di Andrea Cortellessa

 

Non è l’unico luogo misterioso (o misterico) di Palermo, ma è senza dubbio quello dal maggior blasone letterario. Nella stanza 224 del Grand Hotel et des Palmes, in via Roma, la mattina del 14 luglio 1933 venne rinvenuto su un materasso steso a terra il cadavere del 56enne Raymond Roussel. Cominciava così un mistero che ancora oggi, quasi novant’anni dopo, è tutto meno che risolto. Ne è non meno che ossessionato, per esempio, un artista fra i più “letterati” del nostro tempo, Luca Trevisani: che già nel 2015 ha tenuto al locale Museo Civico di Castelbuono una mostra dal titolo Grand Hotel et des Palmes; tre anni dopo, in occasione di Manifesta 12, è riuscito ad allestire, nelle stanze dello stesso albergo, l’evento Raymond (disseminando gli spazi comuni dell’Hotel, e appunto anche diverse sue stanze, di “oggetti a scomparsa”, opere mimetizzata e altre proteiformi presenze); nella stessa occasione ha pubblicato il libro d’artista Via Roma 398. Palermo, pubblicato da Humboldt Books; e ha invitato un certo numero di suoi colleghi a passare una notte nell’ominosa stanza 224, chiedendo loro il permesso di riprendere il loro sonno (o la loro insonnia) con una telecamera a infrarossi: il risultato è l’ulteriore video-opera 224, affatturante oneirodramma corale presentato al MAXXI poco prima del lockdown e ora a sua volta conservato a Castelbuono.

 

La Repubblica dei Sogni è un sintagma dello stesso Roussel: ripreso nel titolo da uno dei diversi saggi dedicatigli negli anni Settanta da John Ashbery, e poi dalla biografia di Mark Ford pubblicata nel 2000. Il sogno di Roussel è un genitivo la cui ambivalenza, soggettiva e oggettiva (come quella della Cognizione del dolore di Gadda), genera una reciprocità, un chiasmo: noi sogniamo Roussel, magari cercando una soluzione al suo enigma. Ma, così facendo, all’improvviso ci accorgiamo che è Roussel a sognare noi: e forse non ha mai smesso di farlo, da quell’interminabile notte d’estate in Sicilia.

 

Fu ritrovato la mattina dopo, l’autore di Locus Solus, con indosso «camicia bianca da notte, mutande bianche, calze nere e magliettina di filolana colore champagne». Così suonava il verbale di polizia. Aggiungendo che «il Roussel […] era ammalato al cervello e pigliava dei medicinali per stordirsi», e deducendone che «avendo esagerato nella dose dei farmaci, si sia cagionato la morte». Sono anche le prime righe, queste, di un breve scritto pubblicato da Leonardo Sciascia, nel marzo del 1971, sul «Mondo» (nonché, poche settimane dopo, in uno dei primi libri pubblicati, ancora colla sigla «Edizioni Esse», dagli amici Enzo Sellerio ed Elvira Giorgianni; nel libro di Trevisani pubblicato da Humboldt è compresa anche la sua prima traduzione in inglese).

 

Classico dettaglio “giallo”, la porta trovata chiusa dall’interno; e così quella con la stanza comunicante, dove pernottava la signora con la quale Roussel era giunto a Palermo un mese prima. Altrove alloggiava il terzo componente del ménage, il giovane autista della «sontuosa e funebre roulotte» nella quale l’ineffabile scrittore-magnate, nel corso dei suoi interminabili viaggi, passava quasi tutto il tempo: come per incanto il ragazzo, quella mattina, risultava sparito dalla circolazione. Sfogliando le carte dell’inchiesta – i suoi Atti, appunto – Sciascia passa in rassegna i dettagli che non tornano. Loro malgrado, l’indagine di polizia fu «di una rapidità impressionante»: «e sì», commenta, «che i tempi erano sospettosissimi». Osserva poi che i giornali non diedero notizia del fait divers; i suicidi non erano graditi dalle veline di regime, si sa, in quanto sintomo dell’«impossibilità di vivere nell’Italia fascista». E conclude che (proprio perché qualche giorno prima, a quanto pare, aveva già tentato il suicidio ma in circostanze del tutto diverse: debolmente incidendosi i polsi con una lametta di rasoio) «quella sera Roussel non voleva morire; voleva, crediamo, soltanto dormire».

 

Al di là della verosimiglianza della sua ricostruzione (che, come spesso le sue in questi casi, gli è stata più volte contestata), a interessarci oggi non è tanto il metodo indiziario di Sciascia, quanto quello letterario. Il decennio precedente gli aveva dato il successo coi “gialli”, appunto, Il giorno della civetta e A ciascuno il suo (il cui protagonista, insoddisfatto di quelle ufficiali, a sua volta svolge indagini private su una morte misteriosa) mentre era passato inosservato, nel ’64, un primo “saggio-racconto” dal titolo Morte dell’Inquisitore. Nello stesso ’71 Il contesto sarà un nuovo tipo di giallo, in un Sud America d’invenzione dall’allegorica matrice gaddiana. Ma il decennio sarà segnato da altre due «inquisizioni» personali: nel ’75 La scomparsa di Majorana (su un altro caso “eccellente” degli anni Trenta) e nel ’78 L’affaire Moro: giro di vite scritto del “metodo”, allestito come fu durante il rapimento e pubblicato a cadavere caldo. Gli anni Ottanta, infine, saranno il tempo di quelle che Sciascia chiamerà Cronachette (come Il teatro della memoria, sul caso dello “smemorato di Collegno”), che si lasceranno preferire ai suoi romanzi di finzione.

 

Come ricorda il curatore della nuova edizione adelphiana, Paolo Squillacioti, sul «Mondo» gli Atti recavano l’indicazione di «racconto giallo dal vero»: e il punto è proprio questo vero. La manualistica indica sempre nel ’66 l’atto di nascita del non-fiction novel, con A sangue freddo di Truman Capote; e, con l’eccezione di Arturo Mazzarella (Politiche dell’irrealtà. Da Gomorra ad Abu Ghraib, Bollati Boringhieri 2011), quasi nessun lettore di Sciascia ha mai considerato in questa chiave la sua “svolta” anni Settanta: che ne farebbe invece tra i primissimi interpreti italiani del genere (anche a non voler considerare La morte dell’Inquisitore, che addirittura precederebbe la presunta fondazione d’oltreoceano). Un vicolo cieco che deriva dall’equivoco in cui quasi sempre, nel parlare di non-fiction, ci s’imbatte: col ricondurla al «ritorno alla realtà» volontaristicamente propugnato, in filosofia e nelle arti, una volta esauritasi la spinta propulsiva delle poetiche postmoderniste. Ma proprio l’esempio di Sciascia dovrebbe chiarire come le cose siano un po’ meno banali di così.

 

Nelle conferenze intitolate Il punto cieco, riguardo ai suoi “romanzi di fatti” Anatomia di un istante e L’impostore (traduzione di Bruno Arpaia, Guanda 2016), Javier Cercas ha spiegato come «il romanzo non sia il genere delle risposte, ma quello delle domande». Un “vero” romanzo non può far altro che «immergersi in un enigma per farlo diventare irresolubile, non per decifrarlo». Parole che sembrano replicare, quasi quarant’anni dopo, appunto quelle di Sciascia nel libro-intervista di Marcelle Padovani, La Sicilia come metafora (Mondadori 1979): «l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola, anche rendendola più oscura, per come la realtà spesso è». Seguiva l’esempio proprio del «caso di Raymond Roussel»: «cercandovi un filo conduttore e un chiarimento, temo di non aver reso le cose più chiare, ma anzi più oscure. C’è però una differenza tra quest’oscurità e quella dell’ignoranza: non si tratta più dell’oscurità dell’inespresso, dell’informe, ma al contrario dell’espresso e del formulato». In quello stesso ’79 il titolo di Nero su nero andrà letto, allora, non tanto come autoironico nei confronti del “pessimismo” che gli veniva rimproverato, ma quale preciso indirizzo di lavoro: all’oscurità di una realtà come spesso è aggiungendosi il nero d’inchiostro di colui che, sforzandosi di decifrarla, finisce per renderla ancora più oscura. Sino al punto cieco di cui parlerà Cercas.

 

Proprio quando la si marca più stretta, quando la si insegue coi protocolli d’analisi più raffinati, quando per accertarla si mettono in campo energie smisurate (sino alle vere e proprie ordalie documentarie dispiegate da uno dei massimi scrittori del nostro tempo, William T. Vollmann), della tanto sospirata realtà, alla fine, non resterà che il calco vuoto del desiderio. La sua ricerca, la sua promessa. Come in un motto famigerato di Tommaso Landolfi: «non hanno più meta le nostre pigre passeggiate, se non la realtà». Come nella Costituzione degli Stati Uniti s’invoca non la felicità, che sarebbe ridicolo, bensì «la ricerca della felicità», e come la bellezza per Stendhal della stessa felicità non è che una «promessa», altrettanto si può dire che ogni “vera” arte sia una ricerca della realtà: a patto che si dia per assunto che la definizione ultima, di tale obiettivo, è impossibile.

 

Sebbene proprio in Nero su nero dica Sciascia che in effetti Roussel non gli interessava in quanto scrittore (ad attrarlo era semmai «il suo non essere scrittore»), a rileggere gli Atti col senno dei capolavori successivi, il libro su Majorana e quello su Moro, colpisce un dettaglio. Due anni dopo la morte verrà pubblicato un saggio-memoriale di Roussel, Come ho scritto alcuni dei miei libri (si legge in appendice all’edizione di Locus Solus curata da Paola Décina Lombardi per Einaudi nel 1975), dal quale si deduce come l’insuperata bizzarria del suo stile fosse tutt’altro che naïve. Al di là del contenuto (che salerà il sangue alle avanguardie di due generazioni), di questo testo sulle “procedure” colpisce appunto la particolare “procedura”: un anno prima della morte, infatti, Roussel lo fa stampare senza tuttavia pubblicarlo (e parrebbe anzi destinarlo, nelle ultime righe, alla «postuma fioritura di interesse nei confronti dei suoi libri»). Ma non è simile la natura – indecibile se dagli interessati pensata o meno come postuma – degli ultimi messaggi di Majorana e Moro? Un dettaglio in apparenza marginale, ma che non pare si possa considerare tale, per uno scrittore come Sciascia. E che forse dovrebbe indurci a riaprire anche gli Atti relativi al suo, di “caso”.

 

Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, a cura di Paolo Squillacioti, «Biblioteca minima» Adelphi, 2020, pagg. 69, € 7.

 

[Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Sole 24 ore» lo scorso 5 aprile]

 

[Immagine: da Luca Trevisani, 224].

5 thoughts on “La Repubblica dei Sogni. Sul Roussel di Sciascia

  1. “Una carnevalata, la folla immensa e il chiasso di Palermo in quei giorni, tra adunate ed osanna per la crociera di Balbo, e i fuochi per la festa di Santa Rosalia: come Sciascia ha controllato.
    Egli [Roussel] aveva sempre associato il sangue, il sapore del sangue all’atto della creazione. Lo scrittore sanguinava inchiostro.”

    Giovanni Macchia, L’ultima macchina di Roussel ovvero la luce, l’estasi, il sangue in Leonardo Sciascia, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, Sellerio, Palermo, 1979 p. 78

  2. “ Venerdì 26 novembre 1999 – In fondo, penso, se non ho viaggiato, è anche perché mi piace leggere. Leggere tutto, anche i giornali. Per esempio stamani c’è un divertente articolo di Paolo Mauri sulla polemica che dice è scoppiata a Torino intorno al fatto che un attore vuole leggere quello che scrisse la Ginzburg sul suicidio di Pavese e vuole farlo proprio nella stanza d’albergo in cui Pavese si suicidò. L’articolo è divertente perché Mauri coglie l’occasione per fare una specie di elenco di suicidi di scrittori in albergo. A parte quello di Pavese – in un giorno che non ricordo dell’agosto 1950, all’Hotel Roma, stanza 49 – oggi 346, puntualizza Mauri -, c’è quello di Raymond Roussel, il 14 luglio 1933, a Palermo, Grand Hotel des Palmes, stanza 224, e quello di Ernst Toller, il 22 maggio 1939, a New York, Hotel Mayflower, stanza 572. E poi chissà quanti altri. Si potrebbe farci un libro. Anzi una guida turistica. Mi sembra strano che non l’abbiano già fatto. “

  3. “La parentesi di Roussel.
    Prima di cominciare l’enumerazione dei differenti impieghi di questo simpatico segno, vogliamo fare … una parentesi, consacrata a chi in precedenza ha saputo usarla da virtuoso prodigioso, il Raymond Roussel delle Nouvelles impressions d’Afrique, e che non ha esitato a scavare una parentesi nella parentesi e ancora un’altra ancora all’interno della prima e così fino alla quinta generazione; per giunta egli rafforza quella che Foucault denomina ‘ la foresta concentrica di parentesi’ con l’uso di trattini supplementari e di note a piè di pagina”.

    Jacques Drillon, Traité de la ponctuation française, Gallimard, Paris, 1991 pp. 258-9

  4. “ Martedì 17 febbraio 2004 – Rileggo – per meglio dire: ho ripreso in mano – Le Temps immobile di Claude Mauriac. È il primo volume (uscito nel ‘74). Comincia a Venezia, con qualche diario del settembre 1936, poi, sempre a Venezia, improvvisamente, si trasferisce nel ‘72. Poi nel ‘73. Leggo: « Venise, dimanche 2 septembre 1973 – Le théâtre de la Fenice, en face duquel nous habitons, à l’l’hôtel du même nom, porte les nos 1972-1973. Notre l’hôtel, les nos 1936-1937. Devant nos fenêtres, autres années de ma vie, 1925-1926. Et, de maisons en maisons, toutes les dates du passé et de l’avenir: 1736 en face de 1828, sur le chemin de San Marco; 1663, là où nous prenons nos repas, à la Colomba. Ailleurs, 2163, 2761, et de millésimes plus lointains encore. L’année de notre naissance et celle de notre mort, à tous, sur les maisons de Venise, depuis et pour des millénaires…… et là, une fois de plus, je tombe, avec ces symétries aberrantes et ce délire logique, dans d’absurdes constructions à la Roussel, à la fois nécessaires et démentes. » “.

  5. “Più vicino a Bunuel, Raymond Roussel, autore amato dai surrealisti, sviluppava delle ‘scene’ o delle ripetizioni raccontate due volte: in Locus Solus otto cadaveri in una gabbia di vetro riproducono l’evento cruciale della loro vita; e Lucius Egoizard, artista e geniale scienziato, diventato pazzo dopo l’assassinio della figlia, ripete in continuazione le circostanze dell’omicidio, fino a quando inventa una macchina che registra la voce di una cantante, la deforma e rende tanto bene la voce della ragazza morta da risarcirgli tutto, figlia e felicità.”

    Gilles Deleuze, Cinéma I. L’image-mouvement, Les éditions de minuit, Paris, 1985 p. 185

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