di Laura Pugno e Giulio Mozzi
[Esce il 25 giugno l’Oracolo manuale per poete e poeti di Laura Pugno e Giulio Mozzi (Sonzogno). Pubblichiamo un estratto in anteprima].
Questo libro è un gioco,
e ci si gioca in questo modo. Se stai lavorando a una poesia, o a una serie di poesie, e ti trovi in un momento di difficoltà perché non ti senti mai soddisfatto, perché non ti senti sicuro delle tue scelte, perché hai sempre l’impressione che i tuoi versi abbiano qualcosa che manca – ma non riesci a capire cosa sia questo qualcosa –; o se hai in mente certi pensieri, certe impressioni visive o uditive, certi sentimenti, e tenti di metterli in parole (andando a capo, perché ti pare che quella sia materia da poesia, più che da racconto), e però ti pare di non farcela, ti senti a disagio, magari un po’ ti vergogni di tornare a scrivere in versi come facevi nell’adolescenza (non dire che non l’hai mai fatto! Non ti crediamo!), e ti pare che tra ciò che scrivi e le poesie dei “poeti veri” che leggi ci sia una differenza, che non sapresti definire ma è una differenza vera e seria; allora, in questi momenti di emergenza, di scoramento, di piccolo vuoto, puoi prendere in mano questo libro, soppesarlo, eventualmente strofinarci sopra una mano tenendo gli occhi chiusi (come se fosse la lampada di Aladino, per intenderci), e aprirlo a caso. Troverai, sulla pagina di destra, un consiglio, o una provocazione, o una riflessione, o una domanda; e sulla pagina di sinistra un breve approfondimento. Prova ad applicare ciò che hai trovato al tuo problema. Se ti pare che non c’entri niente, fa’ finta – è un gioco! – che invece c’entri. Non si tratta, ovviamente, di prendere alla lettera ciò che l’Oracolo – è sempre per gioco che l’abbiamo chiamato così – suggerirà. Tutt’altro. Ma forse lo stimolo proveniente dal libro ti aiuterà a osservare il problema sul quale ti sei arenato con uno sguardo un po’ diverso, e la cosa – forse, ripetiamo – potrà essere utile.
Questo libro non è un gioco,
perché il frutto è di cinquant’anni (venticinque per ciascuno dei due autori) di esperienza nella scrittura, di riflessioni e discussioni sulla scrittura, e di insegnamento della scrittura. Entrambi noi prati chiamo, fin dai nostri inizi, sia la scrittura in versi sia quella in prosa, peraltro in modi molto diversi: per Laura la scrittura di poesia è un’esperienza di immersione profonda nella lingua, nel mondo e nell’io, e quindi una ricerca di verità; per Giulio è soprattutto una partita tra lui e i diversi “ii” che sembrano popolare la sua mente, ciascuno estraneo agli altri e in lotta per conquistarsi una propria realtà. In questo libro abbiamo tentato di offrire il “succo” delle nostre esperienze di scrittura, appunto diverse ma – così ci sembra, visto che da trent’anni riusciamo a parlarci e a capirci – non incompatibili.
Devi proprio scrivere una poesia?
Che cosa puoi fare solo con la poesia? Che non puoi fare con la prosa, con le arti dell’immagine o dello spettacolo e del movimento, con il cinema…
Nel 1970 il poeta Nelo Risi pubblicò un libro (bello) che s’intitolava: Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa. Il titolo è giocoso, ma evidentemente allude al fatto che con la prosa e con la poesia non si possono dire esattamente le stes se cose. Si potrebbe continuare, e immaginare una serie di libri: Di certe cose che dette in prosa suonano meglio che in versi, Di certe cose che messe in musica suonano meglio che sulla carta, Di certe cose che rappresentate al cinema vengono meglio che messe per iscritto, Di certe cose che danzate sono più belle che raccontate – e così via. Ora: tu, che scrivi poesie, ti sei mai domandato per ché hai scelto, per ciò che hai da dire, proprio la forma della poesia? Perché mai ciò che hai da dire ti pare che “suoni” me glio in poesia piuttosto che in prosa, o nel cinema, o in musica? Che cos’è, insomma, che ti pare di poter dire con la poesia, solo con la poesia, in nessun altro modo che in poesia?
Che cosa direbbe tua zia?
Una questione di sincerità e di coraggio.
Nella poesia di Andrea Zanzotto Misteri della pedagogia (nella raccolta Pasque, 1973) appare un personaggio, la maestra elementare Morchet, che rivolgendosi alla zia del poeta dice: «Le poesie di suo nipote si capiscono poco.» Lo scrivere poesia comincia spesso come uno scrivere nascosto, addirittura se greto; ma prima o poi dovrà – o si spera che riesca a – venire alla luce. È possibile che le persone più intime e vicine siano le prime a stupirsi – il nipote pareva tanto un bravo ragazzo, e invece si scopre che ha scritto delle poesie, peggio, che le ha pubblicate. Eppure, provare a immaginare l’effetto che le poesie che vai scrivendo potrebbero avere proprio sui tuoi cari può aiutarti a capire, se non altro, due cose: qual è il tasso di sincerità in ciò che scrivi, e quant’è il tuo coraggio (ma sincerità e coraggio sono la medesima cosa, si sa). Non perché le poesie debbano contenere segreti inconfessabili, ma perché l’osare prendere la parola in postura di poeta è una scelta che non ammette fallimenti. O riesce, o è il ridicolo.
Chi parla, dentro di te?
Lo spontaneo non è spontaneo. Tutto un mondo ti parla dentro, e parla fuori di te. Quale di quelle voci è la tua? Quali di quei pensieri sono già stati prepensati per te? E tu, vuoi veramente pensarli?
In un testo del 1947, Histoire entre la groume et Dieu, il drammaturgo francese Antonin Artaud scrisse: «Credo che da me venne fuori un essere, un giorno, che pretese d’essere guardato. È la legge generica delle cose, mi disse, che uno debba sdoppiarsi, per permettere a due di generare, senza essere stato generato da lui, ma essendosi generato da sé.» Se scrivi è probabile che qualcosa del genere sia successo anche a te: un es sere è “venuto fuori”, ha preteso la tua attenzione e, forse, è lui che parla in ciò che scrivi. O ciò che scrivi è un dialogo tra voi due. O una lotta. O una lite. O un coro. (Ma chi è, questo essere? Forse sei sempre tu, ma senza di te.).
Che cosa non sai di non sapere?
Perché sapere di non sapere non è abbastanza.
Non sappiamo se sia nato prima l’uovo o la gallina. Ma non sappiamo nemmeno se, domandandoci se sia nato prima l’uovo o la gallina, ci stiamo davvero interrogando su qualcosa che non sappiamo o ci stiamo impedendo di porre la domanda giusta – quella che ci mostrerebbe che cosa veramente non sappiamo. Il filosofo Nassim Nicholas Taleb, nel saggio Il cigno nero, ci parla appunto dell’«ignoto ignoto», ossia ciò che non è semplicemente “ignoto”, ma di cui non sappiamo nemmeno che è. Per esempio: il bambino vive in un mondo in gran par te magico, e di fronte a qualcosa di inatteso o sorprendente si domanda quale magia ci sia sotto. Quando capirà che non c’è nessuna magia, farà un «cambiamento di paradigma», e scoprirà che l’ignoto al quale rivolgeva prima la sua immaginazione non esiste; l’ignoto sta altrove. Se spesso consideriamo lo scrivere poesia un tentativo di penetrare nell’ignoto, ricordiamoci che questo ignoto ha dei confini, forse angusti, al di là dei quali si estende il territorio dell’ignoto ignoto. (Ah: l’espressione «cambiamento di paradigma» viene dalla filosofia della scienza; la coniò Thomas Kuhn nel suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Classici esempi di cambiamento di paradigma in ambito scientifico sono: il passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano, lo sviluppo della meccanica quantistica, l’abbandono del creazionismo in favore della teoria dell’evoluzione eccetera.)
Ciò che devi, ciò che puoi.
Una scelta in poesia è sempre una scelta con tutto quello che si ha: mente e corpo, parola e storia, conoscenza o sconoscenza. Ogni poetica è possibile. Ma un poeta, una poeta, sceglie veramente la propria poetica?
La poetica è l’insieme delle intenzioni sia contenutistiche sia formali che un artista (o un gruppo di artisti) esplica nelle proprie opere. «È del poeta il fin la meraviglia» decretava Giovan Battista Marino (nel sonetto Il poeta e la meraviglia, che è satiri co, sì, ma in quel verso Marino dice ciò che propriamente pen sa). Quasi come un esperto di marketing, Torquato Tasso scriveva: «Sai che là corre il mondo ove più versi / di sue dolcezze il lusinghier Parnaso, / e che ’l vero, condito in molli versi, / i più schivi allettando ha persuaso» («Sai che la gente corre là dove la Poesia [il Parnaso era la sede delle Muse, quindi anche della Poesia] riversa più lusinghe e dolcezze, e che il discorso vero, se presentato con versi suadenti, può attirare anche i più riottosi.») Filippo Tommaso Marinetti sintetizzava tutta la poetica sua e del movimento futurista da lui fondato in un perentorio «Ucci diamo il chiaro di luna!». Il cattolico Alessandro Manzoni invitava a «il santo Vero / mai non tradir» (In morte di Carlo Imbona- ti) e spiegava che “inventare” significa “trovare”, non “creare dal nulla”: il poeta tratta di ciò che trova, nel mondo e nella storia, o nella propria mente; non inventa nulla – il solo creato re è il dio. Per carità: non tutti i poeti fanno dichiarazioni d’in tenti, e neanche tu sei tenuto a farne. Ad avere un’idea di ciò che vuoi fare, però, crediamo che tu sia tenuto. Più precisamente: crediamo che tu sia tenuto a portare alla consapevolezza, e poi fare deliberatamente, ciò che istintivamente fai.
Già definire Torquato Tasso «quasi come un esperto di marketing» dice dove andate a parare con questo “gioco” tutto garbato, tutto pulito, tutto studiato. Come da un’agenzia pubblicitaria.
Simpatici, ma resto della mia opinione: I poeti in tempo di guerra (e di coronavirus) non pensano abbastanza
Ennio, potrà sembrare vero quello che dici sul fatto che i poeti “non pensano abbastanza”, ma c’è un però, anche bello grande. Il pensiero pensato da un poeta è pensiero nella sua espressione massima, non è una bacchetta magica che risolve i problemi… Ma, ed è qui che viene il bello, non tutti la capiscono nel suo senso più profondo ed è anche per questo che tu pensi che i poeti non pensino abbastanza, ma cosa è per te abbastanza? Abbastanza forte per fermare guerre iniziate per scopi di lucro? Abbastanza intelligente per trovare un vaccino? Non pensi invece che questo necessario e doveroso abbastanza debba essere rivolto a qualche altra sede? Politica o scientifica magari a seconda del caso. I poeti non sono maghi, sono l’unica cosa a cui volgere lo sguardo quando si è sopraffatti da tutto quell’abbastanza.
“Non pensi invece che questo necessario e doveroso abbastanza debba essere rivolto a qualche altra sede? “(Colonna)
Gentile Chiara, avevo rivolto ai poeti ( in una vecchia poesia del 2004) questo rimprovero/auto-rimprovero e l’ho richiamato in questo post che parla a “poete e poeti” (noto la sottigliezza un po’ fatua della distinzione e del ribaltamento – tutto di testa- della gerarchia maschile/femminile). Ma è chiaro che esso potrebbe essere esteso ai politici, agli scienziati e a chiunque abbia in varia misura un potere anche minimo per dire la verità (o più verità) sul mondo in tremendo sconvolgimento. Nessuno si rivolga
ai “maghi”, per favore .