di Mariangela Caprara

 

Nella fitta selva di libri dedicati ai miti greci e romani e in generale alla civiltà classica, il nuovo saggio di Matteo Nucci (Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno, Einaudi 2020) appare come un prodigio di intuizione e rigore: una ricerca filologica e filosofica, dunque nulla di compilativo, a dispetto di un titolo binario a molti apparso prevedibile. Ma Nucci è uno scrittore che spesso spiazza il lettore, un transfuga dei generi a cui pure le sue opere vanno ad ascriversi, giacché il corposo saggio L’abisso di Eros. Seduzione (Ponte alle Grazie 2018) non è certo un manuale di arte amatoria secondo gli antichi o una rassegna psicoantropologica sull’amore, ma un percorso di iniziazione a Platone, mistico e profondissimo; e anche il suo ultimo romanzo È giusto obbedire alla notte (Ponte alle Grazie 2017), sigillato dal verso eroico che fa da titolo, è un viaggio sulla sponda di un Tevere fatale e trasfigurato nelle baracche dei fiumaroli, eroi caduti e giganteschi tra ninfe bambine e madri primigenie, in un affresco sulle prime straniante.

 

Eppure poche scritture sono limpide come quella di Matteo Nucci, che sembra omaggiare, forse inconsapevolmente, la gentilezza suprema e bonaria del suo grande maestro di filosofia, Gabriele Giannantoni, quella capacità di insegnare con il sorriso di un’umanità serena e sì, limpidamente classica.

La questione filologica che dà l’avvio alla ricerca è poco nota, perché non divulgata di solito nella lettura di Omero che la scuola italiana ha offerto e offre a milioni di giovani, e non è nota certo al grande pubblico, che dell’Odissea conosce una riduzione poco più che televisiva, con mostri maghe dèi dispensatori di avventure nel genere fantastico più puro. Ma il dettaglio è diabolico. Nel celebre banchetto alla reggia dei Feaci l’aedo Demodoco entra in scena per cantare la storia di una contesa (neikos) tra Odisseo e Achille “la cui fama allora arrivava al vasto cielo”, come dice Omero; una storia ben nota dunque a tutti gli ascoltatori e probabilmente allo stesso Odisseo, che infatti inizia a piangere di nascosto. Ma per noi si tratta solo un piccolo accenno senza sviluppo: di quello che doveva essere un racconto notissimo all’interno della tradizione aedica, a noi non è pervenuta che questa preterizione. Il percorso del lettore di Nucci parte da qui, e sulle tracce della celeberrima contesa eroica approda, passando per il Filottete sofocleo, al poco noto dialogo platonico Ippia minore, dove la contrapposizione tra i due eroi omerici è già paradigma di caratteri: Achille è «veritiero e semplice», Odisseo «multiforme e falso».

 

La paideia greca classica, la tradizione che si tramanda attivamente, e che si vive, si è dunque appropriata di questo paradigma, e lo declina con diverse sfumature, avendolo sempre ben presente. Ma Platone orienta l’esegesi omerica verso una profonda riflessione sul tempo: nella sua naturale sincerità Achille è sempre gettato nel presente, mentre nella dote dell’astuzia Odisseo è sempre proiettato nel futuro. Di Achille scopriamo dunque una dolce vita fatta di banchetto, musica e amore, nei versi omerici che fanno da cornice all’ambasceria inviatagli da Agamennone perché ritorni a combattere; ne scopriamo l’attaccamento alle gioie semplici e quindi il malinconico dissidio con la vita eroica che gli è stata prescritta, che diventa grido tragico dopo la morte di Patroclo. In Odisseo prende peraltro forma la figura di un tessitore di racconti, di un aedo, come chiaramente gli dice Alcinoo quando ha finito di ascoltare la sua odissea; la natura dell’eroe polytropos non rimane dunque confinata al cliché del furbo polimorfo e ingannatore, ma inclina verso l’incanto della parola: del resto, le parole di Odisseo sono “simili ai fiocchi di neve” – così dice Priamo ad Elena, nella scena iliadica sulle porte Scee – che cade senza rumore ma traveste le apparenze e induce a riorientarsi in un paesaggio mutato.

 

Dal comune attaccamento alla vita, e agli amori appassionati di questa vita, scaturisce poi la ferocia dei due eroi, che Omero non stinge né in una condanna puritana e inorridita del tanto sangue versato né in uno splatter compiaciuto, figlio esso stesso di censure moderne e postmoderne della violenza. La ferocia rappresenta piuttosto il materializzarsi della scelta compiuta, della svolta che si decide di imprimere al proprio tempo vitale.

 

In tanti altri passaggi, come in questi che costituiscono l’impalcatura centrale del saggio, Nucci può dunque, con la maestria del post-filologo, demolire tutti i cliché di una lettura banalizzante, benché assai popolare, dei personaggi del mito antico, e il pregio del suo libro è sostanzialmente questo: riconoscere la distanza dagli antichi, misurarla sui testi, non fidarsi delle etichette scolastiche, e continuare il millenario e sempre necessario lavoro dell’interprete. Il lettore troverà appaganti e illuminanti le pagine, dense di riferimenti antichi anche assai originali, sul tempo della vita, la forza del passato, il richiamo del presente, la mortalità consapevole, la fragilità degli eroi, sul filo di una opposizione irriducibile di caratteri per cui sarà certamente spinto a parteggiare: ma non si sarà nutrito di vaghe ricette esistenziali per la terapia delle passioni tristi del nostro tempo o di entusiasmi naïf per la grecità; sarà piuttosto spinto a rileggere Omero, a carpire il senso dei versi compitandoli parola per parola, riacquistando la piena coscienza delle potenzialità di una lettura non cursoria, non facile, ma portatrice di verità.

 

Proprio dall’abitudine a una lettura così profonda scaturisce infatti in Nucci un ulteriore, ultimo istinto: la parafrasi letteraria di Omero, una sfida colta già nell’antichità, che non solo realizza narrazioni di fatti omerici in forme letterarie diverse dall’epica, ma riscrive in versi omerici altre narrazioni, come la Bibbia. Nucci si concede così in quest’ultimo libro il lusso di un memorabile ritratto di Elena in interludi narrativi, in cui si distilla tutta la corposa tradizione antica riguardo al personaggio, ma anche una vibrante esperienza personale del paesaggio di Sparta e della lingua di Sparta; e nella fine tessitura di parole, colori e luci di una Grecia materiale e spirituale, siamo guidati ancora una volta in un viaggio che non smettiamo di voler fare.

 

 

[Immagine: Achille e Odisseo in una coppa attica a figure rosse attribuita a Duride, rinvenuta a Vulci  (V secolo a.C.). British Museum Londra]

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