[Pubblichiamo una scelta di testi, preceduti da un saggio di Patrizia Vicinelli, dal volume Poesie infantili e giovanili (1937-1960). Opere poetiche I, di Corrado Costa, a cura di Chiara Portesine, che esce oggi per Argolibri come primo volume della collana “Costiana”, con la collaborazione dell’archivio Panizzi, dedicata alle opere poetiche complete dell’autore].
CORRADO COSTA. «IL LUOGO DELLA POESIA TORNA SEMPRE FUORI, ANCHE SE IL POETA E’ SENZA LUOGO»*
di Patrizia Vicinelli
Quattro teatri che si affacciano insieme su un’unica meravigliosa piazza–conchiglia, cuore di Reggio, sua eterea emanazione culturale, stanno a indicare quanto questa città sia attenta a ogni espressione artistica. Vi si appoggiano infatti il teatro dell’Orologio, il Valli, L’Ariosto – Ludovico proprio a Reggio ebbe i natali –, e il neo Cavallerizza, da poco inaugurato e prestigioso fiore all’occhiello dei reggiani, sempre inclini, con malizia, a competizioni culturali e a primati qualitativi. Indubbiamente, non è facile discutere il livello delle produzioni nel settore lirico di una città come Parma, che nobilmente detiene il “topos”, designato come l’analogo dell’off–Broadway americano, ma che risiede in Italia, appunto.
Questo presupposto della piccola città come sede delle prove generali di uno spettacolo destinato alle grandi città, viene suffragato dal tacito assenso di tutti gli operatori del settore, e dagli estimatori di quel pubblico di fine “orecchio” che fischia irato quando dissente, e applaude rapito quando acconsente. In questo contesto di soavi competenze, di piazze sognate e trasfigurate, in questo piccolo gioiello scenografico dove si bilanciano voluttuose le arti fra antagonismi e rivalità emiliane, approda Corrado Costa, ermeneuta e argonauta silenzioso, abitante dell’oasi d’oro della permuta necessaria nel fare poetico. Reggio, la città, è il “contatto” di Costa, il suo punto di riferimento per la cultura e per i rapporti interpersonali con altri intellettuali: lui è nato in un paese sull’Enza, piccolo fiume che divide Mulino di Bazzano, luogo natale, da Selva Piana, cinque chilometri di distanza fra due paesi uno di fronte all’altro. Se al Mulino di Bazzano abitò in seguito per dieci anni il compianto Adriano Spatola – grande amico di Costa e lui stesso poeta –, a Selva Piana stazionò Petrarca, che vi soggiornò per scrivervi l’Africa, famoso poema in esametri latini, che oggi, del resto, nessuno vuole più leggere.
La differenza sta nel fatto che Petrarca c’è andato, a Selva Piana, e Costa c’è nato, se si vuole arrivare alla definizione della circostanza del luogo, dell’origine, della radice. Quel luogo è radice di ogni lussuria creativa, l’ospizio di poeti che si rimirano l’un l’altro al di là delle fluttuazioni del tempo storico, in cui Costa immagina dalla sua casa Petrarca scrittore di esametri, e Petrarca sa che qualcuno dopo di lui in quelle terre avrà cuore per scrivere altri versi. Una connotazione ambientale necessaria alla formulazione dell’opera, fiumi silenziosi, alberi incontaminati, silenzio e natura selvaggia come vastità. Costa fin dall’inizio – cominciò a scrivere a otto anni, complice una madre amante della poesia –, trovò nell’humus della terra la sua connessione ideale; in seguito ricostruì i miti ideali di una natura in cui l’uomo riconosce la propria forza antagonista, e diviene consapevole del rapporto natura–uomo in modo razionalistico, logico, mai estatico: una presa di coscienza che somiglia più ai dati della misura dell’uomo, che non dell’uomo al centro della natura. «Il luogo della poesia torna sempre fuori, anche se il poeta è senza luogo», dice Costa. È il poeta a scegliere il territorio della sua nascita. A volte coincide, a volte no; per quanto il fascino della valenza geografica, della suspence ricordo nella psiche che il contatto col mondo viene a formare, poco a poco quel modello e quell’ansia dell’ideazione sublime dipendono dalla grandiosità dell’ambiente, o anche dalla sua miseria. In ogni caso, ogni scrittore cerca nella propria origine trascesa la radice che più profondamente corrisponde a una specularità territoriale.
Un sogno maldestro nell’enfasi dell’arcaico confine degli archetipi, una natura sempre contaminata dalla coscienza, dalla quale scaturisce la tremenda pietà, quella dell’io sono qui, ed ora. L’incontro con Antonin Artaud contribuì ad accendere il fuoco metafisico e diluì in un’estasi problematica le valenze dubbiose di Costa, interprete di una realtà dissimile e troppo dissimulata. Artaud poneva col suo delirio e col suo amore nomade per altri territori, i confini astratti di un luogo presunto, come impossibile da raggiungere e da definire. Così in Messico, gli schemi della memoria aizzano contesti e acutizzano i contrasti delle ombre, per un Artaud che poi infiacchisce alla luce di quegli dèi creatori della sua Marsiglia in cui accade la sua ferita, ma è il francese la lingua, il contatto terrestre, il confine. Fu solo per un incontro fortunato che Costa giovane ebbe la possibilità di leggere autori francesi. Perché una coetanea di lingua francese lo aiutava nella comprensione della lingua. Quando si trovò fra le mani un libro dei surrealisti, uno di Artaud appunto, Éluard, Reverdy, Costa ne rimane rapito, ravi, direbbero i francesi, al punto da rimanere influenzato e “choccato” dalla cultura francese. Le primissime raccolte di poesia sottoposte alla valutazione di intellettuali locali, nonché a vari concorsi di poesia, diedero scarsi esiti, dato che il surrealismo era considerato come un fatto già accaduto, e le poesie del nostro erano collocabili per l’appunto in un filone cosiddetto neo–surrealista. Senza considerare che negli anni Cinquanta nasceva in parallelo un movimento di pensiero come il realismo: dunque, doppiamente fuori tempo, il nostro Corrado! Per la prima edizione del suo Pseudobaudelaire dovrà aspettare il ’64, editore Scheiwiller, nella famosa raccolta “All’insegna del pesce d’oro”. In seguito, molto tempo dopo, pubblica con la Geiger di Adriano Spatola Le nostre posizioni (1972) e, prima, con Raboni, art director della Guanda, non riesce a pubblicare una raccolta di poesie dal titolo Tutti i films di Corrado Costa, che nel frattempo tuttavia esce in inglese col testo a fronte in America, con grande successo (1983, Red Hill Press, Los Angeles, San Francisco).
Da vent’anni circa l’attività di Costa è instancabile, progetta testi teatrali e li realizza – l’ultimo spettacolo di grande risonanza è stato allestito al teatro Ducale di Parma, durante il festival “Di versi In versi” (1988) –, pubblica libri in collaborazione con differenti artisti, Parmiggiani, Xerra, Agnetti, Baruchello, fra i pittori; Emilio Villa e Nanni Balestrini, fra i poeti. Nei suoi molteplici aspetti di poeta, scrittore di teatro, saggista, vignettista satirico, ironico poeta visivo – i primi collages con carta di giornale, risalgono agli anni del Costa adolescente – non v’è dubbio di interpretazione: è una prorompente, gigantesca energia creativa che tenta da varie parti di raggiungere la sua fonte, quella che faccia emergere il potenziale espressivo che ardentemente si mischia in ogni attività. Dice Costa di essere contento della sua emilianità, perché a quella appartengono personaggi come l’Ariosto, il Boiardo, alcuni eretici; questo, per sottolineare come nella Garfagnana ci si mischia, nel tourbillon delle spade e dei comandi, nella cortigianeria dei palazzi, come adepti coltissimi, dunque un mestiere altro, in parallelo, senza sensi di colpa: citando anche Kafka, se occorresse, per indicare la trasmutazione etica che avvolge il poeta, artefice comunque del proprio essere nel mondo, in ogni realtà. Dunque, per Costa è qualcosa di chimico, che in questo caso – lui esercita la professione di avvocato – trasforma quella sapienza di vita espressa brutalmente dai suoi perseguiti, traducendola linguisticamente in modo appropriato, acciocché ai giudici sembri oro. Lavoro semantico, questo, di Costa, che per primo arricchisce lui stesso: si potrebbe definirlo un trasformismo sociale indotto. Un tipo così, un poeta così, poteva nascere solo all’ombra della piazza dei teatri, quella dei “Martiri del 7 Luglio”, o nei caffè della piazza San Prospero, quella attigua al Municipio, una delle più piccole, invasa da leoni cerchiati che stanno fermi solo perché sono di pietra, e se girovaghi da adepto, da piccolo ragazzo col cuore in mano, come girano i poeti, non puoi altro che aspettarti di incorrere, di incorrervi.
*Articolo che apre il volume. Apparso per la prima volta in “Incontri 2000. Mensile di Bologna e dell’Emilia Romagna”, III, 5, maggio 1989.
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Lo scrigno (1937-1947)
Sulle rive[1]
Sulle rive di fiumi sconosciuti
sta un barcaiolo all’ombra della sua barca nera
e l’onda s’abbandona sopra i greti muti
mentre tra nebbie fluttua luna leggera.
Pure noi varcheremo legati a mondi perduti
le mani abbandonate sulla stanca ringhiera
e fermo sul timone il tristo uomo, seduti
ci fisserà sul cuore con occhiaia severa.
Di là errano ombre i violati profeti
sui prati che non fioriranno col sole
e abbandonano nuda agli sguardi indiscreti
la maestà che mistero non vuole.
Di là noi erreremo peccaminosi asceti
perduta questa messe e le morte parole.
Ombre di vivi (1946)
Noi continuammo e v’era giù un barbiere
seduto su uno scoglio e vi sbarbava
alcune donne con un gran piacere.
…………………………………….Ma il pelo tolto subito spuntava
…………………………………….e a dir della svelteza ond’era pieno
…………………………………….credei, che mentre pure lavorava
barba e baffi spuntassero in baleno.
Apresso ciò Catullo: “Fa che pinghe
– mi disse – il capo a più veder che meno,
…………………………………….sì che lo volto ben con gli occhi attinghe
…………………………………….di quella donna nata a Catanzaro
…………………………………….cattiva a fatti ma buona a lusinghe
a cui di sale fu il creatore avaro.
La barba che le cresce ivi l’è tolta
ma le ricresce e questo non l’è caro.
…………………………………….E mira l’altra se non ti rivolta
…………………………………….e la vista col ventre non fa zuffa
…………………………………….dal molto grasso e dalla barba folta,
già fu la Teresona ed ora sbuffa
seduta sul suo lardo, cui l’età
rancido fece e diè a color la muffa”
…………………………………….Così noi parlavamo, e a noi di là
…………………………………….incontro venne una figura nota
…………………………………….che aveva un grande seno in verità
Come la tarda scrofa sulla mota
ingrassa e attarda il breve movimento
ma pur si scote nel veder carota,
…………………………………….egual veniva con lo passo lento
…………………………………….in ver di noi la donna sorridendo
…………………………………….mi salutò: “Appena a creder stento
di vederti costì ancora vivendo.
Se il ciel ti fa tornare nei tuoi vaghi
dolci paesi, dove stan lucendo
…………………………………….li cari miei belli lombardi laghi
…………………………………….tu li saluta, che potrai vedere
…………………………………….splendere al sole ancor gli azzurri laghi…”
E mosse i baffi suoi da granatiere
quasi piangendo la bionda Rosanna
e poi fra l’altre si tornò a sedere
…………………………………….rotonda e certo meno di una spanna.
Poesie giovanili e traduzioni scolastiche (1946-1951)
Satira IV (Otto e mezza)
Il professore ha le orecchie gialle,
nere e gialle. Nasconde le lumache
dal naso dentro al cassetto e le unghie.
Dentro gli occhiali ha gli occhi e dentro
(lo so) c’è una matita rossa e verde.
Se sapesse che approfitto del raggio,
che salgo con la scala d’oro i sogni,
chiamerebbe il bidello e poi l’altro,
grossi e pesanti si richiamerebbero
per i corridoi e le vetriate,
e il signor Preside mi caccerebbe,
perché non so la regola e negli occhi
mi ci fanno a l’amore le farfalle.
La bimba bionda prova compassione
Ingrato! Ne ho dimenticato il cognome
per farne un emblema di arabeschi.
Il grembiule le segue un seno nero
e se sorride sento un raggio alla faccia.
Io le dirò: “Sono nato lontano,
il mio paese è sopra un cielo leggero
ma se tu mi allunghi appena la mano
io ci giuro quel sereno, quel cielo
e la sera prima di addormentarsi”
Non starei a raccontare (sottovoce)
cosa c’è nel cielo della finestra
e se mi passa un foglio, tra le righe
i segni fuggono come formiche.
Non so più come si faccia per leggerli.
Sono infelice. Al dorso del biglietto
segno un cartello e un piccolo angioletto
nel cartello ci devo anche scrivere
che sono tanto ma tanto contento
quando le rose vincono anche il sole
come esco con la scala d’oro al vento
ai voli, a l’erba che ancora non nasce.
Nello stagno che si allarga nei cerchi
hanno perduto una città preziosa
ci sono sassi bianchi e sassi verdi
caverne d’ombra e bollicine. Scivolano
sui dorsi dei pesci le molliche.
Il professore non vuole. Non vuole
che la ragazza bionda mi sorrida.
Gli hanno fatto due corna sulla testa
col gesso colorato. Uccide i poeti,
i poeti che parlano la vita,
dentro le formule e queste pareti.
La mano è nera come il calamaio.
Si è gonfiato al soffitto e sa di mussa
un 1 un 5 un 6 oppure un 7
mi guarda sempre dietro l’occhio stanco
Gli orologi abbandonano lontano
queste ore e ogni ora che toccano
il professore passa su una riga
su un verbo che non ha senso, la mano
Poi si alza e urla “Chiudete quel sole
e accendete tutte le lampadine”
Confonde con la voce atona al buio
stupide date e i letti dei poeti.
I letti dei poeti. Devo dire
che non è vero. “È una cosa diversa.
Troppo alta. Non parlate dei poeti
se non amate i poeti e il delirio.
Non chiudeteli dentro le pareti”.
Come farò a dire queste cose?
Qui non si può urlare e far baccano
far segni a quella bionda ragazza
prima che cambi e non creda sul serio.
Dicembre. Poemetto (1948)[2]
Sulla neve
panno nero,
balza di volpe
invernale in giallo e grigio.
Dietro lo schermo
anche i bambini allora
con mezzi semplicissimi
rievoca gran sera
di un colloquio segreto
disperato
interpretato in raso azzurro pallido.
In ogni casa
retroscena
pianto
e paura
impalpabile
Dicembre
tra le raffiche
il cuore come sta?
Fede
rubrica sanitaria
tifo e febbre
di un tempo
che si arrotonda sulla vita, grandi
I
sospesi sull’abisso!
terra lunga
sarà oggi
inverno
eroe del doppio gioco
ex maresciallo
a bordo
o
dopo
i pasti?
salme
recenti
in fiduciosa attesa
del processo
Sale
un
sole invernale
a
l’altra faccia
Una mano invisibile
sotto la veste
invia
bolle
SS
e i testi a la sfilata
Volpe bionda
la morte
è
generale
alleanza
conclusa prima di Natale
Testi e appunti per canzoni (1960-1990 ca.)3
Kantologia d’amore
In quel bordello che
noi che ci siamo andati
noi ci abbiamo creduto
ai visi pettinati.
Con quella pioggia che
cadeva dentro ai fossi
e noi la guardavamo
dietro i velluti rossi
in quel bordello di
letteratura stronza
stava con Alessandro
la Monaca di Monza.
Assieme a quello che
tutti ai capelli rossi
con quasi un non so che
dipinta sopra gli occhi
la Beatrice scende
la scala del salone.
In quel bordello che
Fiammetta è la Signora
in quel bordello dove
noi credevamo che
l’amore fosse lì
nella letteratura,
l’amore fosse in quella
antologia d’amore
di quel bordello lì
a portata di mano
Petrarca fa il ruffiano
e Laura, Laura è morta.
*
Note della curatrice
1 Proprio in questi anni, ad esempio, appare uno degli elementi centrali della produzione costiana: il fiume, che l’autore rideclinerà successivamente in chiave più consapevolmente eraclitea (fino a giungere, nell’omonimo libro d’arte – Il fiume, 1981 – al concetto di «fiumità»).
2 In questo poemetto Costa sperimenta materialmente la tecnica del collage, adoperando una serie di parole e lemmi ritagliati dai giornali. Il poeta sembra qui esercitarsi in una sorta di proto-scrittura sperimentale, una preistoria dei futuri componimenti di Pseudobaudelaire, con alcune modalità di ‘ricostruzione poetica’ a partire da materiali giornalistici e anti-lirici, con esiti che oscillano tra l’associazione libera e un tentativo di suggerire la verosimiglianza narrativa (ad esempio, l’incipit ermetico ma poeticamente plausibile «sulla neve | panno nero | balza di volpe | invernale in giallo e grigio», oppure la sentenza finale «la morte è generale alleanza conclusa prima di Natale»). L’effetto visivo ricorda l’impaginazione di una lettera anonima che, invece di contenere minacce o richieste di riscatto, rivela un contenuto ‘innocente’ ed eminentemente poetico.
3 Alcuni musicisti che collaborarono vocalmente a queste rappresentazioni sono Arduino Gottardo, Vanni Catellani, Fiorenzo Fauli, Uberto Pieroni. Le uniche registrazioni che ci sono pervenute sono relative alle cinque canzoni musicate nel 1960-1961 da Fiorenzo Fauli e alle otto canzoni musicate da Uberto Pieroni e cantate da Giancarlo Sacchini (detto Jonny Sacco), pubblicate nell’album Sacco ascendente cancro nel 1981
[Immagine: Taccuino di Corrado Costa].