di Francesco Benigno, E. Igor Mineo

 

[E’ uscito da poco in libreria, edito da Viella, L’Italia come storia. Primato, decadenza, eccezione, un libro collettivo curato da Francesco Benigno e E. Igor Mineo. Gli autori sono: Giulia Albanese, Giorgia Alessi, Luca Baldissara, Tommaso Baris, Marco Bellabarba, Antonino De Francesco, Serena Ferente, Angela Groppi, Stefano Jossa, Vincenzo Lavenia, Daniele Menozzi, Marco Meriggi, Ottavia Niccoli, Marcello Verga.

Si propone qui un estratto dell’Introduzione.]

 

Fra pratica storiografica e polemica pubblica il canone nazionale italiano, ovvero un insieme di temi e problemi fondamentali relativi all’identità storica del paese, si aggira nella sfera pubblica e nei testi accademici, sia pure ormai solo come spettro. Esso tiene assieme, come due facce della stessa medaglia, discorsi sul primato e discorsi sul ritardo o sulla decadenza, con l’avvertenza che, sul lungo periodo, questi ultimi si sono rivelati più̀ resistenti e influenti dei primi. Il suo principale segno di riconoscimento è in una forma di eccezionalismo che non consiste solo nell’idea di una storia speciale, peculiare e distinta da quella del resto del mondo ma in qualcosa di più: la fisionomia dell’Italia di oggi, e soprattutto i suoi mali, vi appaiono non come l’effetto di una serie di condizioni rintracciabili nel presente o nel passato recente, ma come il risultato di un sedimentato deposito di tare originarie, tali da definire una contorta morfologia storica.

 

Si tratta di un’antica attitudine che risale al processo di formazione dello stato unitario nel XIX secolo, e per certi versi rimonta ancora più indietro, alle origini delle culture nazionali, fra Sette e Ottocento. La genealogia esplicativa per via d’eccezione ha goduto però negli ultimi anni di una rinnovata fortuna nell’opinione pubblica. Connessa a bisogni politici immediati, oltreché a un diffuso sentire collettivo, essa tende a raccontare la vicenda del paese come un succedersi di vuoti e di carenze, di ritardi e di mancanze, rimandando a un «peccato originale», identificato nei modi più̀ vari, tra cui la mancanza vuoi di una riforma protestante, vuoi di una vera rivoluzione, vuoi di un’autentica dimensione statuale. Più spesso l’essenza di tale fenomeno è stata identificata in un presunto «carattere degli italiani», espresso da una serie di tratti perniciosi quali l’individualismo, l’intelligenza furbesca, lo scarso senso civico, il familismo e, sul piano politico, il conformismo delle élites e il radicato quietismo delle maggioranze di governo. Ne è risultato una sorta di patriottismo alla rovescia, un atteggiamento pesantemente autocritico spinto fino alla fustigazione di sé e addirittura al sentimento dell’intima vergogna nel dirsi italiani.

 

La sindrome della differenza difettiva rispetto ad altre tradizioni nazionali ha un preciso riflesso, a segno rovesciato, a volte nella storia politica (medievale), di regola in molta storia della cultura, delle arti, della letteratura. Si può anzi dire che il senso della decadenza moderna abbia a lungo convissuto col tema, solo apparentemente contraddittorio, del primato italiano in ambito artistico o letterario, inscritto quest’ultimo in una lunga parabola storica sua propria, e ciò̀ fin da quando il prototipo di ogni «storia della letteratura italiana», quello costruito da Francesco De Sanctis, vide per la prima volta la luce, nel 1870.

 

Per individuare i filoni fondamentali attraverso cui l’eccezionalismo italiano è stato pensato e collocato storicamente è facile richiamarsi a alcune parole-chiave dense di significato: ‘stato’, ‘chiesa’, ‘città/campagna’, ‘rinascimento’, ‘letteratura’, ‘intellettuali’, ‘fascismo’ ‘risorgimento’, ‘economia’, ‘famiglia’, ‘nord/sud’. Se ne potrebbero aggiungere altre, ma i problemi a cui esse rinviano bastano a delineare la trama essenziale del canone.

 

Se pensiamo, per cominciare, a una delle più̀ frequentemente lamentate lacunosità della storia italiana, la cosiddetta «assenza di Stato», affiora uno dei nodi profondi del paradigma di storia nazionale: la mancanza di unità politica in età moderna (o anche prima). Questo vuoto, configurato da sempre nel confronto con modelli di statualità assunti a priori, innanzitutto quello francese, richiama subito un altro tema decisivo, quello della presenza della Chiesa romana. Si tratta, com’è noto, di un’antica impostazione, che risale per lo più̀ al XIX secolo, e a una cultura risorgimentale che, rielaborando a sua volta antichi materiali intellettuali, fondò il problema della modernità italiana guardando soprattutto alla relazione fra politica e cattolicesimo romano, ovvero al rapporto fra Chiesa e società. Anche qui il dibattito presuppone paragoni spesso sconfortati, e si sovrappone con i discorsi sull’Italia sviluppatisi altrove, in altri paesi occidentali: il nesso fra Italia cattolica e modernità, cioè, è stato a lungo guardato in Europa (ma anche negli Stati Uniti) come un problema di rilevanza generale, data l’importanza universalmente assegnata alla tradizione culturale italiana.

 

Detto questo, la mancata unificazione nazionale è stata letta a lungo in modi molto diversi. V’era chi quel vizio originario imputava direttamente allo sviluppo dei comuni medievali e coloro che, all’opposto, vedevano nella «crisi della civiltà comunale», nel Cinquecento, l’origine della decadenza italiana. Ne risultava comunque una rappresentazione radicalmente difettiva della realtà italiana di età moderna che non poteva non replicare, insieme alla condanna implicita del pluralismo degli Stati «preunitari», il giudizio sulle tare morali che di quel deteriore pluralismo si immaginava costituissero il presupposto: il «conformismo italiano», fatto di individualismo, passività, indifferenza ai valori pubblici, ancora una volta proveniente, al di là delle apparenze, da «tutta l’esperienza sociale e morale del mondo comunale e signorile» (Giuseppe Galasso).

 

Imbricato con la questione dello Stato è anche il problema della città e del rapporto città-campagna. Uno dei lemmi costitutivi del vocabolario di tutte le storiografie europee ha assunto in Italia una specifica funzione identitaria, venendo declinato, quel binomio, a partire da alcuni assunti apparentemente evidenti: la continuità antico-moderno; la città come principio di ordinamento (o di territorializzazione) dell’universo non urbano e come suo baricentro economico; il carattere prevalentemente urbano-cittadino della tradizione politica. Lo spazio nazionale oggetto dell’azione regolativa (tardiva) dello Stato unitario appare in larga parte determinato dall’intreccio di quei fattori, sia pure con infinite variabili locali.

 

La centralità delle città si afferma anche nei processi culturali; in questo caso più facilmente riemerge allora, se non proprio il tema del primato italiano, almeno l’idea che esista un’eredità autoctona da valorizzare, a trazione essenzialmente urbana. Si tratta della tradizione che si struttura attorno alla questione del rapporto con l’antico, della sua reinvenzione umanistica e dei suoi effetti duraturi come Rinascimento. In effetti il rapporto con l’antico entro le mura delle città centro-settentrionali – e più̀ tardi tutta l’elaborazione del classicismo – non ha mai cessato di essere riconosciuto, almeno dalla fine del XVIII secolo, come fattore determinante della differenza italiana.

 

Non sorprende che il Rinascimento costituisca, accanto al fascismo, l’unico tema storiografico che ponga l’Italia del passato, dal Medioevo a oggi, in una posizione di vero rilievo nel dibattito internazionale. Di più: nell’immaginario globalizzato di oggi l’Italia che vale la pena di ricordare, ammirare e studiare è pur sempre quella identificata dalla letteratura e dalla grande arte del XV, XVI e XVII secolo; e poi, per traslato, da tutto il made in Italy che a quell’origine prestigiosa ha saputo richiamarsi, traducendo il Rinascimento in brand, in un gigantesco capitale culturale riutilizzabile e rigenerabile.

 

La tradizione letteraria umanistica, che si riproduce, sostanzialmente fedele a sé stessa, fino al XVIII secolo, fu oggetto però di un ripensamento radicale da parte della cultura nazionalistica che lentamente maturava nel corso di quello stesso secolo. Ne derivò un corto circuito dirompente, perché l’ideale umanistico di comunità di dotti ha un segno tendenzialmente cosmopolita, difficilmente compatibile con il principio di nazione. E’ proprio qui che il cuore dell’eccezionalismo italiano si scorge con maggiore chiarezza, e la sua perfetta coincidenza con l’idea di un primato fragile e perduto da lunghissimo tempo. La brusca svolta romantica, perfettamente in linea con l’affermazione del paradigma nazionale in tutta Europa, e con essa l’affermarsi del nuovo credo anticlassicista, destabilizza l’ordine culturale ereditato senza rinunciarvi davvero. Il successo della proposta di Francesco De Sanctis consiste proprio in questo, nel tentativo di «nazionalizzare», unificandola in una narrazione coerente, una lunga memoria segnata da valori (umanesimo e classicismo) assai lontani dal nuovo clima ideologico. Sulla sua scia l’idea, che una parte della critica gramsciana fece propria, di una letteratura senza popolo ha resistito a lungo, conoscendo anzi una rinnovata fortuna nel secondo dopoguerra, e alimentando tutta la ricca officina ideologica ed estetica del nuovo realismo.

 

La tradizione reinventata da De Sanctis consiste per lo più di una serie di autori, cioè di intellettuali, titanicamente alle prese con le sorti del paese, questi ultimi immaginati come declinanti fin dalla fine del Medioevo. All’ombra di tale tradizione, si andò così consolidando la convinzione che la storia italiana si riassume, per l’essenziale, nell’ azione generosa ma sterile (perché sostanzialmente perdente) di minoranze virtuose. Si tratta di un discorso già ben definito a cavallo fra Otto e Novecento, centrato sul protagonismo di pattuglie esigue di intellettuali che incarnano potenzialità trasformatrici inespresse e spesso frustrate. Si disegna così uno scenario interpretativo fisso, quasi un copione, focalizzato su compagini numericamente ristrette ma nobili sul piano valoriale ed etico, che si stagliano sullo sfondo di uno scenario deprimente, fatto di incuria civile e morale, e segnato dalle «occasioni mancate», ossia dalla cronica incapacità degli italiani di agganciare la modernità. Gruppi d’opposizione, dunque, titolari di istanze minoritarie nel corpo profondo della società e ineluttabilmente contrapposte a classi dirigenti viziose, incarnazione dei mali del paese. Inutile sottolineare come questa propensione a valorizzare le minoranze d’avanguardia abbia informato libri che hanno fondato interi filoni di ricerca storiografica, dalle ricerche sugli eretici cinquecenteschi di Delio Cantimori agli studi di Franco Venturi sugli illuministi confluite in Settecento riformatore.

 

Nel caso italiano insomma il senso comune eccezionalista ha imposto agli intellettuali la funzione non di interpreti dei processi della modernizzazione economico-sociale e politico-istituzionale del paese, ma di denunciatori dei ritardi e delle insufficienze di quegli stessi processi, della progettualità sconfitta, delle riforme inattuate e delle rivoluzioni mancate.

La formula dell’«ideologia dell’assenza» (Claudio Pogliano) risulta azzeccata: la tendenza, evidente già agli inizi del XX secolo (senza risalire più indietro, come sarebbe possibile, a Leopardi per esempio), a leggere la storia d’Italia come marcata da ciò che non è molto più che da ciò che è, dai vuoti più che dai pieni.

 

È quasi superfluo sottolineare come questa visione etico-politica negativa riemergerà in modo significativo all’indomani della caduta del fascismo: l’intonazione moralista, tipica della cultura di tipo azionista, aprirà infatti una nuova prospettiva sull’Italia come eccezione, quella incentrata sulla spiegazione del fascismo a partire dal suo profondo rapporto con la realtà̀ che l’aveva preceduto, vale a dire l’Italia della tradizione risorgimentale e dell’epoca liberale.

 

La visione crociana, si sa, tendeva a espungere il fascismo come un corpo estraneo dalla storia nazionale, una deviazione imprevista e un fattore di ritardo nell’evoluzione della società italiana verso più elevati livelli di progresso e libertà. Ad essa si sono contrapposte due letture alternative che hanno fatto del fascismo un punto di osservazione privilegiato, l’elemento rivelatore della peculiare natura del canone italiano: si tratta in primo luogo dell’idea liberal-radicale, di origine gobettiana, del fascismo come fattore di disvelamento dei vizi storici del paese, un paese schiacciato dal trasformismo e dal servilismo. Il fascismo, dunque, come esperienza che lascia affiorare le tare profonde di una società̀ conformista e autoritaria, dominata da una classe dirigente moderata, refrattaria alla modernità̀ democratica. La seconda visione, parallela alla prima, è quella di matrice social-comunista, che sottolinea invece la continuità̀ reazionaria nell’atteggiamento della borghesia, resistente prima all’allargamento del suffragio e alla partecipazione delle masse alla vita politica, pronta alla repressione del dissenso – dai moti dei fasci siciliani alle cannonate di Bava Beccaris –, e disposta poi a sacrificare lo Stato di diritto a favore di un regime dittatoriale che ne proteggesse gli interessi.

 

In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità, il nucleo profondo di tali tendenze sarebbe risultato ancora visibile, e con esse l’antica querelle sulle radici profonde del fascismo nei vizi antichi della nazione italiana. E’ proprio di questi anni una storiografia di successo che, insieme alla contestazione della tradizionale storia etico-politica e di una retorica celebrativa divenuta col tempo stantia, recupera parti significative del paradigma rielaborando, su basi metodologiche aggiornate, la continuità tra Risorgimento e fascismo: riafferma così qualcosa tradizionalmente rivendicato da parte dell’Italia d’opposizione, l’idea dello Stato nazionale come “manufatto incompiuto”, incapace di integrare le varie parti del paese, e in specie del Meridione, in un insieme organico.

 

L’altro terreno decisivo di incubazione dell’eccezionalismo è stato certamente quello dell’economia. Ricostruirne la storia ha significato a lungo discutere sulle insufficienze del processo unitario, inquadrate in un retroterra di lungo o lunghissimo periodo, segnato dal ristagno o dalla decadenza. È facile oggi notare come in questi discorsi economici la prospettiva unitaria proiettata all’indietro risulti, se possibile, ancora più incongrua di quella concentrata sui fenomeni politici, tanto differenziata risulta la mappa delle economie preindustriali in termini di capacità produttiva, di attitudini al consumo, e di modi di integrazione in reti di mercato multiformi, una mappa che con l’ordinata silhouette della penisola non ha alcuna attinenza sensata.

 

Accostando lo sguardo sull’economia a quelli relativi ad altri aspetti fondamentali della storia della penisola prima dell’Ottocento finisce con l’emergere una sorta di morale provvisoria. L’anacronismo dello sguardo che unifica la storia italiana non ha avuto sempre la stessa intensità: moderato quando riguarda la storia culturale, a patto di tenere sotto controllo l’ambiguo effetto di continuità della tradizione letteraria; forte, con risultati gravemente distorsivi, se tocca la storia politica e istituzionale; acutissimo, con risvolti persino paradossali, se si applica alle vicende economiche.

 

Naturalmente, se dalla politica e dall’economia si sposta sulla società lo sguardo eccezionalista trova facilmente appigli per ulteriori elaborazioni. Basti pensare alla famiglia, spesso identificata come la causa causans dei guasti della vita pubblica del paese, una sorta di dato di fondo esplicativo della tanto deprecata mancanza di solidarietà e di partecipazione civica. Quante volte è stata declinata la rappresentazione della famiglia italiana come trincea, ghetto egoista, impedimento a un compiuto approdo alla modernità? Oppure quella speculare di un’Italia spezzata, in cui la distanza tra Nord e Sud rimane incolmabile non solo per le congiunture politiche ed economiche, ma in ragione dei processi divergenti di strutturazione dei sistemi parentali?

 

Che la famiglia sia parte fondamentale di ciò che potremmo chiamare “il vizio italico” è un’idea coltivata per alcuni decenni da alcuni sociologi e antropologi anglosassoni. Che però si è nutrita di motivi e di suggestioni autoctoni, per dir così. Tutto il filone intellettuale concentrato sull’imperfetta modernizzazione del paese ha infatti a lungo utilizzato il topos di un indistinto familismo come decisivo capro espiatorio dei suoi mali, additando in particolare la famiglia meridionale come il fattore decisivo del ritardo storico delle regioni del Sud, un Mezzogiorno astorico immaginato come piò o meno immobile nei suoi tratti essenziali.

 

Mezzogiorno e dualismo Nord/sud, la visione della penisola come la giustapposizione di due mondi contrapposti: è indubbio che sia questo uno dei capitoli cruciali del ricco repertorio dell’Italia come eccezione. Stella polare per molto tempo del meridionalismo classico, durante la crisi politica della cosiddetta prima Repubblica, esso è divenuta anche qualcos’altro, il grimaldello su cui far leva per la costruzione della cosiddetta «questione settentrionale». Gli anni Novanta, cioè, quelli in cui è venuta montando la preoccupazione collettiva per la “disunione d’Italia” sono stati anche quelli in cui il Meridione, sorta di quintessenza dei mali del paese, è divenuto il luogo di concentrazione dei timori per il declino nazionale, l’ambiente di propagazione del contagio malefico, l’inferno (Giorgio Bocca).

 

Così, al tradizionale vittimismo meridionale, invocante l’intervento straordinario in ragione dei torti storici inflitti dall’unificazione al Mezzogiorno, ha fatto seguito, come una sorta di copione invertito o di spartito rovesciato, un vittimismo settentrionale di nuovo conio, l’idea di un Nord bloccato dalla «palla al piede» meridionale, e impossibilitato perciò a dispiegare le sue potenzialità virtuose, non solo economiche ma anche implicitamente morali.

 

Oggi questo momento, in una diversa stagione politica, sembra superato e l’ansia collettiva si rivolge di nuovo alle sorti generali del paese. Colpisce tuttavia il fatto che rimanga inarticolato un ragionamento su quanto simili siano state storicamente la narrazione sull’Italia intera (la sua cultura, il suo “carattere”) e quella sul Meridione del paese (la sua cultura, e anche qui, il suo “carattere”). Si può dire di più. Non appena si scrostano le parole, solo apparentemente dissimili, ci si accorge con chiarezza che si tratta di variazioni sul tema, che ci si appoggia sulla stessa scala valoriale, che si adopera la stessa tavolozza di colori. Ci si rende conto, in altre parole, che il “familismo” è, per il dibattito sulla specificità negativa del Meridione, più o meno ciò che il “particolarismo” rappresenta come singolarità negativa dell’Italia in generale. E ancora, che il “gattopardismo” è per il Sud del paese quel che il “trasformismo” è per l’Italia nel suo insieme. Questo perché tutte queste narrazioni appartengono a uno stesso registro discorsivo polarizzato, quello che definisce in un sistema sociale ciò che è giusto, bello e buono come opposto a ciò che è sbagliato, brutto e cattivo.

 

Tutte queste polarizzazioni si dispongono, come si vede, lungo uno stesso schema oppositivo, determinato dalla concezione dominante di cosa sia il progresso e cosa l’arretratezza, e inquadrano il Mezzogiorno (un Mezzogiorno monocromo astrattamente unificato) come emblema dell’incompiuta modernizzazione del paese. Si prenda, come ultimo esempio, il caso del «feudalesimo», espressione evocativa della persistenza di rapporti interpersonali e di potere, ambiguamente sospesi tra legalità e oscura informalità, di tipo pre-moderno, quando non anti-moderno: si tratta di una categoria chiamata a spiegare sia l’arretratezza italiana rispetto alla nascente modernità europea, borghese e industriale, sia la persistente incapacità del Mezzogiorno di adeguarsi agli standard civili della parte settentrionale del paese.

 

Risulta evidente, dopo che se ne sono definiti i contorni, che il paradigma dell’eccezionalismo italiano costituisce in realtà una sorta di costellazione fatta di astri di diversa natura e intensità, alcuni fissi, altri intermittenti. Ciò che forse si può affermare, alla fine, è che l’unico carattere relativamente eccezionale della storia d’Italia è costituito dalla continuità di una riflessione ancipite, di taglio inguaribilmente negativo o superbamente rivendicativo, sulle debolezze del paese e sui vizi che ne connoterebbero la natura, o all’opposto sulla sua speciale funzione di battistrada nei processi di civilizzazione; di una riflessione, in ogni modo, concentrata su una irregolarità. Prevalendo, da circa un secolo e mezzo, il segno negativo di tale irregolarità, «italiano» è diventato alla fine uno stigma, come si è visto, fatto oggetto di lamentazioni ripetute, che hanno assunto non di rado una sofferta intonazione autodistruttiva: il «dolore di essere italiani» (Giulio Savelli) comporta automaticamente l’identificazione con una serie di comportamenti deprecabili di cui ci si vergogna, con la conseguenza paradossale che, com’è stato osservato, «italiani sono sempre gli altri» (Sebastiano Vassalli).

 

Ci sono rimedi a questa condizione? È difficile azzardare risposte sensate. Di sicuro gioverebbe riflettere meglio di come si sia fatto finora sui paralleli. I diversi “romanzi” nazionali, in Europa, si assomigliano tutti, si sono venuti formando più o meno contemporaneamente distinguendosi per qualche tratto di specificità capace di rivelare l’identità di ciascuna variante. Così, l’idea che la vicenda nazionale risulti intellegibile solo nella messa in rilievo dei suoi caratteri, non solo peculiari ma proprio esclusivi, e spesso dolorosamente esclusivi, riguarda anche altri. Basti pensare al caso spagnolo e a quello tedesco: Leyenda negra e Sonderweg sono le insegne pubbliche di parabole nazionali pensate in negativo, connotate cioè anche esse come forme di eccezione, di deragliamento dai binari dell’avanzamento verso la modernità. All’opposto, per ragioni complesse che hanno tutte a che fare con la costruzione dei lessici ideologici del nazionalismo, a Francia, Inghilterra, e in misura minore Olanda, è stato conferito dalla storiografia e dal discorso pubblico i ruoli di modelli o di battistrada sulla strada della modernizzazione (istituzionale, economica, delle forme del costume collettivo).

 

In conclusione. Per capire come si esce dalla crisi del “canone nazionale”, vera per la storia d’Italia, ma non meno probante altrove, è assai probabile che occorra pensare la storia degli ultimi secoli su una scala diversa, e che forse a un rinnovamento duraturo occorrerebbe un più avanzato processo di costruzione di una «storia d’Europa». L’Europa intesa come quadro nel quale collocare il bilancio collettivo della tradizione di storia nazionale di cui c’è bisogno, insieme con i complessi processi di rifrazione fra i vari nazionalismi e fra i diversi, ma tutti simili, processi di «invenzione della tradizione» nazionale. Diventerebbe così più praticabile un punto di vista sul passato che non si limitasse a indagare, comparativamente, influssi culturali reciproci, prestiti istituzionali, condizionamenti politici fra aree e fra paesi, mescolanze e concorrenze fra fedi e credi, ma che guardasse in modo integrato alla nascita e alla diffusione di modelli economici e imprenditoriali, di forme di statualità e di disciplinamento, di urbanizzazione, di sistemi di appartenenza e di identificazione collettiva, e così via, cioè dei caratteri che sembrano potere connotare il continente come spazio storicamente intellegibile.

 

Forse non viviamo un momento favorevole a una simile impresa. I processi di ri-nazionalizzazione sembrano segnare il nostro presente. Sicché v’è da chiedersi quali effetti potrebbe produrre sull’indagine del passato comune europeo il ritorno a letture in chiave statual-nazionale o peggio, etnico-identitaria, condite magari da qualche apertura alla visione globale. Riattivare per davvero la lente del nazionalismo storiografico è, in realtà, molto difficile; è certamente alto tuttavia il rischio che rallenti molto la costruzione dell’unica dimensione che potrebbe ridare senso a una storia, e per noi a una storia d’Italia, sviluppata in chiave non eccezionalista ma critica, la dimensione europea.

 

[Immagine: Italia turrita e stellata, Palazzo Reale di Napoli].

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