di Wlliam Carlos Williams (trad. di Tommaso Di Dio)

 

[È in uscita in questi giorni, a cura di Tommaso Di Dio, la prima edizione integrale in lingua italiana di un classico americano del ‘900: La primavera e tutto il resto (1923) del poeta William Carlos Williams. Il libro sarà pubblicato dalle edizioni FinisTerrae di Ibis, nella collana Le meteore a cura di Domenico Brancale e Anna Ruchat].

 

(…)

 

Io amo i miei simili. Gesù, come l’amo; all’estremo, lateralmente, frontalmente e in tutte le altre direzioni – ma lui non esiste! Nemmeno lei. Io invece sì, in una sorta di maniera bastarda.

A chi mi rivolgo? All’immaginazione.

 

In realtà, per tornare sul mio tema, quasi tutta la scrittura fino ad oggi, se non tutta l’arte, è stata progettata proprio per mantenere una barriera fra il senso e il vaporoso margine che distrae l’attenzione dai suoi agonizzanti avvicinamenti al momento. È stata sempre una ricerca della “bella illusione”. Molto bene. Io non sono in cerca della “bella illusione”.

 

E se, quando pomposamente annuncio a chi sono rivolto – all’immaginazione –, tu credi che così divorzi me stesso dalla vita e allora rifiuti il mio fine, io rispondo: Per raffinare, chiarire, intensificare quell’eterno momento in cui solamente noi viviamo, non c’è che una singola forza – l’immaginazione. Questo è il suo libro. Io, in persona, vi invito a leggere e a vedere.

 

Nell’immaginazione, siamo d’ora in poi (finché tu leggerai) racchiusi in un fraterno abbraccio, la classica carezza dell’autore e del lettore. Noi siamo una cosa sola. Ogni volta che dirò “io”, intenderò anche “tu”. E così, insieme come cosa sola, cominceremo.

 

(…)

 

*

 

(…)

 

I love my fellow creature. Jesus, how I love him : endways, sideways, frontways and all the other ways — but he doesn’t exist ! Neither does she. I do, in a bastardly sort of way.

To whom then am I addressed ? To the imagination.

 

In fact to return upon my theme for the time nearly all writing, up to the present, if not all art, has been especially designed to keep up the barrier between sense and the vaporous fringe which distracts the attention from its agonized approaches to the moment. It has been always a search for, “the beautiful illusion”. Very well. I am not in search of “the beautiful illusion”.

 

And if when I pompously announce that I am addressed — To the imagination — you believe that I thus divorce myself from life and so defeat my own end, I reply : To refine, to clarify, to intensify that eternal moment in which we alone live there is but a single force — the imagination. This is its book. I myself invite you to read and to see.

 

In the imagination, we are from henceforth (so long as you read) locked in a fraternal embrace, the classic caress of author and reader. We are one. Whenever I say “I” I mean also “you”. And so, together, as one, we shall begin.

 

* * *

 

I.

 

Sulla strada verso l’ospedale del contagio
sotto l’impennata delle blu
chiazzate nuvole, alla deriva trascinate dal
nordest – un vento freddo. Al di là, lo
spreco di vasti, fangosi terreni
bruni di erba secca, stagnanti e cadute

 

toppe d’acqua stagnante

uno spargimento di alti alberi

 

lungo tutta la strada, la rossastra

violacea, biforcuta, retta e sterposa
cianfrusaglia di cespugli e alberelli
con le morte, scure foglie sotto di loro
viti senza foglie –

 

All’apparenza senza vita, la fiacca
la stupefatta primavera si approssima –
Entrano nel nuovo mondo nudi
freddi, incerti di tutto
tranne che del loro entrare. Tutto intorno a loro
un vento freddo e familiare –

 

Adesso l’erba, domani
il rigido ricciolo della foglia di carota selvatica

 

uno dopo l’altro, gli oggetti si definiscono –
Accelera: chiarità e contorno di foglia

ma adesso la brulla dignità
di ogni entrare – Immobili, un profondo mutamento
è giunto in loro: radicati, s’aggrappano
giù, alla terra e cominciano
a risvegliarsi.

 

*

 

I

 

By the road to the contagious hospital

under the surge of the blue

mottled clouds driven from the

northeast — a cold wind. Beyond, the

waste of broad, muddy fields

brown with dried weeds, standing and fallen

 

patches of standing water

the scattering of tall trees

 

All along the road the reddish

purplish, forked, upstanding, twiggy

stuff of bushes and small trees

with dead, brown leaves under them

leafless vines —

 

Lifeless in appearance, sluggish

dazed spring approaches —

 

They enter the new world naked,

cold, uncertain of all

save that they enter. All about them

the cold, familiar wind —

 

Now the grass, tomorrow

the stiff curl of wild carrot leaf

 

One by one objects are defined —

It quickens : clarity, outline of leaf

 

But now the stark dignity of

entrance — Still, the profound change

has come upon then : rooted they

grip down and begin to awaken

 

* * *

 

(…)

 

L’uomo d’immaginazione che si rivolge all’arte per la liberazione e il compimento delle sue pro- messe di bambino gareggia con il cielo attraverso strati di parole e forme obsolete. Obsolete, non perché l’essenziale vitalità che le generò giace devastata – questo non può essere, un giovane uomo lo sente, poiché lo sente dentro di sé – ma perché i significati sono stati persi per pigrizia o per i muta- menti nella forma dell’esistenza che hanno lasciato le parole svuotarsi.

 

A mani nude l’uomo lotta con il cielo, senza esperienza dell’esistenza, cercando di inventarla e progettarla.

 

È frutto di un rozzo simbolismo associare emozioni a fenomeni naturali come la rabbia al fulmine, i fiori all’amore va oltre e si associano anche diverse consistenze con

 

Questo lavoro è vuoto. È tipico di quasi tutti gli scrittori che riempiono pagine ogni mese di carta come questa. Tutto quello che ho fatto nel passato – a parte quello che può esser detto eccellente – per caso, ha la medesima qualità

 

È reso stereotipo dall’uso della parola «come» o quella «evocazione» dell’«immagine», che ci è servita per un certo tempo. Il suo abuso è manifesto. L’«immagine» insignificante può essere «evocata» con la massima abilità e tuttavia non significare nulla.

 

*

 

(…)

 

The man of imagination who turns to art for release and fulfillment of his baby promises contends

with the sky through layers of demoded words and shapes. Demoded, not because the essential vitality which begot them is laid waste — this cannot be so, a young man feels, since he feels it in himself — but because meanings have been lost through laziness or changes in the form of existence which have let words empty.

 

Hare handed the man contends with the sky, without experience of existence seeking to invent and design.

 

Crude symbolism is to associate emotions with natural phenomena such as anger with lightning, flowers with love it goes further and associates certain textures with Such work is empty. It is very typical of almost all that is done by the writers who fill the pages ever month of such a paper as. Everything that I have done in the past — except those parts which may be called excellent — by chance, have that quality about them.

 

It is typified by use of the word «like» or that «evocation» of the «image» which served us for a time. Its abuse is apparent. The insignificant «image» may be «evoked» never so ably and still mean nothing.

 

* * *

 

Venti neri serpeggiano da nord

entrano nei cuori neri. Esclusi dalla

solitudine dei gigli, colpiscono

per distruggere –

 

bestiale umanità

dove il vento irrompe –

 

…………………………………………..voci che stridono, calore

che si fa più vivo, costruito da onde

 

ubriaco di capre o marciapiedi

 

L’odio è della notte e del giorno

dei fiori e delle rocce. Non è

un guadagno dire che la notte genera

omicidio – è il classico errore

 

Il giorno

 

Tutto ciò che entra in un altro uomo

tutti i prati, tutti i merli in volo

tutte le azalee in fiore

i venti salati –

 

venduti a loro gli uomini si battono ciecamente

le teste fino a spaccarsele

 

Questo è il perché un incontro di boxe è

identico a una poesia cinese – questo è il perché

Hartley elogia Miss Wirt[1]

 

non c’è nulla nella svolta

del vento se non – scrosci di fredda pioggia

 

è uno con vista sottomarina

pesce porpora e nero volteggiando

fra le alghe ondulanti –

Nero vento, io ti ho riversato il mio cuore

fino ad averne la nausea –

 

Adesso farò scorrere la mia mano su di te, avvertendo

il gioco del tuo corpo – il brivido

della sua forza –

 

La pena dell’arciere di Shu[2]

si avvicina – c’è

un approccio, difficoltoso, da ciò che è

morto – lo scrigno invernale di una pena

 

quanto è facile scivolare

nella modalità precedente, quanto è difficile

fermamente aggrapparsi prima del tempo –

 

*

 

V

 

Black winds from the north

enter black hearts. Barred from

seclusion in lilys they strike

to destroy —

 

Beastly humanity

where the wind breaks it —

                                               strident voices, heat

quickened, built of waves

 

Drunk with- goats or pavements

 

Hate his of the night and the day

of flowers and rocks. Nothing

is gained by saying the night breeds

murder — It is the classical mistake

 

The day

 

All that enters in another person

all grass, all blackbirds flying

all azalia trees in flower

salt winds —

 

Sold to them men knock blindly together

splitting their heads open

 

That is why boxing matches and

Chinese poems are the same — That is why

Hartley praises Miss Wirt

 

There is nothing in the twist

of the wind but — dashes of cold rain

 

It is one with submarine vistas

purple and black fish turning

among undulant seaweed —

Black wind, I have poured my heart out

to you until I am sick of it —

 

Now I run my hand over you feeling

the play of your body — the quiver

of its strength —

 

The grief of the bowmen of Shu

moves nearer — There is

an approach with difficulty from

the dead — the winter casing of grief

 

How easy to slip

into the old mode, how hard to

cling firmly to the advance —

 

[1]   Si fa riferimento ad un passo di un’opera del pittore e poeta Marsden Hartley, Adventures in Arts (1921), in cui si elogia un’artista circense di nome May Wirth.

[2]   Si fa riferimento alla Canzone dell’arciere Shu di Ezra Pound, pubblicata per la prima volta nell’opera Cathay (1915), riscrittura dal poeta cinese Bunnō (1100 B.C.).

 

* * *

 

(…)

Nella condizione di una sospensione immaginativa, solamente lo scrivere avrà realtà, come in precedenza è stato in parte spiegato – non per provare, allora, ad assegnare alla parola che si usa un valore in accordo con misurazioni presupposte, ma per annotare ciò che accade in quel momento–

Per perfezionare l’abilità di registrare, nel momento in cui la coscienza è allargata dall’affinità e dall’unità di comprensione che l’immaginazione gli concede, per esercitare la capacità di registrare la forza in movimento, e poi per conoscerla, nella larghezza delle sue proporzioni –

 

È la presenza di un

 

Questo non è “adattare”, ma fare unità con l’esperienza.

 

Ovvero, l’immaginazione è una forza reale, comparabile all’elettricità o al vapore, non è un giocattolo ma una potenza che è stata adoperata fin dal principio per sollevare la comprensione del – c’è, non è necessario ricorrere al misticismo – di fatto, è questo che ha conservato la conoscenza che cerco –

 

Il valore dell’immaginazione per uno scrittore consiste nella sua abilità di costruire parole. Il suo unico potere è dare realtà alle forme create, dare esistenza reale

 

(…)

 

*

 

When in the condition of imaginative suspense only will the writing have reality, as explained partially in what precedes — Not to attempt, at that time, to set values on the word being used, according to presupposed measures, but to write down that which happens at that time —

 

To perfect the ability to record at the moment when the consciousness is enlarged by the sympathies and the unity of understanding which the imagination gives, to practice skill in recording the force moving, then to know it, in the largeness of its proportions —

 

It is the presence of a

 

This is not “fit” but a unification of experience

 

That is, the imagination is an actual force comparable to electricity or steam, it is not a plaything

but a power that has been used from the first to raise the understanding of — it is, not necessary to resort to mysticism — in fact it is this which has kept back the knowledge I seek —

 

The value of the imagination to the writer consists in its ability to make words. Its unique power is to give created forms reality, actual existence

 

* * *

 

XVIII.

 

I puri prodotti dell’America

impazziscono –

La gente di montagna, dal Kentucky

 

o il lontano ondulato limite nord

del Jersey

con i suoi laghi isolati e

 

valli, i suoi sordomuti, i ladri

i suoi vecchi nomi e

la promiscuità fra

 

uomini temerari, che si sono dati

ai binari delle ferrovie

per il più puro piacere dell’avventura –

 

e giovani ragazze trasandate, inzuppate

nel sudicio

dal lunedì al sabato

 

per essere raggirate quella stessa notte

con pacchianerie

provenienti da immaginazioni che non hanno

 

tradizione contadina alcuna che almeno gli dia

carattere

ma soltanto gli danno da sbattere e sfoggiare

 

stracci semitrasparenti – eccole, soccombenti senza

emozione

se non un ottuso terrore

 

sotto una qualche siepe di pruno amaro

o di viburno –

che non sanno nominare –

 

se non fosse proprio un matrimonio di quelli

forse

con un colpo di sangue indiano

 

a sollevare una ragazza così desolata

così assediata

da malattia o omicidio

 

sarà salvata forse da un

pubblico agente –

cresciuto dallo stato e

 

scacciato a quindici anni per lavorare in una

qualche ben pressata

casa di periferia –

 

la famiglia di un dottore, qualche Elsie –

acque voluttuose

che esprimono, con un fratturato

 

cervello, la verità di noi –

i suoi grandi

ineleganti fianchi e cadenti seni

 

rivolti a gioielletti

da poco

e giovani uomini, ricchi, con occhi belli

 

come se la terra sotto i nostri piedi

fosse

l’escremento di un qualche cielo

 

e noi fossimo degradati prigionieri

destinati

alla fame finché non ci nutriremo del lercio

 

mentre l’immaginazione si slancia

alla rincorsa del cervo

per i campi di asteracee che va

 

nel caldo soffocante di settembre

In qualche modo

sembra che ci distrugga

 

è solo, è nelle isolate macchie che

qualcosa

si sprigiona

 

nessuno

che possa testimoniare

e modificare, nessuno a guidare la macchina.

 

*

 

XVIII

 

The pure products of America
go crazy –
mountain folk from Kentucky

 

or the ribbed north end of
Jersey
with its isolate lakes and

 

valleys, its deaf-mutes, thieves
old names
and promiscuity between

 

devil-may-care men who have taken
to railroading
out of sheer lust of adventure –

 

and young slatterns, bathed
in filth
from Monday to Saturday

 

to be tricked out that night
with gauds
from imaginations which have no

 

peasant traditions to give them
character
but flutter and flaunt

 

sheer rags succumbing without
emotion
save numbed terror

 

under some hedge of choke-cherry
or viburnum–
which they cannot express–

 

Unless it be that marriage
perhaps
with a dash of Indian blood

 

will throw up a girl so desolate
so hemmed round
with disease or murder

 

that she’ll be rescued by an
agent –
reared by the state and

 

sent out at fifteen to work in
some hard-pressed
house in the suburbs –

 

some doctor’s family, some Elsie
voluptuous water
expressing with broken

 

brain the truth about us –
her great
ungainly hips and flopping breasts

 

addressed to cheap
jewelry
and rich young men with fine eyes

 

as if the earth under our feet
were
an excrement of some sky

 

and we degraded prisoners
destined
to hunger until we eat filth

 

while the imagination strains
after deer
going by fields of goldenrod in

 

the stifling heat of September
somehow
it seems to destroy us

 

It is only in isolate flecks that
something
is given off

 

No one
to witness
and adjust, no one to drive the car

 

* * *

 

Addentrarsi, per la prima volta in italiano, tra i versi e le prose e nella precisa furia di La primavera e tutto il resto di W.C. Williams è come tornare a sentire sulla faccia il soffio improvviso di un fresco vento di Marzo, un vento – dobbiamo dire subito – che nella poesia fa sempre più fatica a raggiungere il volto del lettore.

Quello che immediatamente colpisce di questo piccolo libro pubblicato nel 1923, quando l’autore aveva 40 anni, quasi clandestinamente, in non più di 300 copie, a Dijon da un editore americano in esilio volontario, Robert McAlmon, e uno stampatore d’eccezione, Maurice Darantière – lo stesso che l’anno prima aveva stampato l’Ulisse di Joyce –, è che fu scritto senza fiato: come correndo, verso una destinazione sconosciuta. E più si avanza nella lettura, più si comprende che è proprio l’imprevedibilità della meta e il contemporaneo disvelarsi progressivo della strada ad essere oggetto e peculiare godimento di questo libro. Sì, un libro che è scritto non per raggiungere un punto fermo nell’arte, per rivelare una teoria, ma per assaggiare il gusto di un movimento, per testarne i limiti, toccare i bordi, sancirne le fuoriuscite obbligatorie e i punti ciechi. La primavera e tutto il resto è prima di tutto, a pochi anni dopo la fine della prima guerra mondiale, questo immenso, liberatorio, monumento di genuina e ritrovata libertà.

Anche per questo, forse, non è un’opera che lascia a riposo il lettore, anzi: gli chiede di mettersi in gioco, sempre, e verificare da complice, da sodale, forse anche con la fiducia dell’amico, se sia capace di stare dentro quest’oscillazione continua fra esperienza vissuta e scrittura, fra forma e ciò che rompe e spezza la forma, fra la chiarezza di un’immagine e la sua invece forsennata sovrapposizione con mille altre, in un gioco di incastri esibiti che risente esplicitamente degli esiti più estremi del coevo cubismo. Gli stessi due generi di cui si compone, la prosa e la poesia, qui si rincorrono e sovrappongono infaticabilmente: l’una fa esperienza dell’altra e porta nelle proprie evoluzioni stilistiche lo stigma di essere passata dal suo rovescio. A volte la poesia narra e la prosa mostra, altre accade il contrario, altre ancora la prosa si dà come occasione di speculazione teorica, ma mai volendosi compiuta, più dandosi come ritaglio, collage, tentativo perpetuo di un pensiero senza sosta, che lascia frasi a metà perché preso da un vuoto, da un’incapacità di mentire e suggerire continuità laddove non c’è e trova invece l’esigenza di mostrare il pensiero come ciò che si dà per frammenti, per lampi.

Al centro di questo libro di fiamme, c’è infatti il tentativo ossessivo e irrisolto – e per questo tremendamente affascinante – di provare a circoscrivere il momento assoluto, dove pensiero e azione si fondono, il momento senza limiti né bordi in cui ognuno di noi è, in un senso primordiale: «Il lettore conosce se stesso come vent’anni fa e ha anche nella mente una visione di ciò che sarà, un giorno. Oh, un giorno! Ma la cosa che mai conosce e mai osa conoscere è ciò che è nell’esatto momento in cui è. E questo momento è l’unica cosa a cui io sono interessato». Lo strumento designato per questo compito impossibile è niente poco di meno che l’immaginazione: «A chi mi rivolgo? All’immaginazione». Williams infatti afferma che «tutta la scrittura, e fino ad oggi, se non tutta l’arte, è stata progettata specialmente per mantenere una barriera fra il senso e il vaporoso margine che distrae l’attenzione dai suoi agonizzanti avvicinamenti al momento». Tutta l’arte non è che distrazione, diversione, allontanamento dal momento in cui ci si può infine percepire viventi, in cui si comprende il nudo fatto di esistere. Se così stanno le cose, questo libro potrebbe essere considerato nient’altro che la registrazione continua e ripetuta in ogni verso in ogni paragrafo, di un clamoroso fallimento, non dandosi mai una volta per tutte la coincidenza tra l’essere e il segno che lo mostra. Nondimeno, questo fallimento produce una moltiplicazione di strade e di possibilità tanto vertiginosa ed esuberante che mostra la terra come primavera, come luogo dove si sbaglia felici.

La primavera e tutto il resto è infatti da ultimo anche questo: il tentativo di rispondere con un’esplosione, precaria ma entusiasta, all’idea del moderno che T.S. Eliot aveva proposto nella sua The Waste Land solo un anno prima. A quella dimensione intellettualistica e fredda, dove aprile è il mese più crudele, il pediatra di Rutherford oppone l’arte di far nascere, momento per momento, qualcosa di libero e nuovo: «un profondo mutamento / è giunto in loro: radicati, s’aggrappano / giù, alla terra e cominciano / a risvegliarsi.» (di Tommaso Di Dio in «Gradiva», n. 57, Spring 2020, pp. 122-123).

 

 

[Immagine: Opera di Giulio Zanet (particolare)].

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