Visite allo zoo, rubrica a cura di Massimo Gezzi
[Quarta puntata della rubrica a cura di Massimo Gezzi, costituita da una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione, attualmente “congelata” e costretta a reinventarsi in forme nuove: anche per questo ci sembra importante continuare a riflettere. Dopo Fabio Pusterla, Francesco Targhetta e Marco Balzano, oggi risponde Marilena Renda].
1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?
Sono entrata di ruolo nel 2015, a Milano, dopo una decina d’anni di precariato trascorsi soprattutto alle medie. Adesso insegno Inglese in un Istituto tecnico alla periferia di Bologna
2) Ho intitolato un recente contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in un zoo?
La prima volta che ho provato a far leggere Shakespeare a degli adolescenti lavoravo in un Istituto Turistico romano, e ricordo la loro fatica anche solo nella traduzione del testo; quel linguaggio arcaico, per di più in una lingua straniera, per loro era impossibile. Mi sono ripromessa di non fare più questo errore; in seguito ho fatto altri esperimenti su Shakespeare, per esempio lavorando sul ritmo del pentametro giambico e facendogli realizzare una versione rap del mio sonetto preferito, il 18, “Shall I compare thee to a summer’s day?”. Il vantaggio di insegnare Inglese, comunque, è che provo molta meno riverenza verso la Tradizione di quanta ne proverei se insegnassi letteratura italiana (dato che, sì, è in ballo una tradizione, ma non è la mia), e che utilizzo i materiali anche letterari come un enorme cilindro da cui far apparire temi, problemi, discussioni. E soprattutto, chiedo loro una risposta personale e immediata, perfino emotiva, ai testi che leggiamo. Mi prendo la libertà insomma di uscire dagli schemi tradizionali di lettura e di analisi. A volte funziona, a volte meno.
3) Quando insegni e leggi poesia in classe, ti è mai capitato di sentirti inefficace, goffo o controproducente? Se sì, cosa genera questa sensazione, secondo te?
Negli ultimi anni mi è capitato molto spesso di avere delle quinte estremamente affollate. Aggiungi a questo un certo grado di disattenzione tipico dell’ultimo anno delle superiori; vedi che i ragazzi con la testa sono già fuori dalla scuola, sono proiettati in un futuro che immaginano sicuramente più eccitante di un presente in cui stanno ammucchiati in ventotto ad ascoltare una lezione su Joyce. Questo genera in me una grande frustrazione, anche perché io so, a differenza di loro, che nella loro vita adulta avranno poche occasioni di sentire parlare di Leopold Bloom e che questo, anche solo a livello di cultura generale, è una perdita. Anche se andrai a studiare medicina, anche se studierai legge o lavorerai alle poste. Ovviamente gli dico che gli conviene tenere gli orizzonti ampi, anziché restringerli, ma non credo che mi ascoltino. Rispetto a questa frustrazione, diciamo così, di base, c’è poi la frustrazione dell’insegnamento della poesia. L’anno scorso ho provato a leggere con loro “Refugee Blues” di Auden, confidando non solo nella sua comprensibilità ma anche nel fatto che si collega ad avvenimenti di cui hanno contezza, almeno in teoria: la guerra, la migrazione, la Shoah. In questi casi penso sempre di non essere stata abbastanza efficace, e magari è vero. Poi per fortuna succede anche di incontrare delle facce che si illuminano di comprensione o di un barlume di interesse, e sono contenta così.
4) Che relazione c’è tra la tua esperienza di scrittrice e quella di insegnante? È un rapporto unidirezionale o bidirezionale?
Tendo a tenere separate le cose, ma credo che i ragazzi si accorgano che mi piacciono i libri, mi piace parlarne, mi fa piacere se una cosa che appassiona me arriva ad appassionare anche loro. Negli ultimi anni ho maturato un distacco emotivo che mi permette (questa è ovviamente una valutazione che ho fatto in base al mio carattere e alla mia storia personale) di gestire meglio alcuni aspetti del mio lavoro, come la valutazione. Nel 2013 però ho scritto un libro, La sottrazione, in cui sono confluite alcune esperienze fatte quando lavoravo come insegnante di sostegno in una scuola media della periferia di Milano. Il mio lavoro consisteva anche nel mantenere una relazione proficua con la famiglia di questi ragazzi, oltre che con gli altri insegnanti e gli altri elementi della comunità scolastica. Mai come in quell’occasione ho avuto l’impressione di essere al centro di una rete che non tiene; una rete, cioè, in cui l’insegnante è lasciato solo a gestire una grande quantità di questioni che non sarebbero di sua competenza, ma che lui ritiene sia comunque suo dovere gestire perché altrimenti nessun altro lo farebbe. Durante quell’anno ho avuto molto la certezza di non essere in grado di fare granché per loro. In particolare c’era una bambina, Lia, che proveniva da una famiglia fortemente svantaggiata; ha iniziato l’anno scolastico con grande entusiasmo ma per varie ragioni si è progressivamente sempre più scoraggiata, e l’ultimo giorno di scuola è andata via imbronciata, senza salutarmi. Il libro è dedicato a questi bambini, sperando che perdonino il mio fallimento. Intimamente penso di essere a scuola per imparare. Più degli alunni.
5) Leggi poesia e letteratura contemporanea, con i tuoi allievi? Raccontami un aneddoto a proposito di un testo, un autore o un libro.
Insegno inglese in un tecnico, quindi mi rivolgo a ragazzi il cui interesse per la letteratura è pressoché nullo. Nei giorni scorsi ho provato a fargli leggere e tradurre una poesia di W. S. Di Piero che era uscita sul “New Yorker”; ero curiosa di capire se fossero disponibili o no nei confronti di un linguaggio nuovo, e anche se fossero disposti a mettersi in gioco in un esercizio per loro così poco usuale come la traduzione, e specialmente la traduzione di poesia. I risultati, com’era prevedibile, non sono stati brillanti, ma siccome ho fiducia nelle loro capacità (è la mia classe preferita, se non si fosse capito), intendo insistere, se non altro per tentare di comunicargli che una lingua è un codice che ha al suo interno una gran varietà di registri possibili, e soprattutto che nel trasportare un testo da una lingua a un’altra dobbiamo tentare di rispettare la sua specificità e arrivare a un risultato comprensibile nella lingua d’arrivo.
6) Credi che la scuola, nella sua organizzazione attuale, possa essere un punto di riferimento per i ragazzi e le ragazze che amano leggere e scrivere? Tu sei una scrittrice: riesci a seguire e a stimolare i ragazzi e le ragazze cui piace scrivere?
E’ complicato per tante ragioni. I ragazzi sono sottoposti a una grande quantità di stimoli, in mezzo ai quali è possibile che un’inclinazione letteraria si perda; a volte sono convinti che quella della letteratura sia una strada che conduce al prestigio e al successo, e allora bisogna spiegargli che dietro ogni percorso c’è una gran fatica e quasi mai un gran successo, e men che meno un gran guadagno. Ho il sospetto che chi vuole scrivere non abbia granché bisogno di essere incoraggiato, mentre è possibile che quelli che manifestano una fiammeggiante passione siano gli stessi che poi finiscono con l’abbandonare la scrittura e fare tutt’altro. Sono anche convinta che chi ha talento abbia un bisogno relativo di guide e maestri: il talento brilla, e prima o poi viene fuori, anche se hai avuto dei professori mediocri.
7) In articolo provocatorio e fluviale uscito su LPLC2 il 1 luglio 2019, Mauro Piras, stufo delle semplificazioni e delle dinamiche che inevitabilmente si innescano durante l’esame orale di maturità, proponeva – chissà quanto seriamente – questa soluzione:
Per dieci anni fare pulizia di tutte le formulette […]: divieto di trattarle e divieto di ripetere quelle formule, scomparsa dei manuali per decreto o per estinzione commerciale. Obbligo per i docenti di fare le loro discipline letteratura inglese filosofia arte scegliendo qualche testo autore che amano, leggendolo insieme agli studenti e da lì conversando. Senza interrogare. Anarchia, senza metodo. Per prendere aria. E poi, tra dieci anni, vedere che cosa ne è uscito fuori.
Forse è impraticabile, ma che ne pensi, da insegnante?
Essendo democristiana nell’animo, opto per una cauta via di mezzo tra la proposta di Piras e la situazione attuale. Sono d’accordo con Francesco Targhetta sul fatto che il vero nodo sia la valutazione, e non credo che sia eludibile (e non credo neanche che sia corretto, nei confronti dei ragazzi) tanto facilmente. Gli studenti hanno diritto a docenti che hanno fiducia in loro e nella loro fatica, e che non hanno timore di imporgli una fatica per paura di essere impopolari. Smetteremmo tutti di fare il nostro lavoro, se rinunciassimo alla valutazione, per cui non mi pare una strada percorribile. Sono d’accordo sul fatto che la valutazione non debba essere necessariamente affidata alle forme tradizionali in cui avviene adesso: personalmente sono a favore di tutte le forme di rielaborazione dei contenuti che prevedano un feedback personale (lavori di gruppo, lezioni ai compagni, dibattiti, approfondimenti). In questi giorni in cui ci stiamo tutti confrontando con la didattica a distanza e i suoi inevitabili limiti, non riesco a non notare come molti colleghi non riescano a distaccarsi da modalità di lavoro, come la lezione frontale, che in questo contesto sono evidentemente inadeguate. Non credo che il nostro obiettivo, in questi giorni, sia fornire contenuti, certificare competenze o verificare gli apprendimenti, ma tenere i ragazzi legati alla scuola, cioè alla vita; dire che ci siamo e che non li lasciamo in balia della solitudine. Sarebbe l’occasione di esercitare finalmente la nostra libertà di educatori e di divertirci insegnando come non abbiamo mai fatto; invece no, ci preoccupiamo che non copino durante le fantomatiche interrogazioni che facciamo, che non sbircino, che non si facciano suggerire dalla mamma. Mi pare che abbiamo paura della nostra libertà. Ma se è così, ci meritiamo anche che all’esame di maturità ci ripetano sempre gli stessi luoghi comuni.
8) Ultima curiosità: fai l’insegnante anche perché hai avuto un bravo o una brava insegnante, da qualche parte nel tuo percorso?
Sì, ho avuto una buona insegnante di italiano al liceo, ma a quell’epoca non pensavo di diventare insegnante. Non pensavo di diventare insegnante neanche mentre facevo il corso di specializzazione per diventare insegnante in realtà: ero convinta di avere molte porte aperte, cosa che poi si è dimostrata non vera. Diventare insegnante è successo, ma poi si è rivelato essere una strada più congeniale al mio temperamento di altre strade che apparentemente sembravano più desiderabili. All’epoca della specializzazione ero molto stupita di incontrare degli specializzandi che non vedevano l’ora di diventare insegnanti. Si dice che l’amore non sia un buon presupposto per un buon matrimonio. Ho il sospetto che sia lo stesso per l’insegnamento: un sano, robusto amore-odio permette di affrontare le contraddizioni e le difficoltà di questo lavoro con più equilibrio.