di Enrico Terrinoni

 

[E’ uscito da poco per Cronopio Chi ha paura dei classici?, di Enrico Terrinoni. Ne proponiamo un estratto].

 

I classici vivono nel silenzio, un silenzio latente e pervasivo. Ma se ci scopriamo a parlare di loro, a citarli – perché quando pensiamo o scriviamo altro non facciamo che citare, citare sempre, citare inesorabilmente – finiamo per riportarli in vita. Infatti, dal sonno di morte del silenzio, essendo il silenzio la parola non detta più detta di sempre, un giorno, a un testo capita di risvegliarsi. Perché dormire, ovvero morire, è una vera e propria attività. Ed è pure un’occupazione giornaliera, per qualcuno. Dormiamo, sogniamo: sogniamo sogni che ci consentono di vedere al buio, come anche di parlare silenti. Di reagire, insomma, a stimoli che non sono esterni né estremi. Così anche i classici. Vivono vite di morte e nella notte. Il loro corpo vive al buio; e il nostro, muto di fronte all’ombra.

 

Giordano Bruno scrisse che la memoria è scrittura interna, e in questa luce, oscuramente, un classico è un testo ricordato. Celato e poi “ri-velato”; per questo riesce a parlare al futuro. Attraverso nuovi veli, che offuscheranno nuovi occhi. I classici sono ponti in disappunto, cavalcavia solcati da significati in forma di segni e simboli, superfici e profondità: ponti che sta a noi, a nostro rischio e pericolo, attraversare o esplorare. E il loro senso risiede nella direzione indicata, non nell’obiettivo da raggiungere. Il classico è quello che sarà, non quello che è stato.

 

Il silenzio, ho detto, è la materia prima dei classici, ed è anche la fucina in cui i loro nuovi autori – ossia i lettori – forgiano, contraffanno nuovi mondi che necessitano di nuove parole. Perché le parole (words) sono mondi (worlds), ma senza la L di linguaggio, senza la L di letteratura. Quella materia prima silenziosa che previene il linguaggio, sì lenta nel comporsi e nello scomporsi, si trasfigura, diviene nuova sostanza solo in uno spazio di sogno che alcuni chiamano ispirazione. È lì che le forme dalla mente prendono vita per ossessionare l’immaginario, fino poi a fuoriuscire dalle proprie bare di pensiero e divenire pensate “in divenire”; fino poi a strisciare fuori dai confini di un intangibile luogo noto in cui, relegate, non hanno mai vissuto, se non per declinarsi in quel che sarà.

 

Il silenzio dei classici latenti si dispiega soltanto se gli consentiamo di legarsi al sogno, dunque, e aveva ragione Blake nel ricordarci che nulla esiste che prima non sia stato sognato. Così, se il silenzio è al contempo il virus e il suo stesso vaccino, i classici, arcipelaghi di citazioni, hanno la capacità di scavare nella memoria del passato perché possiamo noi rinvenirne, come revenant, entità non-morte. Il classico è una sfera di pensiero ancora non pensato, che non solo non può esser confinato in alcun dove, ma neanche può morire. Può solo attendere il risveglio, per inverarsi e liberarsi.

 

Il pensiero non pensato è un gigante che dorme, e il linguaggio è la sua prigione. Ma non è che la mente sia in prigionia: la mente appare infinita come l’universo: non è una roccaforte impervia le cui mura non possiamo valicare per poi evadere e parlare con quanti non conosciamo ancora. La mente, con la sua libertà e assenza di confini, ci invita ad evadere. E ad evadere essa riesce quando ai suoi occhi un libro, da uno, diviene molti, da spazio intimo si fa luogo collettivo. Luogo di incontri. Il classico è allora uno specchio che riflette, ovvero, che pensa. Non un oggetto inanimato, non una superficie, ma una profondità in attesa di parlarci proprio per rompere il silenzio che ci ammanta.

 

Il classico è una scala appoggiata alla parete della prigione. Scalandola, vediamo quel che c’è fuori. Eppure, è vedendo dov’è piantata che comprendiamo la natura dello spazio da fugare e da cui fuggire. Da rifuggire. Uscire da noi stessi è l’obiettivo, andarcene dal confino a cui involontariamente ci condanniamo. E se il mago di quel grande classico eterno che è La tempesta di Shakespeare getta via la sua bacchetta alla fine del dramma, non è per la sua inutilità, ma perché è stufo di trucchetti, stufo di regolare gli eventi. Stufo di inventare. Annoiato dalla sua stessa creazione, e pronto a riposare in silenzio.

 

Se dormire, però, è forse anche sognare, magari in quel sogno di morte che è un classico, libro da riscoprire non per spiegarlo ma per attingere al suo mistero, saremo in grado di percepire quel che davvero ci accade. Come Re Amleto che soltanto nel silenzio della morte sa d’esser stato ucciso da Claudio mentre dormiva. Perché il velo della morte è rivelatore, come ho detto. E morire è al contempo, per chi legge e per chi scrive di notte, ma anche per chi ascolta nel buio siderale, un modo di trarre dall’oscurità una dead letter, una missiva ancora da consegnare.

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