di Massimo Raffaeli
La prima volta che il fotografo Danilo De Marco le telefonò al numero di Parigi si sentì rispondere da una donna dalla voce bassa e rauca che lo pregava di riprovare dopo un paio di mesi perché Madame non era in casa; trascorsi i due mesi, De Marco riprovò e sentì la stessa voce puntualmente ripetergli la stessa cosa. Fu allora che le disse chi era e il motivo della sua insistenza: al che, la voce bassa e rauca pare aggiungesse senza affatto scomporsi ‘Lei è fortunato, Madame è rientrata proprio ora’ e pare che di seguito accordasse l’agognato appuntamento. L’aneddoto della grande artista che si dissimula nella propria domestica somiglia molto a Gisèle Freund (Schoneberg-Berlino, 1908-Parigi 2000), una vera e propria leggenda della fotografia di cui è finalmente disponibile il libro di memorie, risalente al ’70, Il mondo e il mio obbiettivo (traduzione di Piera Oppezzo, Abscondita “Carte d’Artisti”, pp. 205, € 22.00). Allieva di Adorno e Norbert Elias alla Scuola di Francoforte, scappata a Parigi nella primavera del ’33 per sfuggire, lei ebrea, alle retate dei nazisti, del suo apprendistato di fotografa nonché di teorica i lettori italiani da tempo conoscono la tesi di laurea fortunosamente riemersa negli anni sessanta (Fotografia e società, Einaudi 1976, riproposto nella PBE nel 2007) la quale era stata ultimata tra la stesura della Piccola storia della fotografia (’31) e l’uscita dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, i due testi pionieristici di Walter Benjamin che l’esule Gisèle avrebbe presto reincontrato a Parigi , in rue de Richelieu, sotto la cupola a vetri della Biblioteca Nazionale.
E’ qui che, armata della sola Leica, sprovvista di passaporto come di un lavoro stabile, ha la ventura di essere adottata da Adrienne Monnier e Sylvia Beach, le due ninfe egerie di rue de l’Odéon (l’una titolare della “Maison des Amis des Livres”, l’altra sua dirimpettaia, e joyciana onoraria, alla “Shakespeare and Co.”) che infatti la introducono nell’ambiente degli artisti. A un clima politico che annuncia il Fronte Popolare, Gisèle risponde mantenendo sottotraccia i suoi interessi politico-sociali e obiettando, paradossalmente, che proprio la scelta del ritratto (cioè il genere borghese per antonomasia) può marcare una sua alterità. Fra il ’35 e il ’39 la futura fotografa di “Life” e della “Magnum”, tra Parigi e Londra, ne fornisce una prima e superba riprova. Se non può dirsi una sperimentalista, Gisèle non ha nemmeno il culto feticista del biancoenero o del luce/ombra pittografico. Non ama i libri di fotografie e dunque esprime il suo talento più nella gamma dei toni che nella fermezza dei timbri: ciò spiega l’utilizzo precocissimo del colore (a proposito di foto, si badi, che poi dovrà offrire ai committenti in biancoenero) e ciò spiega altrettanto la passione per le proiezioni pubbliche di diapositive, autentici meeting, negli spazi allestiti da Adrienne o da Sylvia, cui ben volentieri accorrono i modelli dei suoi stessi ritratti. Alcuni sono celeberrimi: intanto André Malraux al balcone, con i capelli al vento e un mozzicone di sigaretta che gli dà un’aria rabbuffata, arcigna, tenacemente militante; oppure Pasternak, Nizan, Bertolt Brecht, il vecchio patriarcale Barbusse, un René Crevel sull’orlo del suicidio, tutti quanti riuniti nel giugno ’35 al convegno antifascista dell’AEAR, da lei sorpresi in una luce livida (dirà che non poteva permettersi lampi al magnesio) che sa di generale smarrimento e di premonizione; poi un raro Jean-Paul Sartre datato 1939, reduce da La nausée e Le mur, con pipa e grisaglia come fosse un professore o un borghese azzimato; infine, per stare agli esempi canonici, una Virginia Woolf fissata a pochi mesi dal terribile congedo, chiusa nel gelo di un’onice preziosa e tuttavia spettrale: “Fragile, luminosa, – nota Gisèle – era l’incarnazione stessa della sua prosa. Aveva cinquantotto anni. […] Quel viso, come illuminato da una luce interiore, rifletteva una sensibilità da visionaria unita a una grande sincerità. Da tutta la persona di questa donna riservatissima emanava un’aura ammaliante”.
A parte, in ogni senso, sta l’incontro con James Joyce, tanto che il capitolo dell’autobiografia può sdoppiarsi in un album di grande formato e dal titolo Tre giorni con Joyce (prefazione di Philippe Sollers, Abscondita, “Mnemosyne”, pp. 93, € 28.00, e anche in questo caso la versione, nitidissima, si deve a Piera Oppezzo, poetessa torinese scomparsa settantacinquenne nel 2009, la cui atroce e complessa vicenda sembra essere purtroppo rimossa nonostante la sua ultima raccolta, Andare qui, del 2003, sia ancora nel catalogo di Manni). L’incontro con Joyce è il primo scoop, per così dire, di Gisèle e in quanto si sviluppa in una sequenza da fotoracconto esso evidenzia una vocazione per il reportage finora rimasta inespressa. Già malato e visibilmente invecchiato, ormai semicieco, Joyce è a Parigi per Finnegans Wake, ha bisogno di un lancio pubblicitario ma detesta essere fotografato. Per cui, i tre giorni che dedica a Gisèle sono quasi una replica in vitro dell’antica giornata dublinese del suo eroe Leopold Bloom: attorno all’epicentro di rue de l’Odéon, le stazioni del viaggio stavolta assomigliano alla passeggiata di un vecchio beniamino delle Muse la cui magra silhouette approdi inopinatamente alla tastiera di un pianoforte domestico. E’ il ritratto di un uomo ancora vivo e insieme quello di un individuo definitivamente arreso. Questa è anche la stimmung della maturità di Gisèle, come più avanti testimoniano (tra l’Argentina del suo esilio ulteriore, New York, il Messico, di nuovo Parigi dal ’54) centinaia di ritratti di anonimi, di uomini al lavoro, soli o nella folla, nelle oasi di pace o nei disastri della guerra, che siano minatori disoccupati, agenti di borsa, star conclamate, o si chiamino pure Evita Peròn.
Per questo la vecchia allieva di Adorno e di Elias a sua volta diviene maestra, fra gli altri, di Robert Capa e Gerda Taro: e a Capa, in particolare, non solo insegna a sviluppare le sue fotografie ma anche e soprattutto a cogliere nell’atto di scattarle tanto una possibilità quanto un necessario limite espressivo. Non a caso è con queste parole, così umili da sembrare deminutorie, che conclude Il mondo e il mio obbiettivo: “Per un esiguo numero di fotografi, e io sono tra quelli, l’immagine è ben più che un mezzo di informazione : attraverso la macchina fotografica essi esprimono se stessi. Non si chiede al fotografo di creare delle forme, ma di riprodurle. Nella gerarchia degli artisti, il fotografo si avvicina al traduttore , e da buon traduttore, deve lui stesso saper scrivere”. Anche il modo di rispondere a De Marco, quel suo esserci e non esserci, dissimulata nella voce di una cameriera, se pensato a tanta distanza di tempo somiglia a una dichiarazione di poetica detta per procura. Lo conferma, qui e ora, un maestro di De Marco che è un poeta del reportage e inevitabilmenteun fan di Gisèle Freund, vale a dire Mario Dondero, il quale tiene casa a Parigi, non dispone di una cameriera e risponde di persona al telefono. Richiesto di un parere sulla grande fotografa, afferma di non averla direttamente conosciuta ma soltanto, e purtroppo, sfiorata. Quanto alle opere di lei, Dondero ne deduce che “foto così eccellenti può farle solo un eccellente essere umano”: non si potrebbe dirlo meglio.
[Questo articolo è uscito su “Alias – il manifesto” di domenica 11 marzo].
[Immagine: Gisèle Freund, Simone de Beauvoir (1948)]
Fare il ritratto fotografico degli artisti o scrittori è come scriverne la vita, difficilissimo, senza cadere nell’agiografia o nell’aneddotica. La metafora della traduzione è davvero molto felice.
Bellissimo articolo. Dovreste parlare più spesso di fotografia, siete bravi.