di Franca Mancinelli
[Tre mesi fa, il 27 marzo, moriva Mario Benedetti. Lo ricordiamo con questa intervista inedita, a lui e a Gian Mario Villalta, di Franca Mancinelli].
Nell’inverno del 2010 ho raccolto queste domande per una doppia intervista a due poeti la cui storia ed esistenza è intrecciata da una lunga, intensa amicizia. Un trasloco, le poche energie lasciate da una supplenza in una scuola difficile, o forse uno dei demoni distruttori che accompagnano il mio cammino, hanno fatto sì che questo testo composto raccogliendo le risposte di Benedetti prima e di Villata poi, rimanesse senza introduzione e inedito. La notizia della morte di Mario Benedetti avvenuta il 27 marzo, e questo tempo di sospensione, di epochè, che stiamo vivendo, lo hanno riportato alla luce, da uno dei tanti depositi di oblio che si sedimentano nei nostri pc. A dieci anni di distanza, rileggendolo, mi sembra di vedere comporsi la foto di un legame autentico, che ha nutrito due sguardi capaci di attraversare il presente e restituirlo nelle sequenze in cui potremo tutti riconoscerlo, ricordarlo.
Come vi siete conosciuti? A quando risale la vostra amicizia?
M.B. A Milano, dove mi ero da poco trasferito, in occasione di un incontro in cui Gian Mario presentava il poeta friulano Amedeo Giacomini.
G.M.V. Cercherò di uniformarmi alla laconica precisione di Mario: è come dice lui. Aggiungo che ci conoscevamo già, però, reciprocamente “raccontati” da Stefano Dal Bianco, che con Mario aveva fondato in precedenza a Padova la rivista Scarto Minimo.
Come vi siete avvicinati alla poesia? Quali incontri, letture, esperienze sono state più importanti nella vostra formazione?
M.B. Io non posso ritenermi uno scrittore già bellamente avviato ad una carriera, a qualunque livello essa sia considerata. Potrei riconoscermi un poco nelle biografie del poeta russo Sergei Esenin o dell’artista figurativo Alfred Kubin: diciamo “talenti” irregolari. Io, nella mia misura, ho avuto una formazione diciamo “nascosta”, irregolare. Ma questo accade abbastanza spesso.
G.M.V. L’irregolarità della formazione riguarda anche me, e ha a che fare con la presenza – su piani diversi e mediante esperienze differenti– di interrogativi poetici e umani che non trovavano risposta né in un solo “autore” né in una specifica “carriera”. La mia cosiddetta “formazione” non è stata lineare, così come non lo è stata la sequenza delle cose che ho scritto, anche se, per me, in ogni passaggio ho trovato una forte motivazione.
Si può dire che avete esordito all’incirca nello stesso periodo, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Come si presentava il panorama della poesia a un ventenne-trentenne che dal Friuli iniziava a scrivere, a pubblicare?
M.B. Mi sono trasferito dal Friuli a vent’anni, quindi non credo, come talvolta leggo, di essere un poeta udinese o friulano. Non mi è mai interessato il panorama “ufficiale”, se non oggi, forse considerata la mia collaborazione all’Almanacco dello Specchio di Mondadori. I primi contatti li ho avuti per lettera con Franco Fortini, Amelia Rosselli e Milo De Angelis che allora dirigeva la rivista Niebo, che mi hanno intimamente sostenuto ed aiutato.
G.M.V. Ho studiato a Bologna, in cerca di un respiro che in Friuli non c’era. Deluso in parte dall’ambiente universitario, che mi aveva così tanto attratto (la “scuola” anceschiana e il suo entourage) ho guadagnato però qualche vera amicizia, nutrita di vera comune passione per la poesia e per gli studi. Tornato in Friuli, non ho mai smesso di coltivare questa passione, proponendo letture pubbliche e incontri con i poeti. Così ho avuto modo di conoscere direttamente molti scrittori di versi. Per molto tempo mi sono sentito abbastanza lontano, però, sia dai poeti noti che da quelli meno noti, fino a quando l’esperienza di approfondimento dell’opera di Andrea Zanzotto non mi ha permesso di riconoscere meglio alcune voci di “fratelli maggiori” e di “coetanei”, non molte, ma ancora oggi vicine.
E ora, dopo vent’anni, la situazione su cui si affaccia un giovane che scrive poesia vi sembra cambiata? Come giudicate, nel complesso, la generazione che è venuta dopo la vostra?
M.B. Dipende da chi è e da cosa vuole, da cosa ha dentro. La crisi della parola poetica, o della parola tout court, non inficia la possibilità di esprimere ancora universi importanti, di immettersi nel percorso di chi è stato e di chi verrà.
G.M.V. Sicuramente la situazione è cambiata, lo sfondo si è ristretto, l’ingorgo aumenta e il gorgo si fa più veloce. Però sono caduti molti divieti. Forse si arriverà a riconoscere che la necessità di essere “contemporanea”, per la poesia, non è quella di essere schiacciata sull’oggi, ma di tenere insieme, in tensione, più tempi dell’individualità e della relazione con gli altri, con le cose e con i luoghi.
Quanto avete condiviso nelle vostre strade di poesia? Quanto vi siete confrontati, letti a vicenda, consigliati?
M.B. Ho ricevuto uno stimolo non indifferente da Gian Mario. Mi è stato di grande aiuto in vari sensi.
Vose de vose contiene una sezione di brevi prose che mi hanno colpito in profondità e sulle quali ritorno, anche con libro alla mano, spesso.
G.M.V. C’è stato un periodo non breve in cui ci siamo confrontati spesso, perché sentivo che da Mario venivano pensieri e venivano anche le inquietudini non solo di una nuova voce, ma anche di una nuova poesia. Nuove contraddizioni, insomma. Allora ero immerso nei temi della poesia in dialetto. Mario mi ha mostrato perché non aveva senso distinguere quei temi da quelli della poesia in lingua italiana. Per un po’ di tempo gli ho detto che era un poeta neodialettale in italiano.
Che rapporto ha avuto la vostra terra, il Friuli, il suo paesaggio, la sua storia, nella vostra scrittura, nel vostro percorso di poeti?
M.B. Forse, con il doveroso rispetto delle proporzioni, come quello di Cesare Pavese con Santo Stefano Belbo e le Langhe. Ma ora non più.
G.M.V. Il rapporto è già dato, sempre, ma, paradossalmente, lo si riconosce nel momento in cui si inizia a reinventarlo nella poesia. Trovare la propria voce poetica è anche trovare lo sguardo capace di vedere ciò che gli sta intorno nella luce della propria origine.
E a proposito del dialetto, come pensate che abbia influito o continui ad influire nella vostra lingua?
Gian Mario, dall’esordio nell’‘88 al ’95 di Vose de vose, hai pubblicato versi sia in lingua che nel dialetto del tuo paese (Visinale di Pasiano), e sarebbe interessante sapere come hai lavorato in quegli anni, come percepivi le due lingue, e se ora, a distanza di più di un decennio, senti lo scrivere versi in dialetto come un’esperienza conclusa o ancora aperta, praticabile.
Mario invece hai mantenuto, pure nella grande diversità stilistica che si avverte tra Umana gloria (2004) e Pitture nere su carta (2009), la costante di introdurre alcuni inserti di versi in dialetto friulano (insieme ad altre lingue come il latino, il francese, il tedesco, in Pitture nere). Vorrei chiederti che cosa rappresenta il dialetto per te e se è cambiato, negli anni, il modo in cui ti sei avvicinato ai suoi suoni, alle sue parole. Infine, pensi che la parlata del tuo paese abbia inciso nei soprassalti, nelle slogature dei versi di Umana gloria?
M.B. La parlata friulana (la variante retoromanza orale) è la mia lingua materna. Nulla di più. La mia lingua naturale e di cultura nazionale è l’italiano; attraverso questa lingua filtro tutto, la mia sensibilità, ecc. Gli inserti di cui parli fanno parte, se vogliamo, di una sorta di poetica non dichiarata.
G.M.V. Ho scritto molto sull’argomento, in tempi diversi, e ora mi è assai difficile riassumere, se non così: la definitiva migrazione dei dialetti nel mondo dell’“italiano” (su questo dobbiamo interrogarci!) ha reso poco percorribile la via dialettale, preda oggi, peraltro, di opzioni ideologiche inaccettabili. Ritengo conclusa la grande stagione neodialettale novecentesca, senza intendere con questo conclusa l’inesauribile interrogazione sulla lingua, sulla sua pluralità e sulla sua unicità.
In questi ultimi anni uno di voi due, Gian Mario, è approdato al romanzo (pubblicando per Mondadori Tuo figlio, 2004 e Vita della mia vita, 2006); Mario invece aveva pubblicato all’inizio della sua storia una breve raccolta di prose intitolata La casa (1985), e ha sempre mantenuto, almeno fino a tutta Umana gloria, una particolare vicinanza tra la scrittura in versi e la prosa. Vorrei che mi parlaste del vostro rapporto con la prosa e con la narrazione.
M.B. I miei testi in prosa sono prose poetiche, dalla tradizione francese a Dino Campana, ecc. Non mi sono mai cimentato con il romanzo, credo che la sua struttura non appartenga alle mie corde.
G.M.V. Ho sempre scritto molto in prosa. Tra prosa e poesia ci sono enormi differenze e infinite identità, dipende dal livello di analisi: due persone possono apparire per quanto riguarda l’analisi delle cellule e del DNA quasi identiche, eppure essere diversissime, quando le abbiamo di fronte, basta guardarle, vederle muovere, parlarci.
Nei vostri ultimi libri di poesia è centrale, fin dal titolo, l’oscurità, l’assenza di luce: il buio nel quale si può imparare a vedere, a ricostruire sequenze e figure immerse nella memoria di Gian Mario Villalta (Vedere al buio, Luca Sossella, 2007) e il nero incandescente, spettrale, e insieme addensato di sedimenti biologici, delle formidabili “pitture” di Mario Benedetti (Pitture nere su carta, Mondadori, 2008). Potete parlarmi del vostro nero e del vostro buio?
M.B. Per me il libro Pitture nere su carta è la deflagrazione della mia vita e delle possibilità di considerarmi vivente con la continuità congenita alla vita stessa.
G.M.V. Se è vero che vediamo le cose sempre sotto una certa luce, più o meno forte o chiara, è anche vero che molto resta, o ritorna, nell’oscurità. Ci sono tempi in cui questa oscurità appare più incombente. Allora occorre imparare a “vedere” anche al buio. Allo stesso tempo, però, bisogna dire che anche le “ombre” insegnano qualcosa, soprattutto quelle che appaiono sullo sfondo (più chiaro, allora) del buio.
«Non c’è da stupirsi se questa generazione ha amato un poeta come Celan, perché la sua lirica ossessionata dalla violenza della deportazione (di persone, di lingua, di memoria, di paesi) dice qualcosa che – infinitamente meno tragico ma a sua volta sufficientemente drammatico – questa generazione ha conosciuto», scrive Gian Mario Villalta concludendo le belle pagine dedicate alla poesia di Mario Benedetti, in Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea. Vorrei che mi parlaste del vostro rapporto con Celan, di quando lo avete incontrato, di quando lo avete più amato e letto e di come la sua scrittura è stata per voi un riferimento.
M.B. Considero, per quanto la possa leggere essendo in lingua tedesca, una scrittura al limite dell’esperienza estetica che possiamo oggi avere.
G.M.V. Ero all’università quando ho letto la tanto (secondo me a torto) criticata antologia mondadoriana Poesie. Ne è nata un’ossessione, che mi ha portato a cercare tutto il leggibile e a seguire per due anni un corso di tedesco. L’enigma, per me ancora più importante di tutto, nell’opera di Celan, ancora adesso ma soprattutto allora, riguarda la sua volontà e capacità di inabissarsi nel negativo ancora con la fervida perenne ostinata volontà che la poesia ha di bellezza, di unità, di forma.
Per concludere: un verso o una coppia di versi che vi sono rimasti nella memoria e che, per qualche ragione, amate di più del vostro amico.
M.B. «E le galline, le pietre, i cancelli, i meli / non stanno più nel nome. / Vengono un poco per dirci addio»
G.M.V. «L’alto sono gli occhi che vengono a guardare / sul cielo che resta fermo ogni sera, sparso di alberi davanti».
[Immagine: Foto di Dino Ignani].