di Orsetta Innocenti
Mentre l’esame di Stato cattura l’attenzione dell’opinione pubblica, e l’impegno di dirigenti e docenti, con ciò fornendo un utile diversivo di investimento simbolico[1], le operazioni di avvio dell’anno scolastico procedono imperterrite, con tempistiche non troppo diverse da quelle di un ordinario anno in ritardo. Quando si parla di “operazioni di avvio dell’anno scolastico” è bene fare un chiarimento. Non si parla di cerimonie, non si parla di retorica, non si parla di aule magne gremite a festa come nelle immagini di plasticosi telefilm. Si parla di cose molto concrete, e cioè: numeri. I numeri dei docenti in organico di diritto per scuola (cioè quelli di ruolo, stabili di anno in anno), e, dunque e soprattutto, i numeri di alunni per classe. Perché il MI – se quando si tratta di esami di Stato mostra di avere diverse lacune in matematica – quando si tratta di tagli all’istruzione, invece, sa contare benissimo. Almeno a partire dal DPR 81/2009, riforma Gelmini: il testo che stabilisce il numero minimo di alunni per le classi delle superiori iniziali a 27 e dunque dà inizio a una nuova stagione di classi pollaio. Che insegnare in classi (specie iniziali: che per la scuola italiana non sono solo le prime, ma le prime e le terze, perché la terza superiore è un nuovo inizio dopo la fine dell’obbligo) di 18-20 alunni sia meglio che insegnare in classi di oltre 30 è qualcosa la cui comprensione è evidente a prescindere da qualunque situazione di emergenza. Anzi. Si può continuare il ragionamento, argomentando come proprio l’avere creato classi di questo tipo (al solo scopo di ottemperare all’unico dogma che nessuna riforma ha mai fatto cadere: «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica») sia all’origine dell’emergenza stessa. Un’emergenza didattica, pedagogica, ma anche di sicurezza e norme igieniche generalizzate. Questo, a prescindere dal fatto che nelle scuole superiori sapone, carta e carta igienica manchino sistematicamente. Questo, a prescindere da pandemie mondiali. Lo sapevano bene i docenti che nel biennio 2008/2009 hanno scioperato, mettendoci la faccia e lo stipendio, contro una ‘riforma’ scolastica che si presentava come un mero allegato alla legge finanziaria di Tremonti. E lo hanno saputo, e vissuto, anno per anno, quegli stessi docenti che nelle scuole pollaio ci sono poi andati come sempre a insegnare: per “disciplina e onore”, direbbe l’art. 54 della Costituzione; per passione per il proprio lavoro, dicono i fatti; per una malintesa disposizione a sanare artigianalmente e personalmente quello che non va per legge (anche io non ho fatto eccezione: la colpa è di tutti), dice infine la referenziale via dell’inferno.
Vi è una pandemia mondiale? La scuola è all’ultimo posto tra i 37 paesi OCSE per investimenti nell’istruzione pubblica[2]? Ogni protocollo sanitario di prevenzione e protezione prevede, ovunque, la misura minima del cosiddetto (con espressione infelicissima) “distanziamento sociale”? Quale migliore occasione per intervenire innanzi tutto su un dispositivo infausto che tanti danni ha fatto ben prima dell’arrivo del Coronavirus? Questa era la prima e più urgente decisione da approvare, ancora a marzo, persino senza avere nessun modello matematico ancora sufficientemente sviluppato per prevedere l’evoluzione dell’emergenza: abrogare ‘l’algoritmo Gelmini’ per tutte le classi prime in ingresso. Un provvedimento da prendere in nome dell’emergenza, ma non esclusivo dell’emergenza. Sarebbe stato doveroso cogliere l’occasione per determinare, con un progressivo piano a scorrimento, gli alunni per classe su una soglia massima di almeno 7 unità più bassa, in modo da garantirsi, di qui a cinque anni, una scuola pubblica con numeri per un insegnamento di qualità decisamente più mirata.
È chiaro che questo primo passo non è di per sé sufficiente, viceversa, a gestire l’emergenza pandemica, ma avrebbe determinato una chiara cornice di senso, predisponendo in questo modo tutti gli attori in causa (insegnanti, personale, presidi, alunni e famiglie) a sobbarcarsi, per il tempo necessario a tornare in classe in emergenza, la loro parte di disagi. Ma per fare tutto questo occorrono soldi, tanti soldi («Guarda, ragazzo, che io me ne immagino un bel po’» – come risponde Han Solo a Luke Skywalker in quello che per la mia generazione è semplicemente il Guerre stellari del 1977): quelli che, a oggi, il MI non sta investendo nella sua funzione[3].
Né nel DL 22 08/04/2020, né nella sua conversione in legge 41del 6 giugno, vi è infatti traccia di un provvedimento in tal senso. E, alla fine di un anno scolastico che lo stesso MI dichiara monco (lo dice chiaramente l’OM 11 16/05/2020, quando mette nero su bianco la necessità di recuperare il prossimo anno una marea di apprendimenti), viceversa, quello che le scuole si sono viste recapitare – mentre l’opinione pubblica tutta era occupata a mettere alla gogna sociale gli insegnanti ignavi che non volevano fare l’esame di Stato – sono prima richieste, e poi ordini di accorpamenti ulteriori delle classi e tagli degli organici di diritto.
In soldoni, per fronteggiare il distanziamento, il MI da un lato prima propone e poi smentisce, per le consuete vie brevi, una rutilante giostra di soluzioni che equiparano le scuole alle fabbriche; poi, il 26/06 fornisce, finalmente per scritto (e mentre tutti i presidi delle superiori e un buon numero di quelli dei comprensivi sono ancora impegnati con gli esami di Stato), con il DM 39/2020, il cosiddetto “Piano scuola”[4], delle linee guida esoteriche che rimbalzano tutte le responsabilità alle periferie (enti locali, tavoli tecnici regionali, dirigenti scolastici) e dimostrano una discreta padronanza della relatività spazio-tempo. Il distanziamento fisico, indicato come misura chiave nel primo documento sanitario del 28 maggio[5], infatti, nel DM 39 viene precisato come «un metro tra le rime buccali degli alunni». In altre parole, (e con una buona complicità, attiva e passiva, del generale discorso pubblico), a furia di paragonare, impropriamente, le scuole alle spiagge, due classi logiche perfettamente distinte, dai dai ci si è riusciti per davvero, a renderle omogenee: e così, per tornare a scuola, si fa come in Liguria: le spiagge sono corte? Nessun problema, basta ridurre, là dove lo spazio manca, i metri necessari alla prevenzione.
Ma dall’altro lato, mentre gioca al tiro alla fune con le bocche degli alunni (e con la pazienza di docenti e presidi), il Mi nei fatti prevede un piano di classi in cui si tagliano possibili prime di 20 alunni perché il numero è appunto inferiore a 27, oppure si accorpano terze che non raggiungono gli stessi requisiti: esattamente quello che ci vuole per mantenere la distanza sociale.
È bene subito prevenire obiezioni, e smontare il comunicato del 12/06/2020 con il quale il MI dichiara di non aver portato «nessun taglio all’organico»[6]. Approfittando della scarsa conoscenza della disciplina scolastica da parte degli estranei al mondo dell’istruzione (e talora anche dei non estranei), il Mi gioca infatti con le parole: «l’organico non è stato toccato, né diminuito» si legge. Quello che si omette di chiarire sono però alcune precisazioni. Si può ‘non diminuire’ l’organico di una scuola anche tagliando ore (e dunque classi) invece che cattedre. Il taglio di una classe, infatti, non comporta automaticamente il taglio di una intera cattedra (un insegnante per avere una cattedra deve avere 18 ore di quella materia nella scuola, e giusto la Quarta Ginnasio a partire da Gentile, prevedeva un insegnante per un solo gruppo classe con 18 ore settimanali). Poniamo il caso specifico con un esempio: accorpo una classe terza, perdo 6 ore di Italiano e Storia in un Tecnico, il docente di quella scuola ha ancora 12 ore di cattedra dentro quella scuola, ma ha bisogno di altre 6 per completare il suo orario. La sua cattedra passa così da cattedra interna alla scuola a “cattedra orario esterna”, composta da 12 ore su un istituto, che è quello prevalente, quello dove risulta in organico, più 6 in un secondo istituto, che diventa quello ‘complementare’. Nelle carte del MI quel docente risulterà avere mantenuto il suo posto in organico ‘di diritto’ (quello stabile), risulterà ancora in servizio nella scuola dove ha 12 ore e l’anno prima ne aveva 18. Nella realtà, nella sua scuola c’è però una classe di meno. Questo è solo uno degli esempi per spiegare come sia possibile sostenere di «non avere tagliato gli organici» avendo nello stesso tempo accorpato le classi. Un altro modo è ovviamente quello di non sostituire le cattedre degli avvenuti pensionamenti, un altro ancora è quello di tagliare tutte le ore che fino all’anno prima erano date a supplenza, o quelle del cosiddetto “potenziamento” (le cattedre ‘senza classe’ per attività in più introdotte come malintesa forma di reclutamento ope legis dalla riforma Renzi): in questo modo in una scuola dove ci fossero parecchi insegnanti pensionandi e/o parecchi supplenti annuali e/o posti di potenziamento ‘liberi’ si possono tagliare/accorpare molte classi, e tanta disponibilità di personale in servizio, facendo figurare sulla carta di non avere cambiato la situazione lavorativa di nessuno.
Dunque, per l’anno prossimo, a giugno del 2020, ancora da parte centrale non vi sono previsioni: né di abbassamento sistematico duraturo (dalle prime a cascata) dei numeri di alunni per classe; né di un contingente – viceversa provvisorio – di supplenti per poter operare su più turni; né della messa in cantiere di interventi sistematici permanenti (un programma di nuova edilizia scolastica, e/o di progressiva messa a norma di edifici vecchi, inadatti, fatiscenti) per quanto riguarda gli spazi; né, infine – un punto di cui si parla troppo poco – di una ridiscussione dei numeri minimi che obbligano al cosiddetto “dimensionamento”, l’accorpamento di più istituti sotto uno stesso dirigente se la popolazione scolastica scende, per le superiori, sotto i 600 alunni[7].
Su questi elementi vale la pena di spendere due parole. Sulla necessità di abolire progressivamente quanto previsto dal DPR 81/2009 sulle classi pollaio si è già detto: è un costo ingente, è un costo che va progressivamente a salire nei prossimi cinque anni, ed è un costo stabile. Ma – virus o non virus – non è semplicemente negoziabile, va fatto e basta, ne va della qualità di insegnamento per tutti. Sono allo stesso modo non negoziabili anche i provvedimenti volti a rimodulare l’edilizia scolastica e quello per contrastare il dimensionamento degli istituti. Partiamo dal mattone: anche in questo caso, il problema è annoso, e non data certo a oggi. In estrema sintesi, gli edifici scolastici, specie delle superiori, sono spesso inadeguati non solo per dimensioni, per mancanza di concentrazione in un unico luogo, ma proprio per qualità e sicurezza. Il 12/06/2020 il MI ha pubblicato un comunicato in cui si parla di «330 milioni per l’edilizia scolastica ‘leggera’ in vista della ripresa di settembre»[8], ma ancora una volta la coperta è corta, tardiva e tutta la responsabilità (DM 39/2020) rovesciata sugli enti locali. Questi fondi saranno distribuiti attraverso un bando PON (Programma Operativo Nazionale, finanziato da fondi europei) agli enti locali, ai quali l’art. 7 ter della L. 41 06/06/2020 conferisce poteri anche commissariali. 330 milioni in tutto, per poco meno di 60mila scuole sul territorio nazionale, i cui bandi sono ancora da emanare, e da espletare secondo le complicate procedure dei PON. In altre parole: nessun intervento strutturale e duraturo (edilizia leggera: là dove c’è bisogno di un raddoppio degli spazi, si risponde con tensostrutture e tramezzi), nessun piano permanente per mettere a norma il 53,8 % degli edifici scolastici che, sul territorio nazionale, non ha ancora il certificato di agibilità e abitabilità[9]. E ogni responsabilità demandata agli enti locali.
Quella del demandare la responsabilità dal centro alla periferia, da Ministero, di volta in volta, a Comuni, Province, e soprattutto dirigenti scolastici, è stata una caratteristica costante dell’atteggiamento del MI nei mesi dell’emergenza, ma si tratta in realtà di una delle conseguenze più nefaste di quella autonomia scolastica sancita dalla già citata legge 59/97, in qualche modo profondamente anticipata – come costruzione di un paradigma – dai due provvedimenti Ruberti, la legge 168/1989 e la legge 341/1990, perché è intorno alla separazione del Ministero della Pubblica Istruzione nei suoi due tronconi di università e scuola che va ricercato l’inizio della fine[10]. In questo modo, l’autonomia dei presidi-non-più-presidi, ma “dirigenti” diventa il modulo retorico, e politico, con il quale il MI, sia nel documento tecnico del 28/05/2020 del CTS,[11] sia nella dotazione finanziaria prevista dall’art. 231 del D.L. 19/05/2020 (con relativa Nota 1033 del 29/05/2020[12]) si fa schermo per il non-intervento centrale nel merito: «la grande diversità delle realtà scolastiche distribuite nel nostro Paese […] richiedono [sic!] una riflessione e attenta valutazione specificatamente contestualizzata» si legge nel documento tecnico. In altre parole: “daremo qualche scarso investimento a pioggia, e poi arrangiatevi”: senza personale, senza aule (e non apriamo il capitolo dei trasporti), con il dirigente responsabile (anche penale) dell’intera procedura di riorganizzazione per l’anno nuovo. Un dirigente (e veniamo all’ultima misura strutturale da mettere in atto) che dalla 59/97 si è visto piovere sulle spalle la responsabilità di istituti accorpati (perché privi del numero minimo di studenti richiesto per essere considerati una scuola autonoma), secondo una duplice direttrice che da un lato moltiplica le necessità di cui tenere conto, dall’altro, dal momento della sua attuazione, ha fatto perdere identità a molte scuole. Il provvedimento determinato dalla 59/97, e poi portato progressivamente a compimento sotto Moratti, ha costretto infatti istituti anche molto diversi tra loro ad unirsi in una unica scuola, con storia, indirizzi, necessità, popolazione scolastica profondamente difformi, creando spesso ircocervi (con plessi anche tra loro a notevole distanza). Poi, le ulteriori correzioni ministeriali del 2011 hanno determinato, in sovrappiù, una serie di scuole ‘ballerine’ che, trovandosi sotto la soglia dei fatidici 600 alunni, sono costrette ad avere affidato un dirigente in reggenza, e sono prive anche di un autonomo Direttore dei Servizi Generali Amministrativi[13]. È per questo che un’altra delle misure strutturali da mettere subito in atto, e non solo in regime di emergenza, è quella di restituire ai dirigenti istituti dai numeri umani, e dunque autenticamente governabili, abbassando i parametri del dimensionamento, e ricostruendo un tessuto di relazioni, anche della gestione scolastica, più a misura.
Invece, anche di questo non si è parlato mai. È a questi dirigenti, con questo carico di responsabilità, con queste scuole da gestire che il MI dice “è l’autonomia, bellezza, valorizziamo le differenze”. Intanto, i presidi sono impegnati altrove (a fare i presidenti dell’esame di Stato-simbolo), poi saranno impegnati a presiedere il comitato di immissione in ruolo dei neoassunti, a gestire l’ordinaria amministrazione (che è sempre parecchia: specie in tempi in cui gli Uffici territoriali ti consegnano gli organici tagliati mentre sei altrove a fare il presidente), e intanto arriva ad agosto; ed è bene ricordare che gli uffici pubblici prevedono “disciplina e onore”, non sacrificio e martirio e che le ferie sono un dovere e non solo un diritto. E così settembre è già arrivato: con l’inizio del nuovo anno, le commissioni di esame di Stato (ancora loro!) per i privatisti (per le quali se ne riandranno via un’altra volta i presidi), un turno elettorale già a lungo rimandato che vedrà diversi istituti scolastici sede di seggio. Ma questa, certo, è un’altra storia.
Una storia per la quale – nell’assenza assordante di provvedimenti duraturi e strutturali come quelli sopra argomentati – non si parla nemmeno di quelli provvisori, limitati a gestire l’emergenza. È in questa cornice che l’impossibilità materiale e, di nuovo, matematica, di gestire i gruppi classe per il prossimo anno si sta manifestando in tutta la sua concreta impellenza. Perché la riforma strutturale del numero di alunni per classe a partire dalle prime non è sufficiente, come chiarito all’inizio, a proporre numeri ragionevoli per il ritorno a scuola nell’a.s. 2020/21, per il quale, in deroga e per il tempo necessario, è urgente prevedere misure alternative. Lo segnalano i presidi un po’ ovunque: con questi numeri di alunni e questi organici non si va da nessuna parte[14]. Per questo il MI, oltre a mettere in atto quanto sopra dettagliato, dovrebbe, subito, provvedere anche a mettere in atto dispositivi di assunzione a tempo determinato (in altre parole: supplenti) che permettano lo sdoppiamento temporaneo dei gruppi classe. Ho scritto “temporaneo”. Infatti, se la diminuzione del numero massimo di alunni per classe si configura come un provvedimento urgente per riportare la pratica dell’insegnamento in condizioni di normalità, non bisogna dimenticare che la scuola italiana si basa oggi, molto, sul concetto di “continuità didattica”, vale a dire la costruzione, là dove possibile, di un percorso pedagogico modulato sul mantenimento dello stesso docente per la stessa materia all’interno dello stesso ciclo. Quello della continuità didattica non è, intendiamoci, un dogma. Vi sono sistemi scolastici (quello anglosassone, su tutti) per i quali, viceversa, si applica tendenzialmente una teoria di segno opposto, basata sull’idea dell’utilità pedagogica di discontinuità e cambiamento. Ed entrambe queste possibilità conservano al loro interno pregi e difetti.
Appare però evidente come un eventuale cambiamento in questo senso – che si configurerebbe in Italia come un vero e proprio ribaltamento di paradigma – non possa essere intrapreso con leggerezza, senza una seria discussione a monte. In questo momento, nelle scuole italiane, tutte le classi hanno visto interrompere bruscamente ogni tipo di continuità in presenza, compresa quella del gruppo classe. Come ho cercato di spiegare altrove[15], in questa contingenza il legame, pur a distanza, tra docenti e alunni della stessa classe è uno dei pochi elementi che è riuscito a garantire prossimità nell’emergenza. Spezzarlo brutalmente, e per sempre, andrebbe in questo momento a sovrapporre distanza alla distanza e non ha, in queste speciali condizioni, nulla di bello. Sarà necessario, se lo richiede l’emergenza, perché con ogni evidenza se l’orario cattedra è su più turni un docente vedrebbe trasformate le sue ore di docenza da 18 a 36, ma sarà in ogni caso un ulteriore evento traumatico, destinato a dividere le classi in “figli” (coloro che continuano con lo stesso insegnante) e “figliastri” (coloro per i quali si proseguirà con altri docenti). E, a seconda delle particolari condizioni di ordini, gradi e classi, potrebbe rivelarsi appena meno sgradevole della didattica a distanza. Proprio per questo il primo e fondamentale motivo per il quale è necessario prevedere questo come un provvedimento a scadenza è di natura squisitamente didattica. Vi è poi un secondo motivo, sul quale questo scritto non si addentra – così come per scelta si è deciso di non entrare che pochissimo nel merito dei protocolli sanitari e di non discutere le condizioni di emergenza sanitaria (insegno lettere, non sono un virologo, nemmeno da bar). Si potrebbe riassumere così: se da un lato è evidente, da anni, che l’Italia scolastica debba dotarsi di un sistema di reclutamento stabile, certo, replicabile nel tempo e che preveda tanto un momento di verifica delle conoscenze disciplinari (che sono e restano il requisito imprescindibile: non c’è competenza senza conoscenza e le cosiddette “competenze non formali”, acquisite sul campo, non possono sostituirsi a una verifica solida e pubblica tramite concorso) quanto un momento di formazione e verifica delle competenze didattiche, dall’altro non pare opportuno avviare un processo di reclutamento a tempo indeterminato (mettendo dunque in ruolo funzionari pubblici potenzialmente inamovibili) in un momento di emergenza. A maggior ragione quando quel processo appare poco meditato, poco discusso e troppo rapido, che rischia dunque di portare a ruolo una schiera di docenti troppo ampia senza verifica accurata.
Per l’a.s. 2020/21 è necessario invece prevedere una procedura emergenziale di immissione temporanea nella scuola di una serie di docenti (ai quali questo anno straordinario, previa verifica a fine anno, può anche essere riconosciuto come speciale punteggio, là dove poi passino il concorso) che possano garantire il ritorno in aula a piccoli e distanziati gruppi, senza assembramenti e con le norme di sicurezza previste per tutte le condizioni di lavoro, privato e pubblico. E, a questo proposito – senza entrare troppo nel merito (come detto) né dei protocolli sanitari, né delle soluzioni, spesso assai poco credibili, proposte – è necessario però dire ad alta voce che i docenti hanno diritto quanto meno alle stesse misure di prevenzione e protezione che, due aule più in là, si è provveduto a mettere in atto per il personale amministrativo e i collaboratori scolastici. E, di nuovo, questo non perché i docenti siano paurosi o incapaci o privi della volontà di fare il loro lavoro (i numeri riguardo alla partecipazione agli esami di Stato da parte dei commissari interni hanno smentito clamorosamente gli urlatori della pubblica gogna), ma perché sono, banalmente, lavoratori soggetti a un pubblico contratto collettivo nazionale il quale, come per tutti gli altri, va tenuto in conto e rispettato.
Note
[1] Cfr. Orsetta Innocenti, “Dov’era Gondor quando cadeva l’Ovestfalda?”. L’esame di Stato tra retorica, simboli ed errori di calcolo, «La letteratura e noi», 9 giugno 2020: https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/1202-%E2%80%9Cdov%E2%80%99era-gondor,-quando-cadeva-l%E2%80%99ovestfalda%E2%80%9D-l%E2%80%99esame-di-stato-2020-tra-retorica,-simboli-ed-errori-di-calcolo.html (u.c. 19/06/2020).
[2] Cfr. C. Verdelli, Tutti all’ultimo banco nella scuola dimenticata, «Corriere della sera», 16 giugno 2020: https://www.corriere.it/opinioni/20_giugno_16/tutti-all-ultimo-banco-999d2b4c-b000-11ea-a957-8b82646448cc.shtml?refresh_ce (u.c. 18/06/2020).
[3] Si veda la bella riflessione di Mila Spicola, Se metti i soldi apri le scuole, altrimenti non riapri. Benvenuta realtà, la sicurezza costa, «Huffington Post», 1 giugno 2020: https://www.huffingtonpost.it/entry/per-riaprire-la-scuola-in-sicurezza-servono-molti-soldi-benvenuta-realta_it_5ed4b77dc5b6a9bf4b38fd54?ncid=tweetlnkithpmg00000001&fbclid=IwAR0zogU74w-OBB_jQ5TpxBVV9-zuLvBd-GjOWvgpuRYb8BPS3l-zJH8l2rg (u.c., 18/06/2020).
[4] Cfr. https://www.miur.gov.it/documents/20182/2467413/Le+linee+guida.pdf/4e4bb411-1f90-9502-f01e-d8841a949429?version=1.0&t=1593201965918 (u.c. 04/07/2020).
[5] Cfr. https://www.miur.gov.it/web/guest/viewasset/-/asset_publisher/JSNbzntsYmTr/document/id/3130064?_com_liferay_asset_publisher_web_portlet_AssetPublisherPortlet_INSTANCE_JSNbzntsYmTr_redirect=https%3A%2F%2Fwww.miur.gov.it%2Fweb%2Fguest%2Fviewasset%3Fp_p_id%3Dcom_liferay_asset_publisher_web_portlet_AssetPublisherPortlet_INSTANCE_JSNbzntsYmTr%26p_p_lifecycle%3D0%26p_p_state%3Dnormal%26p_p_mode%3Dview%26_com_liferay_asset_publisher_web_portlet_AssetPublisherPortlet_INSTANCE_JSNbzntsYmTr_cur%3D0%26p_r_p_resetCur%3Dfalse%26_com_liferay_asset_publisher_web_portlet_AssetPublisherPortlet_INSTANCE_JSNbzntsYmTr_assetEntryId%3D3130064 (u.c. 04/07/2020).
[6] Cfr. https://www.miur.gov.it/web/guest/-/scuola-nessun-taglio-all-organi-1 (u.c. 18/06/2020).
[7] Il dimensionamento scolastico viene posto in essere per la prima volta dalla legge 59/1997 (art. 21): http://www.parlamento.it/parlam/leggi/97059l.htm (u.c. 18/06/2020); applicato sistematicamente sotto il ministero Moratti, viene ulteriormente ripreso da Gelmini, cfr. il consueto DPR 81/2009 e la L 111/2011, e poi con la L. 183/2011 che eleva ulteriormente agli attuali 600 il numero minimo di alunni per avere l’autonomia (cioè: un proprio DS e un proprio ‘economo’, il DSGA).
[8] Cfr. https://www.miur.gov.it/web/guest/-/edilizia-scolastica-pronti-330-milioni-per-quella-leggera- (u.c. 12/06/2020).
[9] Cfr. A. D. Ficara, Le criticità strutturali degli edifici scolastici, «La Tecnica della scuola», 18 dicembre 2019: https://www.tecnicadellascuola.it/le-criticita-strutturali-degli-edifici-scolastici del 18 dicembre 2019 (u.c. 18/06/2020) e il piano presentato a novembre 2019 dalla Fondazione Agnelli: https://www.fondazioneagnelli.it/wp-content/uploads/2019/11/presentazione-Rapporto-edilizia-scolastica.pdf (u.c. 18/06/2020).
[10] Quando nel 1987 il socialista Ruberti entra nel governo Goria come Ministro senza portafoglio con delega alla ricerca, il programma dichiarato è infatti proprio quello dello smembramento dell’Istruzione, contestuale all’accorpamento di Università e Ricerca nella nuova sigla del MURST (Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica). Un breve resoconto di questo biennio così cruciale nel contesto di una visione dell’educazione pubblica si può leggere in Alessandro Figà Talamanca, La vera storia dell’autonomia universitaria, 20/08/2012, in https://www.roars.it/online/la-vera-storia-dellautonomia-universitaria/ (u.c. 25/04/2020).
[11] Cfr. https://www.miur.gov.it/documents/20182/2467413/DOCUMENTO+TECNICO+SULL%E2%80%99IPOTESI+DI+RIMODULAZIONE+DELLE+MISURE+CONTENITIVE+NEL+SETTORE+SCOLASTICO.pdf/8d3ca845-d7a7-d691-ec78-1c1ac5e5da53?t=1590689741359 (u.c. 18/06/2020).
[12] Cfr. http://2.flcgil.stgy.it/files/pdf/20200529/nota-1033-del-29-maggio-2020-misure-sicurezza-e-protezione-scuole-statali-as-2020-2021.pdf (u.c. 18/06/2020).
[13] Un buon riassunto si può trovare qui: http://www.cislscuola.it/sites/default/files/dimvert.pdf (u.c. 18/06/2020). All’inizio dell’A.S. 2019/2020, con un concorso a preside appena espletato, le scuole in reggenza in Italia restavano 500: cfr. G. Merli, Scuola al via ma mancano ancora gli insegnanti, «il Manifesto», 3 settembre 2019: https://ilmanifesto.it/scuola-al-via-ma-mancano-ancora-gli-insegnanti/ (u.c. 18/06/2020).
[14] Cfr. C. Zunino, Sos dei presidi per settembre: “Più insegnanti e bidelli o la scuola sarà dimezzata”, «La Repubblica», 16 giugno 2020: https://rep.repubblica.it/ws/detail/generale/2020/06/16/news/sos_dei_presidi_per_settembre_piu_insegnanti_e_bidelli_o_la_scuola_sara_dimezzata_-259405572/ (u.c. 18/06/2020).
[15] Cfr. Orsetta Innocenti, “Quasi quanto la sua ex fidanzata”. Ovvero: ciò che è ineludibile della distanza è… la distanza, «Griselda», 5 aprile 2020: https://site.unibo.it/griseldaonline/it/diario-quarantena/orsetta-innocenti-quasi-quanto-ex-fidanzata (u.c. 18/06/2020).
Quasi tutto condivisibile, ma trovo che, proprio nell’interesse di un più efficace rapporto didattico, la riduzione immediata e permanente del numero massimo degli alunni per classe rappresenti un vantaggio di gran lunga prevalente sulla cosiddetta continuità, che come ricorda la stessa articolista “non è un dogma”. A maggior ragione nelle superiori, dove l’importanza attribuita all’insegnante-chioccia che accompagna le medesime classi per più anni consecutivi è in gran parte il frutto di una deriva psicologistica sconcertante, che sembra promuovere la gestione dell’emotività e dell’affettività a vero enjeu qualificante della professione docente. Mentre il compito della scuola consiste nel dotare ragazzi di armi intellettuali per le sfide e le crisi della vita, non nel cullarli in un safe space come altrettanti fiocchi di neve a rischio struggimento.
La riduzione del numero degli alunni per classe, concordo, è talmente urgente che quella immediatezza data alla stessa data (perdona il bisticcio) del suo provvedimento con il DPR 81/2009. E sono d’accordo anche sul fatto che sarebbe assolutamente opportuna una riflessione sul cambio di paradigma possibile da continuità a discontinuità (vi sono dei vantaggi nella continuità, che potrebbe essere parziale e declinata non sui parametri psicologisti della chioccia, un rischio perenne, sono d’accordo, ma su parametri basati sull’idea di progettazione – una discontinuità paradigmatica contiene in sé per esempio il rischio di una didattica assai più standardizzata, evitabile, ma, a mio avviso, da dibattere). Continuo viceversa a pensare che spaccare permanentemente i gruppi classi senza una riflessione a monte e a seguito di un anno in emergenza, nonché alla vigilia di un altro anno emergenziale, potrebbe rivelarsi un rimedio assai peggiore del male, specie alla luce di come è strutturato l’attuale sistema di supplenze in Italia, e della mancanza endemica delle stesse (parlo sempre e soprattutto di quel che conosco, cioè delle superiori) in alcune materie. La prossimità vissuta a distanza è stata uno degli elementi che ha tenuto insieme le classi in questi quattro mesi: spaccarla, in questa specifica situazione, non è detto che porti solo vantaggi didattici, a mio avviso, anzi. Ed è vero che i ragazzi non devono essere trattati come fiocchi di neve, in assoluto, ma avere vissuto la interruzione di ogni forma di socialità, così come dell’istruzione canonica, per una pandemia mondiale penso possa considerarsi una eccezione che tolleri il rischio di un poco di cura e di indulgenza.
Diverso ancora (non ne ho parlato nel testo perché era già molto lungo, e qualcosa ho scelto di trascurare), anche se sposto il discorso altrove e ne sono consapevole, sarebbe per esempio fare i doppi turni classici (modello ‘terremoto’), una soluzione che inspiegabilmente scartano tutti in partenza e che viceversa potrebbe essere quella che garantisce un ritorno a scuola per tutti con una diminuzione delle ore di didattica molto contenuta. Ma qui si aprirebbe la questione del perché all’Italia sociale fa molto comodo che la scuola sia di mattina.