tutti i giorni la stessa routine. Dopo un po’ anche stare con i miei genitori diventava sempre più noioso. Non si avevano più argomenti di conversazione, a nessuno succedeva mai niente di nuovo, perché nessuno faceva nulla oltre alla scuola o al lavoro. Una delle cose di cui ho sentito e sento ancora la mancanza è l’ambiente scolastico. Non avrei mai pensato di dirlo, ma mi manca la scuola. Mi manca parlare, ridere e scherzare con i miei compagni, girovagare per la scuola, uscire dall’aula a ogni cambio dell’ora anche solo per fare due passi. Può sembrare strano ma la scuola, ora che si può uscire e vedere gli amici, è una delle poche cose che ancora mi mancano. La vita di tutti sta pian piano ricominciando, si può uscire, anche se con le mascherine, si possono rivedere amici e parenti, anche se pochi per volta, i negozi stanno pian piano riaprendo, la normalità, per quanto possibile, sta ritornando. Ma gli studenti non potranno tornare alla loro normalità perché la scuola non verrà riaperta, i corridoi e le aule continueranno a restare deserti e le lezioni continueranno a essere svolte da casa. Penso però che questa quarantena non sia stata solo una situazione del tutto negativa. Grazie a essa ho potuto capire quali sono realmente le cose e le persone importanti, a cosa dare importanza e cosa in realtà è quello che non conta. Spesso mi sono sentito solo e ho pensato alla fortuna che ho nell’avere amici con cui uscire, con cui parlare e confidarmi.»
[Alessandro]
«Scusi prof, io non ho capito una cosa per il prossimo anno. Dicono che metà studenti staranno in classe e metà a casa. Giusto?»
«Sembra l’ipotesi più accreditata.»
«Ma ci alterneremo o chi starà a casa ci resterà per tutto l’anno?»
«Non so cosa rispondere, però presumo che vi alternerete, magari ogni settimana. Lo scopriremo quando il comitato di esperti nominati dalla ministra avrà deciso.»
«Io invece non ho capito un’altra cosa», chiede Sofia. «Se metà di noi saranno a casa e metà in classe, l’insegnante con chi interagisce?»
«Bella domanda! Non lo so, bisognerà capire come si pensa di fare tecnicamente. Ci sarà una telecamera in aula, ce ne saranno due? Il collegamento avverrà attraverso un computer portatile posizionato sulla cattedra? Non si sa.»
«Pensi alle maestre delle scuole elementari», si aggiunge Lorenzo, «come faranno a mantenere la disciplina in classe e contemporaneamente rivolgersi ai bambini che sono in collegamento?»
«Da quello che ho letto, il sistema misto, o blended, come lo chiamano gli esperti, perché un esperto deve esprimersi con abbondanza di termini in inglese. Dicevo, il sistema misto sarà applicato solo alle scuole superiori, anche perché non si può pensare di lasciare i bambini da soli a casa davanti a un computer.»
«A me sta salendo l’ansia», dice Sara.
«Perché?»
«Ma perché non voglio restare un altro anno a casa, anche solo una settimana sì e una no. Io faccio fatica a seguire le lezioni dal telefono, veramente non ne posso più, mi è passata la voglia di studiare.»
«Sara, siamo tutti stanchi e tutti desiderosi di ritornare alla nostre vite precedenti, anche perché la scuola non si po’ ridurre solo alle lezioni e alle metodologie, la scuola è una comunità di persone che si incontrano, si scontrano, si confrontano, sperimentano relazioni, imparano a convivere, a collaborare. Insomma, magari vi sembrerà una banalità, ma è un allenamento per la vita, un luogo essenziale per la crescita. Non a caso fino a qualche anno fa l’esame di quinta si chiamava di maturità, perché si credeva che dopo tredici anni di scuola si potesse raggiungere la maturità ed entrare nella vita adulta, rappresentata dal passaggio all’università o l’ingresso nel mondo del lavoro.»
«Un rito di passaggio», dice Lorenzo.
«Ma sì, chiamiamolo pure rito di passaggio.»
«La mia quarantena è difficile da spiegare. L’ultima cosa che avrei desiderato era di rimanere chiusa in casa con entrambi i miei genitori. Casa mia è sempre stato il mio ambiente e l’ho sempre preferita a qualsiasi posto all’aperto. Eppure, restare chiusa qua dentro è stato un incubo, oltre ad essere stato noioso e triste sia dal punto di vista famigliare che scolastico. È stato pesante, molto più di qualunque periodo scolastico. Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati a non dover andare a scuola, a non poter uscire di casa. Forse tutti si aspettano che a casa abbiamo un computer, una buona connessione internet, una stanza luminosa e silenziosa. Nessuno si è fermato neanche un momento a pensare che in realtà non era così, perciò se provavi a dire che il tuo collegamento non funzionava o che non avevi stanze silenziose, finivi per diventare quello che saltava le lezioni, e questo non ha fatto altro che rendere il peso sulle nostre spalle ancora più pesante.
Tutti credono che per noi sia bello restare a casa e non dover andare a scuola, ma tutti si fermano sempre all’aspetto superficiale. Molti di noi hanno passato i loro compleanni chiusi in casa, anche il diciottesimo, cioè giorni che dovrebbero essere pieni di gioia, di allegria e di amici sono stati invece riempiti da tristezza e solitudine. Io, onestamente, penso di aver vissuto uno dei periodi più brutti tra tutti quelli che possa mai ricordare. Per me stare chiusa in casa non è mai stato un grande problema ma la quantità di responsabilità e impegni che mi sono stati addossati, non solo dalla scuola ma anche dalla mia famiglia, ha reso questo un periodo buio. Per non parlare dei miei genitori, che trovano ogni minima ragione per aprire una discussione e mi tocca dovermeli subire tutto il santissimo giorno. A volte sento i professori e anche mia madre dirmi cosa devo fare, perché tanto non ho nulla da fare, e io lo trovo il ragionamento meno sensato su questo pianeta. La mia libertà è stata già limitata e voi cercate di limitarla ancora di più perché non ho nulla da fare? Le cose da fare invece le ho avute, per esempio pensare a mio nonno che da dieci mesi combatte con la leucemia e mia madre ha dovuto passare un mese intero in un appartamento sola con lui. Tutte le responsabilità che prima erano sue, improvvisamente sono state buttate addosso a me, perché ero quella grande. L’idea che qualcuno pensi che i miei problemi spariscano o si affievoliscano solo perché sono chiusa in casa, mi fa pensare a quanto sia ingiusta questa situazione. Nonostante sia la cosa più giusta da fare e lo sappiamo tutti, altrimenti il virus non sparirà mai, ma ciò non rende questa situazione più facile da sopportare. Insomma questa quarantena emotivamente è stata molto difficile, le uniche persone che avevo erano i miei amici, non avendo nessun tipo di parente che vive in questa regione. Certo, sono sopravvissuta eppure non ho vissuto per niente e sono sempre stata dell’idea che la vita dovrebbe essere molto più della sola sopravvivenza.»
[Giulia]
Nel comitato di esperti nominato dalla ministra Azzolina non c’è nessun insegnante, non sono stati sentiti gli studenti né i genitori. Però ci sono manager ed economisti, architetti e professori universitari, ma nessuno che viva quotidianamente la scuola, che conosca spazi e dinamiche relazionali, nessuno che abbia idea di cosa significhi avere in un’aula trenta studenti stipati uno di fianco all’altro. Esperti teorici di apprendimento, come quel sociologo, professore di una illustre università milanese, che durante un corso di aggiornamento, dopo due ore di teorie e definizioni, si è fermato e ci ha chiesto quanti anni avevano i nostri studenti.
E poi la discussione è dominata unicamente dal digitale, come se la scuola fosse soltanto un problema di tecnologie e non di relazioni. Se in un processo di apprendimento togli la relazione, cosa resta? Il digitale è solo uno strumento integrativo, un supporto, ma da una parte c’è uno studente da motivare e da appassionare, dall’altra un insegnante col suo sapere e le sue metodologie. Due esseri umani che devono entrare in relazione. Se non scatta una relazione positiva, un rapporto di fiducia, non scatta l’apprendimento. Abbiamo sperimentato tutti l’antipatia per un insegnante e abbiamo anche sperimentato che non era la materia – la storia, l’inglese o la matematica – a non piacerci, ma l’insegnante; e questo l’abbiamo scoperto quando è arrivato un altro insegnante al posto del precedente e per varie ragioni: un diverso carattere, un altro lessico, una maggiore empatia. È una delle ragioni per cui il test Invalsi non può avere alcun significato valutativo affidabile, perché manca la componente affettiva verso una prova che gli studenti sentono estranea alla loro quotidianità, una prova fredda calata dall’alto. E poi molto ci sarebbe da dire sulla pretesa di valutare oggettivamente uno studente, ignorando i fattori di interferenza e gli aspetti non cognitivi, per esempio quelli emotivi o sociali.
«Sono una ragazza che ha il bisogno costante di attenzioni e dimostrazioni di affetto, perciò questa quarantena è stata davvero difficile. Tutto si è fermato, da un giorno all’altro tutti hanno bloccato le loro vite e si sono rinchiusi in casa. Io sono stata in camera per quasi tutti il tempo, ho avuto molte crisi, mi sentivo in trappola e non resistevo più alla costante oppressione dei miei genitori. Ogni sera a cena si parlava solo dei morti e di tutto quello che ha comportato il virus. Ogni giorno i dati peggioravano, perciò ogni città ha chiuso negozi, bar e discoteche, fino a che non c’era più nessuno in giro. Io uscivo con il cane appena mi si presentava l’occasione, perché avevo bisogno di muovermi e di pensare ad altro. Dopo settimane di questa vita, mi sono resa conto di quanto fosse cambiato l’ambiente di tutti i giorni: si respirava meglio e finalmente non si sentiva più il rumore del traffico o di tutte le persone nelle piazze. Con la quarantena il mondo ha iniziato a diventare un posto migliore. Sono sicura però che l’uomo, una volta finita questa situazione, continuerà a ritornare alle brutte abitudini di prima, scordandosi di come era bello il mondo quando eravamo chiusi in casa. All’inizio mi sentivo l’unica sopravvissuta in un mondo deserto, dove al massimo incrociavo lo sguardo diffidente di chi come me era uscito con il cane o a fare la spesa. La cosa più difficile per me, però, è stata rimanere a casa da sola perché sono una persona che ha paura di stare da sola; eppure in questa quarantena piano piano ho imparato a starci. Ogni sera facevo videochiamate con i miei amici, parlando del niente per ore, giusto per tenerci compagnia, ma dopo un po’ nessuno sapeva più che cosa raccontare. Gli argomenti principali erano diventate le lezioni online: all’inizio non ne volevo sapere di fare scuola, perché non avevo ancora capito la gravità della situazione e vedevo la quarantena come una pausa da tutto, ma poi ero felice di occuparmi in qualche modo le giornate. Purtroppo con il passare delle settimane le lezioni hanno cominciato ad essere più pesanti di quello che tutti ci aspettavamo. Non avrei mai pensato di dirlo, ma la scuola mi manca molto. Questa quarantena è stata utile perché ho avuto tanto tempo per me stessa e per pensare. Ho davvero pensato tanto: ho pensato alle amicizie passate, a come migliorare la visione di me stessa, a tutti i miei parenti e amici, ma più di tutti alla mia migliore amica. Lei è morta circa due anni fa per via di un cancro alle ossa del ginocchio che poi si è diffuso ai polmoni. Dopo le prime sedute di chemio doveva stare settimane chiusa in casa perché aveva le difese immunitarie molto basse e rischiava di ammalarsi. Anche se non è per niente la stessa cosa, adesso posso capire come si sentiva 24 ore su 24 chiusa nelle stesse pareti. Vorrei che fosse con me adesso per aiutarmi durante le mie “crisi”, come faceva durante le nostre telefonate infinite. È molto brutto andare a letto e sapere che il giorno dopo ti aspetta la stessa noiosa giornata, quando poco tempo prima andavi a letto felice, pensando alle giornate trascorse con gli amici. Ho deciso perciò di scrivere una lista delle cose che dovevo fare durante la quarantena e l’ho chiamata “Arresti domiciliari”. Era un modo per smetterla di deprimermi e far diventare prezioso il tempo che avevo a disposizione. Le giornate sembravano meno lunghe e un po’ più divertenti con tutte le cose che avevo segnato sulla lista. Ho fatto di tutto: dal giardinaggio alla cucina, dalla pulizia all’allenamento, dalla ristrutturazione della mia camera al tenere un diario. Un giorno, proprio mentre mi stavo allenando in balcone, ho sentito mia mamma parlare con mio padre e, visto che non so farmi gli affari miei, mi sono messa in mezzo e mi hanno detto che il nonno era finito all’ospedale. Il mio sorriso curioso è diventato una linea dura e dritta sul mio viso stupito e spaventato. Mio nonno aveva avuto un ictus mesi fa ed era ricoverato in una casa di riposo, gli era venuta la febbre alta e aveva iniziato a sputare sangue. Non avevamo notizie perché non potevamo vederlo, potevamo solo sperare, ed è quello che tutta la famiglia ha fatto in quei giorni. Ero spaventata non per la sua morte, perché non avrei potuto abbracciarlo per l’ultima volta. Per fortuna ci hanno comunicato che era risultato negativo al tampone per il coronavirus e quindi presto è potuto tornare nella casa di riposo. Questo spiacevole episodio mi ha fatto capire quanto siano importanti le persone e soprattutto quanto sia importante stare vicino a loro. Non riesco neanche a immaginare il dolore di chi ha perso una persona cara in questo periodo.
Una cosa molto significativa che porterò con me dopo questa esperienza, è il modo diverso di pensare della gente: tutti noi abbiamo rivalutato l’importanza e il significato del tempo, abbiamo rivalutato anche l’importanza di avere qualcuno accanto. Spero con tutta me stessa che questa situazione finisca e che possiamo tornare a vivere la nostra vita senza più paura di uscire di casa.»
[Camilla]
Stamattina ho incontrato un mio amico che da qualche anno è diventato dirigente scolastico. Ci siamo salutati a distanza, ovviamente, e altrettanto ovviamente la conversazione è finita sulla DaD. È sempre stato appassionato delle nuove tecnologie, già da insegnante usava le piattaforme, disdegnando i libri di testo e caricando lui i materiali didattici per gli studenti. Multimediale da sempre, è stato da lui che per la prima volta ho sentito parlare di ipertesto, senza peraltro capirci molto. È stato lui, nel 2001, quando già in tanti usavano l’e-mail, a farmi aprire la mia prima casella di posta elettronica, anzi, me l’ha aperta lui e mi ha spiegato come funzionava. Temevo di trovarmi davanti uno di quelli – pochi, per fortuna – che si è fatto travolgere dall’entusiasmo per questa esperienza di vita on-line, per la bellezza del virtuale che tutto sommato non è poi così tanto male. Io, al contrario, sto progressivamente maturando una crescente insofferenza, non tanto per il digitale, sebbene sia uno di quei lettori che hanno tentato un timido approccio con l’ebook, ritornando rapidamente alla carta. Recenti studi dimostrano che sullo schermo si legge più lentamente e si ricorda meno. Le persone hanno bisogno di sentire la carta mentre leggono, sembra che sia il cervello a chiederlo inconsciamente, è una questione di circuiti neuronali che da millenni sono abituati alla scrittura e alla lettura fisica. L’insofferenza, dicevo, è per questa vita mutilata, più che per il digitale, per questa finzione di vita e per la paura che lentamente la sta perimetrando.
Ma ritorniamo al mio amico dirigente. Temevo che cominciasse a esaltare il digitale, invece, da persona intelligente e sensibile qual è, ha parlato con dolore della scuola vuota, senza studenti e insegnanti.
«Hai presente la poesia di Ungaretti I fiumi?»
«Ho presente, certo.»
«Quando dice che la dolina in cui si trova ha il languore di un circo prima e dopo lo spettacolo?»
«Sì.»
«Ecco, mi sembra così la scuola a distanza, come un circo senza il pubblico. Un vuoto che mi prende allo stomaco. Una tristezza intollerabile.»
Condivido, sulla mia pagina facebook. Molto belli (e utili, anche se questo è un aggettivo che non mi piace) questi Diari della distanza.
Vi leggo sempre con piacere