di Georg Simmel
[È uscito per Einaudi, a cura di Barbara Carnevali e Andrea Pinotti, il volume Georg Simmel, Stile moderno. Saggi di estetica sociale. Il volume presenta alcuni dei più significativi saggi di Simmel raccolti per la prima volta in un’edizione italiana unitaria e in una nuova traduzione di Francesco Peri.
Il celebre saggio del 1903 Le metropoli e la vita dello spirito, di cui pubblichiamo un estratto, illustra esemplarmente l’originalità dell’approccio “estetico-sociale” di Simmel e riassume i tratti salienti della sua analisi della modernità. La vita della metropoli, distinta idealtipicamente dalla vita tradizionale nel piccolo centro, condizionata dalla compressione spaziale e dall’accelerazione temporale, genera una nuova forma di sensibilità e di esperienza: choc ripetuti, fobia del contatto e riservatezza, attitudine blasée, una dialettica di iperestesia e anestesia, vicinanza e distanza, l’assurgere della vista a senso egemonico, il proliferare di fenomeni a dominante visiva come la moda e l’eccentricità, lo sviluppo dell’individualismo. Sono temi che avrebbero esercitato una decisiva influenza sulla riflessione di Siegfried Kracauer e di Walter Benjamin e sulla grande tradizione sociologica della Scuola di Chicago. E che si dimostrano estremamente attuali in questi giorni in cui la forma-metropoli viene messa in questione dall’emergenza sanitaria e si ripropone la questione del distanziamento fisico e sociale (bc)].
Interrogare i prodotti caratteristici della vita moderna sul fronte dei risvolti interiori, per così dire porre al corpo di una cultura il problema della sua anima, come mi accingo a fare in queste pagine a proposito delle odierne metropoli, significa per forza di cose analizzare l’equazione tra i contenuti individuali e i contenuti sovraindividuali della vita che quelle formazioni sociali instaurano, cioè fare luce sugli adattamenti grazie ai quali la persona cerca di venire a compromessi con le forze che agiscono dall’esterno.
La configurazione psicologica di base che presiede alla genesi del tipo metropolitano è l’intensificazione della vita nervosa, indotta da un rapido quanto incessante avvicendarsi delle impressioni esteriori e interiori. Siamo esseri differenziali, perché a stimolare la coscienza umana è ciò che distingue l’impressione presente da quella che l’ha preceduta. Le impressioni che perdurano nel tempo, differiscono solo per minimi dettagli e si succedono o contrastano in modi regolari e già noti, consumano per così dire meno coscienza rispetto al frenetico accavallarsi di immagini sempre diverse, al contrasto brutale tra gli elementi che coabitano nel nostro campo visivo e al carattere estemporaneo di impressioni che si impongono senza preavviso. Nella misura in cui soddisfa questi requisiti psicologici di base – pensiamo a ogni volta che si attraversa una strada, al ritmo sempre sostenuto e alle mille variegate sfaccettature della vita economica, professionale e sociale – la metropoli si afferma fin dal livello dei fondamenti sensori della vita e per il quantum di coscienza che accaparra (appunto in virtù della nostra organizzazione interiore di esseri differenziali) come una realtà costitutivamente diversa dalla cittadina di provincia e dal villaggio di campagna, dove il decorso dell’esistenza obbedisce a un ritmo più placido, abitudinario e internamente omogeneo, sia sul piano percettivo che su quello spirituale. Se ne ricava per prima cosa che in un ambiente metropolitano la vita psichica tende ad assumere un carattere più spiccatamente intellettualistico, mentre la vita di provincia poggia in modo molto più deciso sugli aspetti emotivi e sui rapporti di ordine affettivo, due dimensioni che affondano radici negli strati meno consapevoli della psiche e tendono a svilupparsi di pari passo con la quieta uniformità delle abitudini indisturbate. L’intelletto risiede invece negli strati più trasparenti e consapevoli dell’interiorità, gli strati di livello superiore, ed è la più adattabile tra le nostre risorse mentali: per registrare l’avvicendarsi di fenomeni in contrasto non deve passare per gli sconquassi e i rivolgimenti tellurici senza i quali l’affettività, più conservatrice, non riuscirebbe a tenere il passo con un ritmo così sostenuto. Il tipo dell’uomo metropolitano, che come tale si muove ogni giorno tra migliaia di cambiamenti individuali, tende insomma a sviluppare un organo protettivo contro lo sradicamento per cercare di tutelarsi da un ambiente esterno in costante stato di flusso e discrepanza interna: invece di rispondere in chiave emotiva tende perlopiù a reagire con l’intelletto, al quale l’odierna intensificazione della coscienza, prodotto delle stesse cause, assegna il primato nella gerarchia interiore; il compito di reagire a quei fenomeni viene quindi spostato sull’organo psichico meno sensibile di tutti, quello più lontano dagli strati profondi della persona. Questo predominio della dimensione intellettuale, che abbiamo visto essere una forma di tutela della vita soggettiva contro il logorio delle metropoli, presenta aspetti ramificati che si intrecciano a tutta una serie di altri fenomeni specifici.
…
Tra i fenomeni di ordine psichico non ce n’è forse nessuno che rechi il marchio indelebile della metropoli come l’assuefazione del blasé, che a un primo livello, come l’intellettualismo, consegue dal già citato avvicendarsi di stimoli nervosi contraddittori ma accavallati fin quasi alla simultaneità: tanto è vero che nelle persone di mediocre intelligenza o poco portate per loro indole alla vivacità mentale quel fenomeno di abituazione non si produce. Come un epicureismo sregolato ispira sazietà, perché i nervi sovreccitati fino al parossismo da piaceri senza misura tendono a lungo andare a non reagire più, anche impressioni meno edonistiche, quando si avvicendano in modo troppo rapido e contraddittorio, sollecitano i nervi in modo così violento, agitandoli con forza brutale ora in un senso ora nell’altro, che le loro scorte di energia vengono spese fino all’ultima goccia e non hanno poi il tempo di reintegrarsi, perché l’esposizione a quel tipo di ambiente perdura. Ne deriva un’incapacità a rispondere con adeguata intensità agli stimoli nuovi: appunto quell’abituazione che si riscontra già nell’infanzia se si confronta il bambino di città con i bambini cresciuti in ambienti più tranquilli e poveri di stimoli.
A questa prima fonte dell’assuefazione che contraddistingue la vita metropolitana, di ordine fisiologico, se ne aggiunge una seconda, legata all’economia monetaria. Essere blasé significa percepire con meno vivacità le differenze tra le cose, e non perché non vengano colte affatto, come capita quando è la mente a non essere vivace, ma perché non si dà più alcun peso al significato e al valore di quelle differenze (e quindi, per implicazione, neppure alle cose). Per chi è assuefatto le cose hanno tutte lo stesso colore smorto e grigiastro, nessuna sembra meritare di venire preferita a un’altra. Uno stato d’animo che è il fedele riflesso soggettivo di una realtà pienamente compenetrata dall’economia monetaria. Applicando in ogni circostanza lo stesso metro di misura, il denaro appiattisce la varietà di ciò che esiste; il denaro esprime le differenze qualitative in termini di quantità relative; il denaro, incolore e neutrale, si pone come il comune denominatore universale di tutti i valori, e quindi il denaro è anche il più spietato livellatore, perché espunge in modo inesorabile dalle cose il loro nucleo più intimo, la loro particolarità, il loro valore specifico, ciò che non ammette paragoni con altro. L’incessante defluire del denaro trascina con sé tutte le cose, conferendo a ciascuna lo stesso peso specifico delle altre, ponendo tutte sullo stesso piano e distinguendole soltanto per il maggiore o minore volume quantitativo che occupano. Nel caso singolo quella specifica colorazione (o, meglio, decolorazione) che la messa in equivalenza con il denaro comunica alle cose può anche risultare pressoché impercettibile, ma invece nel rapporto che il ricco intrattiene con gli oggetti acquistabili in cambio di denaro, anzi, già solo nel carattere complessivo che lo spirito pubblico assegna senza eccezione a tutti gli oggetti in vendita, si raggiunge una massa critica che la fa percepire eccome. Proprio in quanto luogo di elezione della compravendita mediata dal denaro, dove ogni cosa ha un prezzo e lo manifesta in modo molto più esplicito che non in situazioni più provinciali, le metropoli sono anche l’habitat del blasé. Si può dire che nell’assuefazione culmini l’effetto di quell’accavallarsi di uomini e cose che stimola di continuo il sistema nervoso umano, costringendolo a operare alla massima intensità, finché l’incremento qualitativo, a parità di condizioni di base, si rovescia nell’effetto opposto, cioè nel curioso fenomeno di adattamento, tipico del blasé, che chiamiamo appunto abituazione. Sforzandosi di venire a capo dei contenuti e delle forme della vita metropolitana i nervi esplorano le loro possibilità più estreme e le scoprono nel venir meno di qualunque reazione. Ecco la strategia di sopravvivenza di certe nature, il cui prezzo è la svalutazione del mondo oggettivo nel suo complesso, una svalutazione che giocoforza, presto o tardi, trascina anche la persona stessa in un analogo deprezzamento.
…
Fin qui abbiamo descritto una forma di esistenza che ciascun soggetto è chiamato a realizzare al proprio interno, eppure per sopravvivere alla metropoli occorre adottare una postura non meno negativa anche in ambito sociale. In termini di sociologia formale l’atteggiamento che i cittadini assumono gli uni rispetto agli altri si può definire come riservatezza. Se anche nella metropoli il contatto con ciascuno degli innumerevoli esseri umani nei quali capita di imbattersi ogni giorno dovesse attivare le stesse reazioni interiori che l’incontro con i propri simili suscita nei centri abitati più piccoli, dove ci si conosce quasi tutti e dove con ciascuno si coltiva un rapporto di livello positivo, l’interiorità del soggetto finirebbe per disintegrarsi, dando luogo a una condizione psichica che stentiamo anche solo a immaginare. Queste circostanze di ordine psicologico, unite alla legittima diffidenza che proviamo nei confronti degli elementi con i quali ci troviamo gomito a gomito muovendoci nella vita quotidiana, ci impongono un contegno così riservato che a volte neppure dopo lunghi anni sappiamo che faccia ha il nostro vicino di casa: una reticenza che la gente di provincia legge spesso come freddezza e mancanza di cordialità. Potrei sbagliare, ma il versante interiore di quell’atteggiamento che all’esterno si manifesta come riserbo non è soltanto una reciproca indifferenza, ma addirittura, e più spesso di quanto ce ne rendiamo conto, comporta una nota di lieve avversione, un’estraneità reciproca, un bisogno di mantenere le distanze che può addirittura trasformarsi in odio o conflitto quando per un motivo o per l’altro ci troviamo costretti a ingaggiare un contatto più ravvicinato. Presa nel suo insieme, l’organizzazione interna di un sistema di rapporti sociali così esteso poggia su una tassonomia finemente graduata di simpatie, indifferenze e antipatie, alcune del tutto effimere, altre costanti nel tempo. E la sfera dell’indifferenza vera e propria non è poi così estesa come potrebbe apparire a prima vista, perché la nostra psiche è attiva e reagisce pressoché sempre all’impressione suscitata da un altro essere umano con una sensazione di qualche genere, che poi sembra risolversi in mera indifferenza solo perché è inconsapevole, fugace e soggetta a fluttuazioni. In realtà l’indifferenza è uno stato innaturale per l’essere umano, almeno quanto ci risulta insopportabile una mescolanza caotica e indiscriminata di suggestioni reciproche: e a proteggerci da questi due rischi, caratteristici della metropoli, è l’antipatia, lo stadio di incubazione che precede l’antagonismo pratico. È l’antipatia a creare quegli spazi e quelle distanze di sicurezza senza i quali una vita del genere non si potrebbe mai vivere. Nel tutto indissolubile della forma di vita metropolitana l’antipatia e i suoi livelli relativi, le miscele alle quali dà luogo, il ritmo secondo il quale si manifesta per poi rifluire e le forme nelle quali trova appagamento si intrecciano con altri moventi che invece – alla lettera – creano unità tra le persone: quella distanza che ci appare a prima vista come dissociazione altro non è, in realtà, che una delle forme elementari di socializzazione proprie all’esistenza metropolitana.
Eppure quell’atteggiamento di riserbo connotato da una certa implicita avversione non è a sua volta che una delle forme o uno dei travestimenti di una più generale postura interiore tipica delle metropoli, perché garantisce all’individuo una certa specie e una certa misura di libertà personale che non trovano alcun corrispettivo in situazioni di altro genere.
(Traduzione di Francesco Peri).
“ 30 maggio 1992 – « Chi vede senza sentire è molto più… inquieto di chi sente senza vedere. ». Lo dice Simmel a proposito delle nuove condizioni di vita nelle metropoli. E Benjamin commenta che bisogna studiare la fisiognomica « volgare » in relazione a quella del XVIII secolo. “
“‘Celui qui voit sans entrendre est beaucoup plus… inquiet que celui qui entend sans voir. Il doit y avoir ici un facteur significatif pour la sociologie de la grande ville. Les rapport de les hommes dans les grandes villes… son caractérisés par une prépondérance marqué de l’activité de la voie sur l’ouïe. Et cela… avant tout, a cause des moyens de communication publics. Avant le développement qui ont pris les omnibus, les chémins de fer, les tramways au XIX siècle, les gens n’avaient pas l’occasion de pouvoir ou de devoir se régarder réciproquement pendant de minutes ou des heures de suite sans se parler’. G. Simmel, Mélanges de culture rélativiste. Contribution à la culture philosophique, Paris 1912, p, 26-27 (Essai sur la sociologie du sens).
La circostanza che Simmel mette in relazione a uno stato inquieto e labile ha una certa parte nella fisiognomica popolare. Studiare la differenza tra questa fisiognomica e quella del XVIII secolo.”
Walter Benjamin, I ‘Passages’ di Parigi, a cura di Rolf Tiedermann, Einaudi, Torino, 2000 pp. 484-5
@ Alessandro Taverna
Grazie
@ Alessandro Taverna
Grazie