di Emiliano Alessandroni
[E’ uscito da poco per PGreco Edizioni Arte e società di György Lukács. Pubblichiamo l’introduzione di Emiliano Alessandroni].
L’ideologia non è forse mai stata così importante
come per l’appunto nell’epoca della deideologizzata
manipolazione raffinata degli uomini
György Lukács – Ontologia dell’essere sociale
Non è il caos dogmaticamente accettato la vera ragione
dell’angoscia come effetto dominante, ma inversamente:
l’incapacità di scorgere le leggi e la direzione dello
sviluppo sociale genera un atteggiamento verso la realtà
di cui l’angoscia è l’espressione emotiva
György Lukács – Il significato attuale del realismo critico
L’ideologia dentro la critica dell’ideologia
Il 17 gennaio 2020, con la Lohengrin di Richard Wagner in sottofondo, Roberto Alvim, ministro della cultura del governo Bolsonaro in Brasile, annuncia di fronte alle telecamere la nascita di un nuovo progetto da 4,9 milioni di dollari finalizzato al contrasto del «marxismo culturale». Un progetto che prevede, tra le altre cose, la promozione di uno specifico orientamento artistico: «L’arte brasiliana del prossimo decennio sarà eroica e sarà nazionale. Sarà dotata di grande capacità di sviluppo emozionale e sarà imperativa, nonché profondamente legata alle aspirazioni urgenti del nostro popolo, o non sarà nulla»1. Quanto il ministro brasiliano fosse a conoscenza del fatto che l’8 maggio 1933 quelle medesime parole erano state pronunciate in Germania da Joseph Goebbels, già ministro della Propaganda del Terzo Reich, qui poco importa. E ancor meno importa che il presidente Jair Bolsonaro, evidentemente indotto a salvaguardare il rapporto intrattenuto con il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu, abbia optato per le dimissioni del ministro Alvim. Ciò che preme evidenziare in questa sede è la prospettiva eminentemente ideologica che nutre in quelle parole il disprezzo per il marxismo2. Ristampare a oltre tre decenni di distanza dalla caduta del Muro di Berlino Arte e società di György Lukács, significa allora rimettere in circolo gli strumenti concettuali con cui poter comprendere come questo fenomeno di neo-maccartismo sia soltanto la punta dell’iceberg di una forma mentis generalizzata che coinvolge l’intera cultura occidentale, sulla quale si sono riversati i nuovi rapporti ideologici scaturiti dalla fine della Guerra Fredda, ovvero dalla sconfitta di un mondo storico e dal trionfo di un altro. Si ha d’altronde l’impressione che, quanto più sonoro diventa il ripudio del marxismo e quanto più esplicita appare la liquidazione di Lukács, con l’abituale denuncia della sua schematicità, del suo carattere dogmatico e tendenzioso, tanto più profondamente si sia infiltrata l’ideologia, sorta dai nuovi rapporti politici e sociali, nello spirito del detrattore. È infatti la stessa operazione di critica dell’ideologia che può perdere facilmente il suo carattere scientifico, per quanto di questo tenti di assumerne le vesti, e cedere involontariamente a una più o meno consapevole inclinazione ideologica. D’altro canto se lo stesso Lukács ci aveva ricordato che la tendenziosità avvertita «non è mai la propria, ma sempre quella dell’avversario», ovvero che suole apparire «“tendenziosa” quell’opera letteraria le cui basi e i cui fini di classe siano ostili all’indirizzo classista dominante» (Infra I, 102), tale dialettica viene a manifestarsi a ben vedere anche per quanto concerne la critica stessa. Nel VI numero di Questioni del gennaio-aprile 1958 Giorgio Barberi Squarotti, sull’onda dell’autorevolezza che sentiva provenirgli dal tribunale della filologia, aveva sbrigativamente liquidato come deviazione ideologica e abbandono della via estetica la critica di Lukács. Ciò che tuttavia Squarotti non scorgeva, e che purtroppo i rapporti politici e sociali odierni ci consentono ancor meno di vedere, era l’ideologia sottesa in quella stessa critica dell’ideologia. È stato Franco Fortini ad essersi presto accorto come la «dicotomia fra regno del giudizio storico e regno dei “valori”» che stava a fondamento implicito di quell’attacco affondasse a sua volta le radici in una Weltanschauung «scientifico-positivista da un lato…e cristiano-spiritualista dall’altro»3.
Questo tipo di dialettica tende frequentemente a ripresentarsi. Si prenda un illustre critico del nostro tempo come Harold Bloom. Nel suo Western Canon egli traccia una linea di demarcazione che divide le arti e le culture autentiche dalle arti e culture ideologiche, definite sprezzantemente «school of resentment»4. Eppure tale demarcazione, se presa dettagliatamente in esame, rassomiglia sempre più ad una sorta di pendant teorico-estetico della meccanica e fortunata separazione, avanzata in campo politico, tra democrazia e dispotismo, tra civiltà e barbarie; rispecchiamento di quell’ideologia coloniale e occidentalista scaturita dalla tradizione liberale dell’Occidente stesso. Non casualmente, la più alta manifestazione dell’arte libera e scevra da pregiudizi ideologici apparterrebbe agli occhi di Bloom al cosiddetto canone occidentale, mentre nella school of resentment egli annovera, oltre Gramsci e Lukács, i Postcolonial Studies, i Subaltern Studies e tutti gli Studi Culturali nel loro complesso, i cui esponenti provengono prevalentemente dal Terzo Mondo e che proprio sul riscatto del Terzo Mondo tendono a focalizzare l’attenzione. Le opere letterarie più fascinose della civiltà orientale, come il Rāmāyaṇa e il Mahābhārata, vengono da Bloom sistematicamente ignorate e ritenute implicitamente indegne di rientrare nel canone della letteratura esteticamente apprezzabile.
Dietro il professato obbiettivo di scolpire un canone dell’arte libera e autentica, vale a dire dell’arte non ideologica, emerge allora l’ideologia inconscia che rivela il proprio segreto intento: quello di compattare l’identità politico-culturale dell’Occidente per difendersi dalle spinte, anch’esse tanto politiche quanto culturali, ma in ultima istanza anche artistiche, che atto dopo atto tendono a sgretolarne il dominio. È stata a tal proposito ricordata l’immagine di copertina della prima edizione dell’opera: «il Giudizio Universale di Michelangelo: Dio che separa i giusti dai dannati». L’immagine costituiva un’efficace «rappresentazione del suo modo di intendere la critica: gli eletti da una parte, i reprobi dall’altra»5: una sorta di rifrazione in campo estetico delle teorie di Edward Luttwak sulla democracy o di Samuel Huntington sul clash of civilizations. Ben si comprendono allora le ragioni di chi, senza mezzi termini, l’ha definito «un grande critico e teorico reazionario», che, pur «dotato di una cultura immensa e di una capacità rara di penetrare i testi», restava inevitabilmente condizionato da un «approccio elitario»6.
Al principio del nuovo secolo, con How to read and why, Bloom rincara la dose polemica contro «gli storicisti», i quali, pensandoci «tutti vittime del determinismo della storia», finirebbero per annegare nelle acque indistinte del divenire collettivo i tratti specifici della personalità umana, fino al punto da «considerare anche i personaggi letterari come segni su una pagina e niente più»7. Fonte di questa distorsione sarebbe «l’ideologia» che, tra le altre cose, annienta «la capacità di comprendere e apprezzare l’ironia»8 presente nella letteratura. Per non cadere in simili forme di falsa coscienza occorrerebbe allora distogliere l’attenzione dall’Oggetto e spostarla sul soggetto, tenendo fede a un unico comandamento: «leggere per se stessi»9. Infatti quando leggiamo, «leggiamo» unicamente «per rafforzare l’io e coglierne i veri interessi». E giacché «i piaceri della lettura sono più egoistici che sociali» occorre diffidare «delle argomentazioni che correlano i piaceri della lettura solitaria al bene pubblico»10. Non v’è alcun dubbio per Bloom, si «legge per se stess[i] e non per presunti interessi che dovrebbero trascendere l’io». Ed è per questa ragione che «non esiste un’etica della lettura»11.
Su questa separazione meccanica di individuo e realtà, di soggetto e oggetto, di bisogni dell’io e bisogni sociali, si è tendenzialmente fondata gran parte dell’ideologia neoliberista. Nel 1987 la Baronessa Margaret Thatcher, allora Primo Ministro del Regno Unito, aveva pronunciato un discorso destinato ad entrare nelle pagine di storia: «there is no such thing as society. There are individual men and women, and there are families»12. Dunque nessun universale che connetta nell’intimo le esistenze particolari: non esiste la società, esistono soltanto gli individui. Come il liberalismo riesca ad ipostatizzare il principium individuationis al punto da pensare l’individuo senza la società risulta un mistero che soltanto il concetto di ideologia, la marxiana categoria di falsa coscienza, è in grado di spiegare. Sia detto qui per inciso che già a suo tempo Hegel aveva mostrato come la stessa idea di singolarità rivelasse entro di sé l’ineludibile presenza dell’universale: «Quando dico: “una cosa singola”, dico piuttosto qualcosa di interamente universale; in quanto ogni cosa è una cosa singola»13.
Su questa oggettiva inseparabilità del particolare dall’universale, dell’anima dal mondo, dell’individuo dalla società, si fonda, con un orientamento profondamente diverso da quello del critico americano, la prospettiva estetica di Lukács14. E a quest’ultima sembra per molti aspetti riconnettersi un volume di Ezio Raimondi, pubblicato in Italia nel 2007, che fin dal titolo sembra porsi in contrasto rispetto al meccanicismo solipsistico di Harold Bloom: Un’etica del lettore. Diversamente, infatti, da quanto pochi anni prima aveva affermato il critico americano, «la lettura», chiarisce Raimondi, «non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza». Accade allora che «la solitudine diventa paradossalmente socievolezza»15. Infatti, «leggendo, nella mia soggettività rappresento anche un altro soggetto, quasi “due in uno” sperimento la mia stessa identità come movimento e tensione verso l’altro»16 al punto che «nel testo» è possibile riscontrare «un’epifania dell’altro, una traccia fragile e finita dell’umano»17.
Queste parole di Raimondi sembrano fare affiorare tutto il dogmatismo di Bloom18.
L’ideologia, possiamo allora comprendere, non costituisce una prerogativa esclusiva della critica marxista: essa attraversa in modo capillare l’intero universo letterario, le opere come i saggi critici, le teorie come i giudizi di valore. Nessuno, ad esempio, nutre dubbi sulla statura artistica di Ezra Pound, sullo spessore dei Cantos e dunque sulla piena legittimità dei riconoscimenti ricevuti. Eppure in piena Guerra Fredda, mentre la liberaldemocrazia americana stringeva la morsa del maccartismo, Thomas Mann si sentiva di affermare: «Certo non sono l’unico che ambirebbe sapere se l’eminente giuria avrebbe assegnato il Premio Bollingen a Ezra Pound anche nel caso in cui, per avventura, anziché fascista fosse stato comunista»19.
Alla fine degli anni ’40 del secolo scorso venne pubblicato 1984, il celeberrimo romanzo di George Orwell. Bersaglio di quel libro erano, come noto, le cosiddette società totalitarie, comunismo e fascismo. Oggi potremmo aggiungere, le società ideologiche. Eppure fu proprio con la fine della Guerra Fredda e il trionfo della liberaldemocrazia occidentale, ovvero di quella che costituiva la un-ideological society per eccellenza, che quel romanzo conobbe maggiore fortuna. A partire dalla lettura di quel libro il complesso musicale dei Radiohead diede vita a Karma Police, un brano destinato a una notorietà internazionale. E il paese in cui Orwell eserciterà il più forte potere attrattivo non sarà la Cuba dei Castro e del Pcc, ma gli Stati Uniti. Le vendite di 1984 conosceranno un’impennata nel 2013, dopo le divulgazioni sulla sorveglianza di massa che coinvolsero la NSA20, e nel 2017, dopo l’ascesa di Trump alla Casa Bianca21. D’altro canto lo stesso Edward Snowden aveva citato pubblicamente il celebre romanzo per puntare il dito non già contro un sistema socialista (contro la Repubblica Popolare Cinese ad es.), ciò che sarebbe stato più conforme agli intenti dell’autore, ma contro il mondo occidentale e in particolare contro il sistema statunitense:
Il Grande Fratello immaginato da George Orwell in 1984 è nulla rispetto alla realtà. Un bambino che nasce oggi crescerà senza alcun senso della privacy. Non saprà mai cosa vuol dire avere un momento privato, per se stesso, non registrato. Un pensiero non analizzato…Insieme possiamo trovare il giusto equilibrio…porre fino allo spionaggio di massa e ricordare ai governi che se vogliono sapere come stiamo è più economico chiedercelo che spiarci22.
Si impone a questo punto una domanda: soltanto comunismo e fascismo erano società ideologiche? I sistemi liberali si mantengono al riparo da questa accusa? E quando ciò non sia, non sarebbe lecito domandarsi se la presenza strisciante dell’ideologia nella nostra vita collettiva non agisca anche sui nostri criteri di giudizio, sui nostri parametri di selezione, di accettazione e rifiuto, sui nostri stessi gusti artistici e intellettuali?
L’ideologia ravvisata da Fortini nella critica letteraria di un pur eminente studioso come Barberi Squarotti non sembra essere oggi tramontata all’interno delle nostre università e dei nostri istituti di cultura. In un volume del 1998 dal titolo Il dialogo e il conflitto Romano Luperini denuncia in questi termini la concezione positivista che si nasconde dietro quell’atteggiamento intellettuale che designa come «ideologia filologica»:
Oggi il corporativismo universitario si riconosce sempre più spesso nell’ideologia filologica, sia perché essa obbedisce alle esigenze ferree della divisione del lavoro e dà una risposta al bisogno di senso di chi studia la letteratura attribuendogli l’abito severo e rigoroso dello specialista o dello scienziato, sia perché essa può agevolmente convivere o addirittura sposarsi con l’ideologia postmodernista, che priva la letteratura di valori, conflittualità, senso sociale. Il microfilologismo spicciolo e l’esagerata proliferazione dei commenti […] rappresentano anche la reazione più facile, e, si direbbe, quasi spontanea, in un tempo come il nostro che tende a negare la funzione storico-antropologica della critica e a valorizzarne unicamente il ruolo istituzionale (o tecnico-professionale)23.
Ma Luperini non è il solo ad avere individuato le affinità esistenti tra ideologia filologica e ideologia postmoderna. Altri hanno a distanza di anni potuto constatare come «la filologia…intercett[i] due tendenze profonde della nostra epoca, peraltro legate strettamente fra loro: il sospetto verso le grandi narrazioni e il trionfo della particolarità in quanto particolarità»24.
La supremazia politica dell’Occidente dopo il 1989-91 ha determinato, in ambito culturale e sentimentale, un crollo di credibilità verso le «strutture di senso»25, verso la «grammatica dell’esistenza»26, dovuto principalmente alla «disgregazione dei legami collettivi»27. In sostanza, la restrizione degli orizzonti temporali venuta a determinarsi con la sconfitta del mondo socialista e la fine della competizione fra i sistemi, ha indotto sempre più «l’umanità occidentale» a vivere «in piccole sfere private», in «territori» appartati in cui «ognuno ricerca la propria felicità personale o, più modestamente, la tranquillità, come in Jane Austen o in Čechov, cioè una forma di equilibrio fra desideri e mondo». Per cui, «i nomi delle trascendenze collettive che l’epoca moderna ha ereditato…sono sempre più difficili da pronunciare senza ironia o senza virgolette reali o metaforiche». Viviamo pertanto, e scontiamo, una «crisi delle trascendenze», e una «spinta all’inappartenenza»28. Eppure le strutture di senso, le trascendenze, e le appartenenze non sono dileguate dal mondo oggettivo; sono state, piuttosto, perse di vista dall’universo soggettivo. E questa è una perdita che non si è verificata per caso, ma è stata provocata dall’affermazione di nuovi rapporti sociali. La «crisi» e la «spinta» di cui sopra, allora, non sono altro che alcune delle forme ideologiche di questo nostro tempo così apparentemente de-ideologizzato. Come che sia, nella sua capacità di fornirci gli strumenti concettuali e analitici per permetterci di scorgere il groviglio di ideologie presenti e passate, e per rintracciare i contorni delle trascendenze smarrite, la lezione di Lukács ci appare, ancora oggi, quanto mai preziosa.
Note
1Brasile, ministro della Cultura evoca Goebbels in video ufficiale con in sottofondo l’opera di Wagner amata da Hitler: rimosso, Il Fatto Quotidiano, 17-01-2020.
2L’episodio riportato si colloca in linea di continuità con la concezione politica del Presidente Bolsonaro che, già alla fine del 2018, aveva promesso di «estirpare la spazzatura marxista dalle scuole» (cfr. Brasile, Bolsonaro verso l’insediamento tra le polemiche, La Repubblica, 31-12-2018). Ma si colloca, a ben vedere, anche all’interno di un rigurgito anticomunista che ha assunto forme particolarmente violente nelle persecuzioni di politici e giornalisti nella Lituania del governo Nausėda, nell’Ucraina di Poroshenko, dove sono stati messi al bando simboli e partiti comunisti (cfr. L’Ucraina mette fuori legge il partito comunista, Il Sole 24 Ore 24-07-2015 e Ucraina: comunismo come nazismo, legge ne vieta simboli, Ansa 09-04-2015), nella Polonia dei fratelli Kaczyński in cui Jaroslaw Kaczyński, fratello gemello dell’allora Presidente della Repubblica, presentò un disegno di legge nel quale si annunciava la proibizione di ogni simbolo che rinviasse alla storia del comunismo, comprese le semplici bandiere rosse (F. Tortora, Polonia: presentata una legge per mettere al bando tutti i simboli del comunismo. Chiunque li utilizza o ne è in possesso potrebbe rischiare fino a 2 anni di carcere, Corriere della Sera 27-11-2009) fino all’Ucraina di Orban in cui la crociata anticomunista si è spinta al punto da rimuovere la statua di Lukács e da confiscarne l’archivio (cfr. A. Tarquini, La denuncia delle opposizioni ungheresi “Orbán ha requisito gli archivi di Lukács”, La Repubblica 28-05-2018).
3F. Fortini, Lukács in Italia, in Id., Saggi ed epigrammi, A. Mondadori, Milano 2003, pp. 254-255.
4Cfr. H. Bloom, The Western Canon, Penguin, London 1999.
5R. Luperini, Su Harold Bloom, in La Letteratura e Noi, 16-09-2019.
6Ibidem.
7H. Bloom, How to Read and Why, Scribner, New York 2000, tr. it., Come si legge un libro e perché, Bur Rizzoli, Milano 2010, p. 16.
8Ivi, pp. 19-20.
9Ivi, p.13.
10Ivi, p. 15.
11Ivi, pp. 16-17.
12M. Thatcher, intervistata il 23 Settembre 1987 da Douglas Keay per la rivista, Woman’s Own, 31 October 1987, pp. 8–10.
13Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2000, p. 185.
14«Il marxismo si differenzia dalla sociologia borghese, dalle teorie del “milieu”, ecc., non solo per la sua critica radicale della società e per il suo storicismo, ma anche perché è riuscito a cogliere questa unità dialettica fra individuo e società: l’attività umana forma la società e il movimento oggettivo della società si realizza attraverso gli individui. Solo in quanto ha subito un processo di socializzazione l’uomo si è trasformato da individuo naturale in personalità umana», Infra I, pp. 23-24.
15E. Raimondi, Un’etica del lettore, Il Mulino, Bologna 2007, p. 13.
16Ivi, p. 18.
17Ivi, p. 20.
18Quanto detto naturalmente non ha alcuna pretesa di esaustività, né il dogmatismo rilevato intende negare la straordinaria capacità analitica di Bloom. Ci si è qui limitati ad indicare alcune delle barriere culturali che ne contraddistinguono l’impostazione letteraria. La grandezza dell’autore e la sua vasta produzione richiederebbero infatti una trattazione autonoma e decisamente più dettagliata. Ciò che al fine del nostro discorso ci premeva mettere in luce era come la sua stessa critica dell’ideologia fosse tutt’altro che impermeabile alle incursioni ideologiche.
19T. Mann, L’artista e la società, in Id., Nobiltà dello spirito e altri saggi, Mondadori, Milano 1997, p. 1624.
20J. Gershman, ‘Nineteen Eighty-Four’ Sales Spike Amid Surveillance Disclosures, The Wall Street Journal, 11-06-2013.
21Effetto Trump: 1984 di Orwell fa il boom di vendite, Il Sole 24 Ore, 18-02-2017.
22Snowden cita Orwell, ma 1984 “è niente in confronto ad oggi”, Rai News 24, 26-12-2013.
23R. Luperini, Il dialogo e il conflitto, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 24; cfr. su ciò anche E. Alessandroni, L’ideologia filologica e L’ermeneutica dell’innocenza e i suoi due volti, in Id., La rivoluzione estetica di Antonio Gramsci e György Lukács, Il Prato, Padova 2011.
24G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2011, p. 386.
25Ivi, p. 387.
26Ivi, 388.
27Ivi, p. 392.
28Ivi, pp. 390-91.
“La Lohengrin”?
“Alla fine degli anni ’40 del secolo scorso venne pubblicato 1984, il celeberrimo romanzo di George Orwell. Bersaglio di quel libro erano, come noto, le cosiddette società totalitarie, comunismo e fascismo. Oggi potremmo aggiungere, le società ideologiche. Eppure fu proprio con la fine della Guerra Fredda e il trionfo della liberaldemocrazia occidentale, ovvero di quella che costituiva la un-ideological society per eccellenza, che quel romanzo conobbe maggiore fortuna”.
L’anno della sua pubblicazione, 1984 vendette 400.000 copie. Nel 1984 se ne erano già vendute 15 milioni.
Dalla citazione della nota 14 (infra) si dovrebbe dedurre che Hegel, nella “Fenomenologia dello spirito”, parla di Marx! Miracoli dello storicismo?