di Giuseppe Zaccaria e Luca Illetterati

 

[Esce in questi giorni per Padova University Press Dopo l’emergenza. Dieci tesi sull’era post-pandemica, a cura di Giuseppe Zaccaria. Il libro è scaricabile gratuitamente sul sito di Padova University Press. Nel libro il curatore propone dieci tesi, dalle quali a suo avviso è necessario partire per ripensare la nostra vita sociale dopo la crisi prodotta dalla pandemia Covid-19, chiamando a rifletterci dieci personalità del mondo della cultura, della scienza, della comunicazione e della politica. Pubblichiamo le dieci tesi del curatore, seguite dall’intervento di Luca Illetterati relativo alla sesta tesi sul rapporto tra scienza e politica]

Giuseppe Zaccaria

Riflettere sulla pandemia. Dieci tesi sull’era post-pandemica

 

Le ferite profonde originate dall’effetto coronavirus ci insegnano molte cose, e soprattutto ci costringono a rimettere in discussione una serie di temi nevralgici per la nostra esistenza individuale e collettiva. Molte narrazioni sono andate in frantumi e c’è bisogno di riflessione. A condizione di rinunciare a rifugiarsi nei propri pregiudizi e nelle proprie certezze ideologiche e di mantenere uno spirito critico, è indispensabile fermarsi a pensare sulle le macerie della crisi immane che la pandemia ci lascia, per capire se sotto di esse possano crescere, al di là delle retoriche stucchevoli delle ferite che divengono opportunità, nuove idee per il futuro. Da questo punto di vista il virus ha agito nei diversi Paesi come un pettine impietoso, in modi differenziati in relazione alle diverse capacità di risposta, e ha evidenziato la necessità di misurarsi con una serie di nodi e di problemi troppo a lungo colpevolmente trascurati; ma contemporaneamente esso ha operato come un forte acceleratore storico di processi sociali ed economici che oggi si ripresentano sotto il segno drammatico dell’urgenza e dell’incertezza e la cui ennesima sottovalutazione avrebbe per effetto di pregiudicare in modo irreparabile la possibilità di un futuro un po’ meno precario ed incerto.

 

PRIMA TESI

PANDEMIA E GLOBALIZZAZIONE: MISERIA DEL SOVRANISMO

 

Una cosa la pandemia ha mostrato con chiarezza: la connessione tra un grande e distruttivo processo, senza precedenti, di tipo sanitario, sociale ed economico e le vite di ciascuno di noi. Senza dubbio la pandemia è un problema globale, che ha svelato l’inganno del sovranismo. Piccolo o grande che sia, il sovranismo svela tutta la sua inconsistenza e la sua impotenza di fronte a problemi giganteschi, come quello della prevenzione delle epidemie, della necessità di una logica di cooperazione nella ricerca di antidoti e nello scambio di dati, della necessità di una medicina e di una tecnologia d’eccellenza, indispensabili per combattere sfide così rilevanti ed invece impossibili in una logica di chiusura provincialistica ed autoreferenziale. Altro che sovranismo isolazionista, serve una solidarietà globale.

 

Ma al tempo stesso, la globalità della pandemia apre anche delicati meccanismi psicologici nelle nostre vite individuali. Si aprono così dinamiche ambivalenti. Da un lato il singolo si sente incapace nella sua fragilità di fronteggiare eventi e fenomeni che lo sovrastano; dall’altro ciascuno ha potuto toccare con mano quanto importante sia la responsabilità individuale, la rilevanza per il futuro (e questo vale anche per il cambiamento climatico e la distruzione dell’intero ecosistema, e non a caso molti parlano di una continuità tra crisi ambientale e pandemia) del comportamento di ogni singolo in quanto membro di una comunità.

 

SECONDA TESI

UNA DIVERSA DIMENSIONE DEL TEMPO E DELLO SPAZIO

 

Un secondo aspetto rilevante è costituito dalla diversa dimensione del tempo e dello spazio che abbiamo sperimentato e che dovremo sperimentare anche nel futuro. Questo mutato rapporto spazio- tempo indurrà profondi mutamenti nei processi lavorativi e negli usi degli spazi privati e pubblici. Maggior ricorso allo smart-working, mobilità ridotta, minor numero di viaggi, maggiore disponibilità di tempo a casa, rarefazione dei rapporti fisici (anche di quelli più banali ed effimeri) imporrano una ri-modulazione dei tempi di vita individuali e collettivi e la ricerca di un equilibrio diverso nella produzione e nei consumi rispetto al frenetico e talora insensato agitarsi che caratterizzavano l’era pre-pandemica. Si porrà il problema di un uso diverso del tempo, della consapevolezza della sua preziosità non solo in senso economicistico ed opportunistico, ma in un quadro di più equilibrata e matura capacità esistenziale di utilizzarlo e di non sprecarlo.

 

TERZA TESI

INDIVIDUARE I PROBLEMI VERI E LE VERE RELAZIONI

 

Nelle scorse settimane abbiamo riscoperto la possibilità di distinguere meglio tra problemi veri (la salute, gli affetti, il clima, i bisogni più profondi) e problemi futili, che tanto spesso ci angustiano inutilmente, tra persone che contano e ci interessano e rapporti superficiali e poco produttivi, tra disinformazione e ricerca di un’informazione più seria e accurata. Occorre studiare nuovi modi di comportamento, di lavoro e di vita sociale. Si impone anche la necessità, difficilmente aggirabile, di ridefinire una scala di valori, di non disperdere nel giro di breve tempo quel prezioso senso di solidarietà e di comunità che abbiamo capito rappresentare una risorsa fondamentale in tempi angosciosi di difficoltà e di incertezza. C’è bisogno, anche nel rapporto con gli altri, di trovare “la giusta distanza” tra il cieco individualismo degli anni passati ed un senso di comunità che non sia soltanto retorico e finisca per essere abusato negli spot televisivi. Abbiamo un “interesse” comune alla solidarietà, perché i soggetti più deboli rendono più fragile l’intero sistema sociale, cosicchè la pandemia, con i suoi effetti disarmonici e imprevedibili sul piano economico, rischia di destabilizzare l’intero sistema sociale.

 

QUARTA TESI

IRRINUNCIABILITA’ E PERICOLI DELLA TECNOLOGIA

 

L’esperienza degli ultimi mesi, in cui si è assistito ad una forte accelerazione nell’uso delle tecnologie, ci è stata utile per capire meglio l’ambivalenza della tecnologia. Da una parte la sua irrinunciabilità, se pure non ha saputo prevedere la catastrofe: essa ci è indispensabile per sopravvivere nel lockdown, per continuare a lavorare da remoto, per rimanere collegati a persone lontane, per fornirci di merce, per sostituire, come sempre più spesso avviene, molte attività umane. Ma dall’altra parte è evidente come essa possa determinare un impoverimento delle relazioni sociali e dei rapporti tra le persone, sterilizzati e ridotti alla fredda asetticità della macchina. Le relazioni tra le persone non possono ridursi alla tecnologia delle connessioni digitali. Agli anziani chiusi in casa dal lockdown si poteva forse parlare on line, ma non consegnare il pacco della spesa. Solo per fare un altro esempio: se non circoscritto a precisi progetti mirati di crescita, l’insegnamento generalizzato a distanza nelle scuole e nelle università, trasformato da eccezione in regola, distruggerebbe l’esperienza umana e intellettuale della formazione, fatta di incontri e di scambi concreti tra docenti e studenti. Entrambi verrebbero privati di luoghi fisici in cui comunicare e porsi in relazione, e della possibilità di mettere in moto non solo fredde nozioni virtuali, ma anche processi emotivi e cognitivi di crescita personale e sociale.

 

La tecnologia può inoltre determinare profili inquietanti di distruzione della privacy e di sorveglianza sociale. Fino a che punto la privacy potrà essere compressa e fin dove dovremo essere controllati? Anche senza contare la miriade di Dpcm, che in una sorta di delirio pangiuridicista hanno definito nel modo più dettagliato e minuto ciò che possiamo e che non possiamo fare, si impone in modo acuto il problema dei limiti da apporre all’invasione tecnologica che entra nel dettaglio delle nostre abitudini e dei nostri comportamenti e ci espone all’offensiva di infiltrazioni “digitali” da parte di Paesi stranieri. Già oggi il Presidente della Regione Veneto, il Direttore Generale della Sanità Veneta e i singoli Direttori Generali hanno la possibilità di conoscere minutamente una serie di dati sensibili di tutti i cittadini veneti. Cosa succederebbe se invece che essere impiegate per il nobile fine di contrastare l’epidemia, queste conoscenze fossero utilizzate per condizionare politicamente fasce di elettorato o per scopi di natura commerciale?

 

QUINTA TESI

IL FUTURO DELL’ECONOMIA, DELL’ ISTRUZIONE E DELLE CITTA’

 

Lo Tsunami economico che il coronavirus lascia sul campo avrà per effetto un vertiginoso aumento dei tassi di disoccupazione: interi settori produttivi ne risulteranno distrutti, altri invece realizzeranno enormi profitti. Aumenteranno così drammaticamente le disuguaglianze economiche, sociali e culturali tra Nord e Sud, tra città e province. Al generale impoverimento del reddito in Italia corrisponderà prevedibilmente una crescita di distanza dagli altri Stati europei. Ricchi e privilegiati si barricheranno in ghetti dorati, lasciando moltissimi altri nella povertà e nell’ esclusione. Che ne sarà dei giovani che senza alcuna tutela hanno assicurato in questo periodo il funzionamento dei servizi di delivery? Diminuiranno i viaggi, le interazioni e gli interscambi globali, aumenteranno le videoconferenze e i rapporti virtuali, gli orari di lavoro diverranno più flessibili. Sarà necessario riportare all’interno del Paese anelli di catene di produzione che si sono rivelati indispensabili per fronteggiare l’emergenza, per non alimentare pericolose dipendenze strategiche dall’aiuto non certo disinteressato di altri Paesi.

 

A causa del digital divide tra aree più e meno sviluppate e del fatto che già oggi il 30% degli italiani rinuncia a proseguire nell’istruzione a livello superiore, verranno messi in discussione i diritti fondamentali all’istruzione e al “pieno sviluppo della persona umana” previsti dalla Costituzione.

Le nuove povertà riguarderanno sicuramente i soggetti deboli e meno tutelati e si assisterà ad una crescita della dispersione scolastica e dell’isolamento sociale ed educativo delle fasce sociali più deboli.

 

Che ne sarà del futuro delle città? Verranno distrutti gli spazi pubblici? Conserveranno una funzione le piazze e i luoghi di aggregazione? In un quadro di maggiori difficoltà per una mobilità di massa e di limitazione delle concentrazioni di massa, come dovranno essere ripensati i trasporti, i quartieri, i rapporti tra centro e periferia? Sarà possibile rivitalizzare i negozi di vicinato e reinventare servizi nuovi distribuiti sul territorio? L’incentivazione dei mezzi di trasporto green scongiurerà almeno in parte il ritorno massiccio al trasporto privato?

 

SESTA TESI

LA SCIENZA E LA RISCOPERTA DELLE COMPETENZE

 

Gli ultimi mesi hanno costretto a riscoprire la necessità delle competenze, quelle vere non quelle improvvisate che si esibiscono nei talk show, che mettono in un unico, indistinto calderone virologi e patologi, epidemiologi e immunologhi. Le competenze vere servono, eccome, per costruire scelte sanitarie e politiche economiche attrezzate e consapevoli, per disegnare scenari futuri attendibili, non per cancellare l’ignoto. C’è grande bisogno di conoscenza. Ma questa importante rivalutazione della scienza e della trasversalità del sapere, oggi più che mai necessaria in una società complessa, non deve condurre a credere che la scienza sia tutto. Si tratta di evitare che essa divenga ciò che deve decidere del nostro vivere sociale, che venga cioè investita di una dimensione politica che in questo senso le è estranea. La scienza autentica è abitata da dubbi, da incertezze, da verità provvisorie, da correzioni; l’immagine della scienza che viene invece veicolata dai salotti televisivi e anche da molti politici timorosi è quella di chi possiede certezze inconfutabili. Dobbiamo chiederci quali problemi la scienza sia davvero in grado di contribuire a risolvere, quali ne siano i limiti e non chiederle ciò che essa non può dare.

 

SETTIMA TESI

LA CENTRALITA’ DELLA DECISIONE POLITICA

 

Assieme alle titubanze di chi si rifugia dietro i pareri inappellabili dei Comitati tecnico-scientifici, l’esperienza della lotta al coronavirus ha mostrato la centralità e comunque l’irrinunciabilità della decisione politica. Sapere è diverso da decidere. Alla fin fine ciò che conta è l’assunzione di una responsabilità politica forte e chiara davanti al cittadino. Scienziati e tecnici non hanno sicuramente nessuna delega. Nella fase dell’emergenza i governi hanno cercato di fare del loro meglio di fronte ad uno scenario inedito, talora hanno preso decisioni drammaticamente sbagliate e sono stati costretti a precipitosi dietrofront, ma il cittadino ha capito, fuori dalle strumentalizzazioni di piccolo cabotaggio, che possono sbagliare. Meglio avere il coraggio di ammetterlo, come ha fatto Macron, piuttosto che mentire all’opinione pubblica. Ma ora la politica ha bisogno di sguardi alti, che trascendano la contingenza della quotidianità e che riaccendano la speranza dando il senso di un progetto comune, consapevole della specificità di una storia nazionale e capace di ridare prospettive e visioni per il futuro. C’è bisogno di leadership che uniscano le società e non le dividano, che aiutino le persone a tenere sotto controllo le paure, non ad aizzarle. Le decisioni che oggi si assumono sotto la pressione dell’urgenza peseranno sicuramente molto sul futuro del Paese e delle future generazioni, che dovranno pagare il conto salatissimo dell’ulteriore crescita del debito pubblico.

 

Guai se la statualità oggi necessaria dovesse tradursi in statalismo, contrabbandato per stato di necessità, se si dovesse stimolare esclusivamente un atteggiamento di tipo assistenzialistico e passivo, deresponsabilizzato e poco propenso ad attivarsi e a reagire con audacia e coraggio; ma guai anche se dovesse prevalere un’attitudine cinica e sfiduciata, prigioniera della frustrazione e del sospetto, o peggio dell’atteggiamento arrogante di chi sa esattamente dove va il mondo.

La pandemia ha mostrato impietosamente tutta l’inadeguatezza della politica praticata negli ultimi anni, quella che ha affidato la vita e il futuro di tutti noi a soggetti improvvisati, quasi capitati per caso, espressioni talora di residualità sociale.

 

OTTAVA TESI

IL FUTURO DEGLI STATI E DELLA GEOPOLITICA

 

Non c’è dubbio che l’epidemia ha permesso di evidenziare il ruolo irrinunciabile degli Stati, che nonostante la loro crisi e il loro ridimensionamento rimangono come attori essenziali nel fronteggiare le emergenze e nel limitarne i danni. Anzi si è assistito ad una regressione di tipo hobbesiano: pur di salvare la propria vita il cittadino ha consegnato i propri diritti nelle mani dello Stato. Positiva può essere la riaffermazione del ruolo strategico del settore pubblico, ma rimane il pericolo di un’involuzione decisionistico-autoritaria (marginalizzazione dei Parlamenti, compressione delle libertà individuali) non solo negli Stati caratterizzati da regimi di “democrazia illiberale”, ma anche in quelli di (apparentemente) maggiore solidità democratica.

Rimane peraltro, almeno nell’Unione Europea, l’impossibilità di prescindere dall’aiuto e dal sostegno di istituzioni comunitarie tanto vituperate e oltraggiate e indubbiamente anche in questo caso divise e inizialmente incerte, ma indispensabili per evitare la bancarotta di Stati fondatori dell’Unione, ma anche il collasso dei rapporti economici e commerciali intraeuropei.

 

Sullo sfondo dei colpi della pandemia, si sta consumando una dura competizione per ridefinire nuovi equilibri geopolitici, più attenti ai pericoli di un’incontrollata penetrazione cinese ma anche ai rischi di una superpotenza americana drammaticamente inadeguata ad un ruolo di guida e di orientamento multilaterali. Indubbiamente chi risulterà vincitore nella corsa al vaccino e alla protezione antiepidemica godrà di un consistente vantaggio strategico.

 

NONA TESI

IL FUTURO DELL’OSPEDALIZZAZIONE E DELLA MEDICINA

 

Dopo anni di colpevole indifferenza e di irresponsabili tagli alla sanità per strutture, personale e ricerca (quasi del 40% negli ultimi 8 anni!) – cause non ultime dell’emergenza- si è compresa in pieno la crucialità di disporre di un modello di ospedalizzazione e di sanità efficiente e pronto ad affrontare flessibilmente crisi ed emergenze inedite, non solo con centri di alta specializzazione, ma anche con una capillare capacità di intervento sul territorio; e con un sistema di collaborazione più efficace e leale tra lo Stato centrale, le Regioni e le Autonomie locali. Si è anche compreso fino in fondo la rilevanza di un predominante presidio di sanità pubblica, gestito da persone di sicura competenza e non da figure scelte sulla base di logiche solo partitiche, ma anche che l’occasione del virus potrebbe permettere di porre le basi per una migliore politica sanitaria nei paesi più poveri del pianeta.

 

Si dovrà quindi investire molto di più in ricerca, in attrezzature e nel personale, lavorare molto in prevenzione, con un nuovo equilibrio tra medicina del territorio e ospedalità, tra pubblico e privato.

Per favorire la sicurezza e per la riduzione del rischio occorre un approccio flessibile, proattivo e non difensivo o semplicemente reattivo.

 

DECIMA TESI

PREPARARE IL FUTURO

 

Nel giro di poche settimane migliaia di famiglie sono precipitate nella sofferenza e nel dolore e milioni di persone sono passate da condizioni minime di autonomia e di benessere alla povertà e all’indigenza della disoccupazione. La povertà economica rischia rapidamente di trasformarsi in disperazione e in povertà spirituale.

La rovina sociale porta con sé ancora maggiori difficoltà di inserimento/re-inserimento nel mondo del lavoro per donne, giovani, precari, adulti maturi.

Sono essenziali maggiore solidarietà e coesione sociale. Non sprechiamo gli insegnamenti di questa crisi amara e le difficili lezioni che ci lascia. Dovremo essere più locali, ma anche avere uno sguardo più ampio per trovare soluzioni più globali. Il futuro va preparato oggi.

 

* * *

Luca Illetterati

La scienza e la riscoperta delle competenze

 

 

Nei giorni più difficili della crisi pandemica, quando ci si attendeva dagli scienziati indicazioni precise e sicure su quanto stava accadendo e sui comportamenti conseguenti che dovevano essere adottati, mi è venuto in mente un episodio che riguarda Ludwig Wittgenstein e che viene raccontato nella sua biografia scritta da Ray Monk. Il pensatore che nel Tractatus logico-philosophicus aveva detto che su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere, intendendo con questo dire che ciò che può essere detto sono di fatto solo proposizioni della scienza naturale, negli anni ‘30 girando per Cambridge e vedendo nella vetrina di un negozio di libri i ritratti di Freud, Einstein e Russell e poi accanto, in quella di un negozio di dischi, i ritratti di Beethoven, Schubert e Chopin, disse a un amico: “confrontando questi ritratti sono rimasto profondamente colpito dalla terribile degenerazione dello spirito umano nel corso di non più di cent’anni”[1].

 

Quello che Wittgenstein osservava con una qualche forma di evidente disappunto, era l’ingresso in un’epoca dominata dallo spirito della scienza, nella quale, sempre secondo Wittgenstein, gli scienziati erano diventati quello che un tempo erano stati gli artisti e i filosofi, ovvero coloro che segnavano le coordinate dentro le quali andava assumendo corpo lo spirito della vita e del tempo. Wittgenstein – che non può certo essere accusato di essere un pensatore anti-scientifico – vedeva con preoccupazione questa torsione, in quanto essa rischia di far pensare che tutto ciò che riguarda la nostra vita – la dimensione più intima della nostra esistenza, ma anche tutto che riguarda le decisioni relative al nostro essere una comunità – possa essere regolato in modo immediatamente conseguente e coerente dal sapere scientifico, come se le conoscenze scientifiche fossero in grado di produrre in modo automatico decisioni e scelte di vita.

 

Wittgenstein aveva ovviamente ragione. Non c’è di fatto oggi nessun’altra manifestazione spirituale che sia in grado di costituire una base di credenze determinanti per la nostra vita altrettanto potente di quella della scienza. Non lo sono le religioni, ad esempio, che non a caso si sono perlopiù piegate nei giorni più caldi della pandemia – suscitando anche l’insensato scandalo di qualcuno – alle indicazioni che trovavano il loro fondamento in quanto la comunità scientifica andava dicendo. Non lo sono le ideologie secolari, nessuna delle quali appare oggi in grado di incidere in modo davvero stringente sui sistemi di credenze che fanno da sfondo alle vite degli individui.

 

E tuttavia, per quanto a un livello diverso di considerazione, il mondo contemporaneo sembra anche smentire la diagnosi wittgensteiniana. Il mondo dei social network, il mondo della propaganda, il mondo del “si dice” globalizzato, delle opinioni tutte poste sullo stesso livello, sembra mandare in frantumi l’autorevolezza del discorso scientifico e con essa, conseguentemente, l’idea che la scienza sia in grado di essere la struttura fondamentale di governo dell’esistente.

Affrontare questo problema richiede una riflessione sulla percezione sociale della scienza e quindi sui rapporti fra scienza e comunicazione e ancora più radicalmente fra scienza e politica.

 

Tanto i mezzi di comunicazione quanto la comunità scientifica hanno un’enorme responsabilità nel veicolare le questioni di cui la scienza discute. Per comunicare la scienza è necessaria una consapevolezza che non solo spesso chi fa comunicazione non possiede, ma che talvolta gli stessi scienziati che pretendono di comunicarla mostrano di non possedere. Scienziati che vanno in televisione presentando previsioni necessariamente incerte con la certezza dell’uomo di fede, facendo passare un’ipotesi scientifica che deve essere discussa e vagliata dalla comunità per verità acquisita, incarnano di fatto un atteggiamento radicalmente antiscientifico. E il fatto che siano magari ottimi ricercatori, eccellenti scienziati, rende il loro atteggiamento ancora più antiscientifico di altri, a dimostrazione che si può praticare in modo raffinatissimo la ricerca scientifica con una scarsissima consapevolezza dei concetti che la costituiscono[2].

 

La scienza è strutturalmente incerta, mai definitiva, immersa per sua natura dentro un procedimento continuo di correzione, necessariamente falsificabile, aperta al controllo, normativamente sottoposta alla discussione. L’idea che la scienza debba essere caratterizzata da certezze indubitabili e che la comunità scientifica debba essere monoliticamente coesa attorno a tali certezze è un’ideologia strutturalmente antiscientifica, che disconosce la natura della procedura e della pratica scientifica. Una comunicazione che non tiene conto di questo è, conseguentemente, una comunicazione antiscientifica.

 

Rispetto al rapporto fra scienza e politica, esso è straordinariamente complesso e articolato su diversi livelli di interazione. Ciò che è emerso nei giorni più difficili della pandemia è stato, da parte di alcuni, il desiderio che la scienza assumesse direttamente una funzione di governo – cosa che nel momento più critico è forse anche avvenuta. Peraltro, non è normale pensare che siamo finalmente entrati in un’epoca nella quale le conoscenze tecnico-scientifiche sono quelle che devono determinare non solo le norme igienico sanitarie della nostra convivenza, ma più in generale tutta la prassi politica? Non è oramai la politica essenzialmente una pratica tecnico amministrativa la cui efficacia e la cui efficienza deriva direttamente dalle conoscenze tecnico scientifiche che insieme la sostengono e delle quali dovrebbe essere perciò l’esito necessario?

 

La politica era determinata nella classicità come una forma di saggezza, in quanto essa sarebbe l’arte di comprendere qual è la decisione giusta all’interno di un contesto sempre particolare e mai del tutto universalizzabile. Un’arte che implica dunque la capacità di interpretare la situazione, ogni volta peculiare e contingente, dentro la quale è necessario decidere. Per poter decidere la politica ha perciò sempre bisogno di conoscenze e di competenze tecniche che le consentano di valutare la situazione e prevedere – per quanto in modo necessariamente incerto – gli esiti di una certa azione. Una politica che decidesse indipendentemente dalle conoscenze, sarebbe una politica folle, scriteriata, come quella di cui abbiamo avuto testimonianza potente in occasione della pandemia negli USA di Donald Trump o nel Brasile di Jair Bolsonaro.

 

Attenzione, però: dire che la politica ha bisogno delle conoscenze per decidere non significa che le conoscenze producano di per sé decisione, che sia possibile o anche solo auspicabile un governo in cui le decisioni derivino automaticamente dalle conoscenze. Una tale visione sarebbe da una parte la negazione assoluta dello spazio autonomo e libero della politica e dall’altra, al contempo, il riflesso della convinzione secondo la quale la vita politica degli uomini può essere determinata e decisa a partire solamente da calcoli e previsioni. Una politica che fosse del tutto determinata dalle conoscenze, che facesse discendere tecnicamente le decisioni dalle conoscenze scientifiche, sarebbe, in qualche modo, una politica orribilmente automatica, una politica che non avrebbe bisogno di discussione alcuna intorno alle decisioni, in quanto queste sarebbero la conseguenza banalmente coerente delle conoscenze che la sostengono.

 

La politica ha bisogno delle conoscenze: le deve chiedere, le deve valorizzare, le deve sostenere. Al contempo la politica è sé stessa solo se è anche consapevolezza che le conoscenze da sole non determinano la decisione, che la decisione per essere adeguata alla situazione specifica e alle contingenze particolari dentro le quali essa assume corpo, richiede una assunzione di responsabilità che si gioca nel saper mettere in relazione senza poter contare sulla certezza di un esito meramente calcolato le conoscenze e la concretezza del mondo. Perché in fondo è questo quello che differenzia il vivere politico degli esseri umani dal funzionamento fluido e senza sbavature di una macchina ben congegnata: sapersi assumere la responsabilità di un’azione di cui non si può mai conoscere anticipatamente e precisamente l’esito cui essa conduce.

 

Note

[1] R. Monk, Wittgenstein. Il dovere del genio, Bompiani, Milano 2019 (1991), p. 298.

[2] A questo proposito sarebbe interessante riflettere anche sui percorsi formativi universitari. Così come molti corsi di laurea dell’area delle scienze naturali o delle scienze applicate spesso non ospitano nessun corso di epistemologia o anche più in generale di riflessione filosofica sulla scienza, i corsi dell’area delle scienze umane e sociali spesso sono privi di aperture significative alle aree delle scienze naturali. Questo produce spesso scienziati senza cultura epistemologica e umanisti – e talvolta persino epistemologi – privi di cultura scientifica nel senso delle scienze matematiche e naturali.

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