di Paolo Giovannetti

 

[…] riempire il […] corpo [della madre] di sostanze cattive e di parti del Sé scisse […]. Queste sostanze o parti del Sé sono rappresentate soprattutto da escrementi, visti come mezzi di danneggiamento, di distruzione o di controllo dell’oggetto aggredito.

Melanie Klein

 

Teatri vuoti e inutili potrebbero affollarsi
Se tu, se tu ti proponessi di recitare te

CCCP

 

Ricordiamocelo, perché tutto ha una storia, e la storia è quella cosa che si dimentica. Poco più di cinquant’anni fa si poteva pensare all’abolizione dell’esame di Stato, il cosiddetto esame di maturità. E non solo perché lo volevano pochi studenti estremisti. Nel 1969, il serissimo pedagogista Mario Gattullo proponeva «l’attribuzione del valore di controllo di Stato ai risultati degli scrutini finali elaborati dal consiglio di classe (con abolizione dell’attuale sistema di esami)»[1]. Non sto a sintetizzare le ragioni di Gattullo e di molti altri osservatori di allora, e di diversi decenni successivi. Diciamo che una sinistra ormai parecchio âgée ha da sempre nutrito orgogliosi pregiudizi verso l’istituzione-esame – filtro selettivo mosso da ragioni in ultima analisi extra-didattiche, sociali, classiste, ecc. Una scuola superiore senza esame finale era pensabile e perfettamente possibile, e non è detto che fosse una scuola così brutta. In ogni caso, era una scuola che si immaginava dentro uno spazio di progettualità discorsiva aperto al futuro, dentro qualcosa come un’utopia da far crescere.

 

Nel 2020, in piena pandemia, nessuno ha fatto il ragionamento che, se fosse ancora vivo, il vecchio “docimologo” Gattullo avrebbe considerato poco meno che ovvio. Se con diversi Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri si è potuto sospendere quasi ogni tipo di libertà individuale e collettiva, perché non si poteva sospendere l’esame di Stato? A suffragare il ragionamento avrebbe dato sostegno, soprattutto, un’ovvietà disarmante. E cioè che tutte quelle ragazze e ragazzi (forse il 30 per cento del totale) che negli ultimi cento e più giorni non hanno goduto di connessioni alla Rete efficienti, di computer “performanti” e non hanno vissuto in appartamenti silenziosi e spaziosi, privi di affollamento e di tensioni famigliari, sicuramente sono arrivati a fine anno un po’ in affanno: e insomma – inevitabilmente – hanno studiato male. Che senso ha sottoporre in particolare loro alla fatica di un esame, che non può non raddoppiare il disagio e l’alienazione di questi mesi? E così via. A pensarci bene, le osservazioni potrebbero accumularsi quasi all’infinito: se solo si pensasse che, in assoluto, quell’esame non è indispensabile. E che i problemi veri sono – come suol dirsi – altri.

 

Lascio sullo sfondo il problema più urgente, che credo non abbia bisogno di commenti perché chiunque frequenti minimamente l’informazione dovrebbe già conoscerlo alla perfezione. Insomma, la scuola (e insieme ad essa l’università) italiana non ha un vero progetto di ripresa che vada oltre la gestione emergenziale dell’ordinaria amministrazione. Che vada oltre, cioè, la realizzazione di una didattica improvvisata e lasciata in mano alla buona volontà dei docenti e alle risorse limitate delle singole istituzioni. Il fatto che ognuno (singol* maestr*, professor*, scuola, ateneo…) in questi mesi sia andato avanti da solo, non di rado con soluzioni ingegnosissime e persino funzionali, è cosa che andrebbe discussa con equilibrio. Ma adesso l’equilibrio ci manca, siamo qui con l’acqua alla gola ad arrabattarci per decidere come fare per ridurre al minimo i danni. Beato Giorgio Agamben che inquadra tutto alla perfezione! Chi sta davvero lavorando nell’insegnamento pensa soprattutto (sto parafrasando il grande Marco Lombardo Radice) a non perdere i propri studenti, le proprie studentesse; e magari anche a non perdere colleghe e colleghi, che in questi mesi qualche diritto alla depressione ce l’avrebbero pure avuto. Come peraltro tutti.

 

Mi sento di dire qualcosa di meno patetico e affannato su un secondo punto, persino troppo generale. È come il gioco della torre: che cosa butteresti giù e che cosa salveresti della scuola e dell’università se dovessi ridurla a silhouette, se dovessi dirne i valori “irrinunciabili”? E la risposta che viene dall’alto recita: primo valore, gli esami; secondo valore, la lezione; [terzo valore, in vigore solo per l’università: la ricerca, ma soprattutto – si badi – la valutazione della ricerca].

Non parlerò di ricerca, come si vede dalle parentesi quadre. Ma di esami e di lezioni sì. Una società che si preoccupa pochissimo della scuola ma che si commuove beotamente davanti al pathos della “notte prima degli esami” (che schifo di film, tra parentesi!) ha urgente bisogno di sdraiarsi su un lettino di psicoanalista per cercare di capire che cosa c’è che non va dentro di sé. Che cosa non va in un intero corpo collettivo, a partire dagli organi “didattici” che dovrebbero dargli qualche indicazione.

 

A me sembra che, come spesso succede in Italia, agiscano – tornino a galla – antichi pregiudizi, ideologie sedimentate in rancide formule condivise. Diciamone qualcuna, per intenderci: trasferimento delle conoscenze, voto, punizione del fannullone. Secondo questo sistema di luoghi comuni, la scuola e l’università costituiscono l’ambito in cui:

 

1) si trasferisce dall’alto al basso un sapere definito una volta per tutte;

2) si premia chi – in modo giudizioso – è stato al gioco e si è rivelato sufficientemente pieno (gravido?) delle giuste conoscenze;

3) correlativamente, si punisce chi non si è fatto colmare da quell’unico sapere.

 

Non sto esagerando. Tenete conto – se non siete “dell’ambiente” – che a parole da anni si parla di competenze, di skills, come di criteri che dovrebbero guidare la programmazione e la verifica dell’apprendimento. In fondo, davanti al confinamento a cui siamo stati costretti si sarebbe potuto mettere in piedi momenti di valutazione (che non sono esami) di competenze nel frattempo acquisite. Tipo: vedere se gli studenti sapevano scrivere certi testi, fare certe ricerche, progettare momenti di socializzazione con i loro compagni. Non dico che nessuno l’abbia fatto. Anzi, moltissimo è stato realizzato. Ma niente che abbia sostituito l’istituzione, il dispositivo sociale e didattico elementare, orribilmente binario, composto dall’uno/due Lezione / Esame. Siamo tutti fermi lì; e da lì non ci schiodiamo.

 

Detto in maniera diversa, e diversamente preoccupata: il sistema scolastico e universitario italiano – caratterizzato da norme tutt’altro che retrograde, piaccia o non piaccia – avrebbe permesso e permetterebbe ancora oggi di gestire l’emergenza con iniziative diverse dall’uno/due di cui sopra, perfettamente conformi a una corretta e legale visione dell’insegnamento, sfaccettata in tutte le sue componenti. Se insomma è difficile dialogare in presenza con gli studenti, e si attua un rapporto a distanza, quel legame “in remoto” può essere utilizzato per valorizzare azioni e comportamenti che non corrispondono ai contenuti tradizionali dell’insegnamento. Azioni e comportamenti che pertengono a un saper fare – un sapere comunque normato “dalle leggi”. Scuola e università dimenticano, trascurano quelle prospettive. Di solito fingono di realizzarle certificandole solo nelle scartoffie esibite al ministero. Davanti al Covid 19, le hanno rimosse del tutto. Caro studente, se non sai le date di pubblicazione dei Promessi sposi, sarai sanzionato; poco importa se in questi mesi hai imparato a documentarti in assenza di libri fisici, e se l’hai fatto correttamente.

 

Credo che una scuola e un’università consapevoli – anche didatticamente – dei problemi in corso avrebbero dovuto mettere fra parentesi la valutazione in forma d’esame, sostituendola con momenti di dialogo protratti, nelle forme concesse dagli strumenti via via a disposizione: attività che i docenti avrebbero potuto “certificare” al di fuori dell’evento-esame. Soluzione provvisoria: non una sanatoria, sia chiaro, ma semplicemente la presa d’atto che in un momento terribile conta più la relazione che la nozione grezza; importa più la capacità di fare gruppo, di condividere sensi, di imparare a imparare, che la capacità di snocciolare cognizioni. Sarebbe stato difficilissimo, e forse estenuante. Molti ne avrebbero approfittato per nascondersi dietro i propri schermi. Ma anche no. Mai come in questi mesi, mi sono trovato a dialogare bene – nelle situazioni didattiche operative e non frontali – con studenti e studentesse che avevano voglia di dirsi, di dire quello che facevano.

 

E invece siamo qui a rincoglionirci con la farsa dell’esame di Stato. Purissimo immaginario ideologico da quattro soldi. Inutile e persino pericoloso, come tutti sanno. Ma l’esame ci mette in pace con la coscienza – soddisfa il nostro desiderio di sigillare un percorso, di separarci da un oggetto in ultima analisi non amato. Riducendo il problema a una forma di pavlovismo marziale (unò-duè, unò-duè…), chiudiamo il cerchio della valutazione con la ciliegina finale del voto. Evacuazione dello studente–contenitore, con relativa targhetta numerica. E tutti a casa soddisfatti.

 

 

[1] Cfr. A. L. Fadiga Zanatta, Il sistema scolastico italiano, Bologna, il Mulino, 1976, p. 233, nota.

4 thoughts on “Affinità-divergenze tra gli esami (di Stato) e noi

  1. Condivido teoria e prassi di questo intervento. Che tra l’altro ha pure il merito, tra i molti, di ricondurre il tema delle competenze fuori dall’assurdo e inesistente conflitto competenze vs. conoscenze.
    Giovannetti ha, come si suol dire, una testa ben fatta.

  2. Da questo articolo emerge una conoscenza superficiale e pregiudiziale della scuola e del lavoro dei docenti: un’esposizione piena di retorica e luoghi comuni sui presunti vantaggi delle didattiche operative e sullo svilimento della lezione frontale, sulla celebrazione acritica delle competenze contro le conoscenze. Non è vero, per esempio, che i docenti penalizzano chi non conosce le date di pubblicazione del romanzo manzoniano, ma forse uno studente dovrebbe saper interrogarsi sul motivo per cui ossessivamente Manzoni lo ha rielaborato tanto e non solo linguisticamente: si sa, non è una questione nozionistica di date, come semplicisticamente emerge da questo articolo.
    Insomma della scuola si parla troppo genericamente e sempre in modo ideologico. E non automaticamente il “nuovo” coincide con il “buono”.
    E se un alunno raggiunge tutte le soft e meno soft skills, ma non sa quanto di Petrarca o di Montale o di Camus continua a vivere in noi, se non ha cioè le conoscenze adeguate a fare una riflessione del genere, è qui che la scuola ha fallito: non c’è competenza senza conoscenza. E i compiti di realtà, il cooperative learning, gli EAS, la didattica operativa e laboratoriale, e tutto questo apparato di pseudopedagogismi costruttivistici presto mostreranno la loro pericolosità. Avremo una società incapace di (ri) conoscere i perché, le cause, le conseguenze di ciò che accade, ma saprà mettere la crocetta su moduli precompilati, senza chiedersi, però se sta facendo la cosa giusta.
    Certo, comunque, quest’anno gli Esami di Stato si potevano evitare.

  3. “Soluzione provvisoria: non una sanatoria, sia chiaro, ma semplicemente la presa d’atto che in un momento terribile conta più la relazione che la nozione grezza; importa più la capacità di fare gruppo, di condividere sensi, di imparare a imparare, che la capacità di snocciolare cognizioni. ” Uno degli artifici retorici più vecchi del mondo: creare una dicotomia che non c’è e suscitare così uno sdegno a buon mercato in chi legge! Chi lo sa se oltre nozioni e relazioni ci può essere qualcos’altro? Forse la conoscenza, quella vera e non quella delle sterili classificazioni pedagogistiche, quella che nasce proprio dalle nozioni e dalle relazioni, ma combinate insieme ché ognuna di esse da sola non basta.

  4. Sono perfettamente d’accordo con l’intelligente commento di Teresa D’Errico . Trovo anacronistica e caricaturale questa raffigurazione della scuola italiana, ritratta come polverosa, nozionistica, sadicamente punitiva .
    Quale sarebbe poi concretamente il modello di scuola nuova? La scuola delle “competenze”, avulse da ogni conoscenza? La scuola dei tecnocrati ignoranti? La scuola degli utenti/consumatori? La scuola della fuffa pseudopedagogica? (o detto più elegantemente, la scuola che si nutre di “momenti di dialogo protratti”, secondo la insuperabile formula proposta dall’autore del contributo???)

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