di Anna Maria Carpi
[Pubblichiamo una pièce inedita di Anna Maria Carpi, già autrice di Un inquieto batter d’ali: vita di Heinrich von Kleist (Mondadori, 2005)]
Io voglio, io devo entrare, e fosse di traverso (H.v.K.)
Un tavolo, due sedie, e appesi a un attaccapanni un vestito femminile e un paio di pantaloni maschili. Dalla porta in fondo entra Ulrike, massiccia, fianchi larghi, riccioli brizzolati. Posa una borsa per terra e butta il mantello sull’attaccapanni, poi avanza stropicciandosi le mani.
ULRIKE: Fa un bel freddo oggi. Ma ho ricevuto posta. Credo che la mia idea di aprire l’educandato femminile vada in porto. Lo so che tu non sei contento. Tu volevi che venissi a Berlino. (Gira lo sguardo intorno:) Ma guarda dove sei, che fai in quell’angolo? Fai il fantasma?
KLEIST (qualcosa del suo aspetto deve suggerire fino all’ultimo che è un fantasma): Con tutte le mie conoscenze berlinesi avrei potuto farti avere un posto di direttrice nel nuovo educandato intitolato alla regina Luisa. Ti avrebbero dato anche un alloggio più che degno, non occorreva che tu venissi a stare con me nella Mauerstrasse. Intanto però ti avrei avuta vicina. Oh, tu non sai che cosa avrebbe significato per me. Da ultimo intorno a me non c’era proprio più nessuno.
ULRIKE: Già, nemmeno la tua cara cugina Marie. Ma io le mie amicizie le ho qui a Francoforte, e i nostri parenti sono in Pomerania. Ah, lo so che a te i parenti non interessano. Ti annunciano che a tuo fratello è nata Tusnelda e che le danno il nome di una tua eroina, e tu niente. Ti scriviamo, lo scorso novembre, che tua sorella Friederike è morta di parto, e tu nemmeno una riga. Dov’eri? Cosa pretendi?
KLEIST: Io voglio te. Ma come sei cambiata, Rickchen. Non sei più quella che non voleva né mariti né figli, che diceva “potessi solo viaggiare”. Ti ricordi il mio augurio per il capodanno del 1800? “Tu anfibia che vivi in due elementi, non esitare oltre, scegliti infine un sesso sicuro”.
ULRIKE: “Insieme nuotare e volare non puoi, perciò lascia l’acqua, prova con l’aria, scuoti le ali e vola”. Ben detto. E poi mi è toccato anche di viaggiare da sola, e quale donna viaggia da sola? Tu a Basilea, quando si è trattato di correre dietro al tuo amico Lose, il pittore, non ci hai pensato due volte a piantarmi e lasciarmi tornare da sola in patria. E quella volta che avevi scritto a nostro cognato: ho speso tutto quello che avevo, giaccio ammalato a Berna? E io piombo a Berna, nell’inferno della guerra e dell’occupazione, per…trovarti vivo e vegeto e anche tutto contento perché avevi finito la tua prima tragedia.
KLEIST (ridendo:) Ti ricordi di quando sul Reno in tempesta, mentre stavamo naufragando e tutti gridavano, tu a muso duro intimavi smettetela, altrimenti finiamo sui giornali? Tu sei un eroe femmina. Ma lo so, le altre due volte che siamo vissuti insieme è andata male. Vedi, noi siamo come due corpi e un’anima sola, sempre in conflitto se siamo vicini, poi però ci pesa di separarci. Ma è perché tu sei quella che sei che ti amo.
ULRIKE: Com’è buio qui. Prendi il lume, mettici un po’ d’olio. Ce n’è ancora, o l’hai consumato tutto stanotte stando su a scrivere?
KLEIST: Io non scrivo più.
ULRIKE: Fosse vero. A Parigi non si poteva rivolgerti la parola – sto scrivendo, dicevi – e stessa musica lassù a Königsberg: capisco, là eri sepolto negli uffici delle Finanze e solo la sera e la notte avevi tempo per scrivere. E mai che in quei mesi tu mi abbia accompagnata da qualche parte o portato un po’ in mezzo alla gente.
KLEIST: Non è vero. Quando sei venuta a Königsberg ero convinto che la presenza di te sorella avrebbe facilitato le mie relazioni sociali.
ULRIKE: E poi? Ho visto subito che non avevi affatto bisogno di me, dopotutto sei bravissimo a crearti delle amicizie, fin troppe. Esattamente come a Parigi, Parigi ho dovuto vedermela da sola. A te interessava solo il Louvre e a me, lo sai, i musei mi annoiano. Le feste popolari per l’anniversario della Bastiglia ti facevano ribrezzo: odiavi le masse, se vedesse Voltaire, ripetevi, se vedesse Rousseau cos’hanno fatto i francesi dei loro ideali rivoluzionari! Invece era magnifico: fuochi artificiali, alberi di cuccagna, giocolieri, mongolfiere, danze dappertutto.
KLEIST: E tu che uscivi di casa in vesti maschili. Già a Lipsia, all’università, ti eri travestita da uomo per poter venire alle lezioni di filosofia. In fondo è stupido che le donne non abbiano accesso all’università.
ULRIKE: E’ la vostra misoginia, ma poco male, il mio interesse per la fa filosofia era passeggero.
KLEIST: Il bello è che a Lipsia nessuno si accorse che eri una donna, tranne un cieco che ti si rivolse con Madame e tu non sapevi cosa dire. Lo sai che a Parigi ad andare in pantaloni sono solo le prostitute? Ma che importa? Il peggio era quando mi tormentavi perché non bevessi. A ogni rientro andavi a vedere quante bottiglie ne avevo bevute durante la tua assenza. Eri convinta che la mia malinconia venisse dalla troppa birra. Quando l’ho raccontato al mio amico Pfuel è morto dal ridere. Ulrickchen! Ma lo so, i famigliari sono sempre gli ultimi a darci credito. Sostanzialmente ci disprezzano, proprio perché ci conoscono da sempre e noi siamo lì a portata di mano. Io lo chiamo il giusto disprezzo dei parenti.
ULRIKE: Sono anche quelli che si fanno in quattro per salvarti.
KLEIST: Sì, ma conosco le erinni del vostro amore! Per amarti tu devi essere quello che vogliono loro.
ULRIKE: Non mi pare proprio. Chi se non io è corso a Berlino dal generale Clark per farti liberare dalla prigionia in Francia dopo quella tua pazza andata a Boulogne? Con me da Clark, a perorare c’erano anche una madre e una sorella degli altri tuoi degni compagni di sventura, due brave donne, ma così spaventate che non servivano a niente.
KLEIST: Le donne sono come il sole.
ULRIKE: Però farsi arrestare come spie, in quel momento terribile, coi francesi a Berlino, i prussiani disfatti e il re fuggito a Tilsit, mentre non sei…mentre non si è che…lasciami dire…(pestando un pugno sul tavolo:) che dei nullafacenti in transito, incerti sul proprio destino!
KLEIST: Sulla tua spalla non si può riposare.
ULRIKE: Non avevi la spalla di tua cugina Marie?
KLEIST: Lo so, i miei meriti presso di te non contano. Me l’hai detto in faccia alla mia ultima visita qui. Non mi far ricordare. Non è la rovina del mio giornale, non è il cancelliere Hardenberg, il colpo di grazia me l’hai dato tu, tu, a quel pranzo di un mese fa con nostra sorella Auguste e con quella vecchia sconosciuta. Se prima esitavo ancora, è stato dopo quell’ultimo incontro che ho deciso di farla finita.
ULRIKE: Mi avevi raccontato che il re ti faceva rientrare come suo aiutante nell’esercito e che avevi buone speranze che rappresentassero un tuo lavoro a Vienna. Ma io la conosco questa canzone!
KLEIST: No, tu non sei una donna.
ULRIKE: Alla tua povera fidanzata una volta hai scritto che nessuna donna avrebbe mai potuto essere la tua confidente, e lei venne in lacrime da me. Cosa vuoi, cosa vuoi?
KLEIST: Voglio il mio simile, voglio l’anfibia che solo tu sei. Ti ricordi, quando eravamo ragazzi, io sedici tu diciotto? Ero già stato designato caporale dei fanteria al reggimento 11 B di Potsdam ma, essendo giusto finito un turno di esercitazioni, mi lasciarono a casa ancora per mesi. Ogni tanto, come già nell’infanzia, tu entravi da me, a vedere cosa facevo, a scambiare due parole. Eri la sola in famiglia che lo facesse. Mi trovavi che suonavo il clarinetto o che leggevo: vedi, ti dicevo, a me fra tutti i libri piacciono soltanto quelli che mi cambiano l’umore. Tu non capivi: umore? quale? Andiamo, dicevo io, avrai anche tu un umore che varia. Che ne so, dicevi tu, in casa ho sempre tante cose da sbrigare, cosa vuoi che legga?! Una volta ti ho letto una mia poesia. Era la mia prima, era sulla Pace perpetua. Rickchen, ho premesso, guarda che sono dei versi. Tu l’hai ascoltata distrattamente, poi hai accennato col mento all’abito che indossavi: me l’ha fatto cucire tua madre, hai brontolato, lei non capisce che a me ogni abito sta male. Lei vuole che ti sposi, ho riso io e ho fatto il verso a quella che per te era la matrigna: “Ulrike, non faceva che ripeterti, a diciannove anni al massimo tante ragazze sono già sposate, alcune già madri!” Oh, dico io, qui non si contentano di aver sposato la nostra Minette a un mediocre, a loro, Ulrickchen, va bene tutto, sono dei filistei: purché ordine sia. Tu hai scosso la testa: allora, Heinrich, una volta o l’altra mi vestirò da uomo. Io sono balzato in piedi sulla sedia: perché non proviamo subito? Sta’ fermo, fai tu, e con che cosa? E io: io mi spoglio e tu ti metti la mia roba. Tu ti sei spaventata: questo mai, potrebbe entrare qualcuno. E chi? e mi sono sfilato il gilet. Rivestiti immediatamente! mi hai intimato. Eri seduta sul letto e ti sei tirata i lembi della sottana sulle ginocchia. Noi due…hai detto, non siamo comunque molto belli, siamo bassi e un po’ troppo robusti per la nostra statura. Io ho fatto per stringerti a me, ma tu mi hai respinto: cosa sono queste smancerie. Hai fatto sempre così a ogni mio approccio.
ULRIKE (rabbonita:) Anche nella tua Famiglia Schroffenstein, se non sbaglio, i due giovani…se ben ricordo si scambiano i vestiti.
KLEIST:. Sì, per salvarsi. Per cosa credi che abbia scritto quella tragedia?
ULRIKE: E come va a finire? Muoiono, se non sbaglio.
KLEIST: Vengono uccisi dai loro stessi padri. Ulrike, è la famiglia che uccide. Eppure è l’oggetto del più smodato amore, per noi anfibi.
ULRIKE (dopo una pausa:) Ma tu hai mai voluto avere dei figli? Io mi compenserò con l’educandato. Facevi sul serio quando volevi sposare la von Zenge e andare con lei in Svizzera a fare il contadino? Maledetto Rousseau col suo la natura la natura! Tu ti eri già informato su quanto poteva costare un piccolo podere, ma la poverina era terrorizzata e si è rifiutata categoricamente di seguirti. Per te era chiaro, voleva dire che non ti amava, e l’hai lasciata. Solo dopo io ho capito che la Svizzera era tutta una messinscena per liberarti di lei e per dire al mondo: non mi dai la gloria che mi spetta, bene, e io me ne vado in solitudine. E anche quando studiando Kant avevi imparato da lui che la verità è inconoscibile! L’hai preso a pretesto per abbandonare gli studi. Voglio andare in viaggio, dicevi, solo questo mi consolerà. Tu sei vissuto di pretesti.
KLEIST: Ma sì, pugnalami. (Esce dalla porta in fondo)
ULRIKE (dopo una pausa in cui ha guardato assorta davanti a sé): Ohé, dove sei, dove sei andato? Perché non rispondi? (Sul tavolo ha scorto una lettera, la prende e se la gira fra le mani. Ad alta voce, girata verso la porta, con la lettera in mano:) Annette, Annette, quando è arrivata questa lettera? O dio, è la sua calligrafia. (Apre la busta:) Locanda Stimming, strada di Potsdam. (Legge: ) Scritto la mattina della mia morte. “Non posso morire senza essermi conciliato con tutto il mondo e perciò anche con te, carissima Ulrike. Permettimi di ritirare le cose dure che ho scritto su di te a Marie. Davvero tu hai fatto per me, per salvarmi, tutto quello che era nelle forze non dico di una sorella ma di un essere umano: la verità è che per me sulla terra non c’era soccorso. Il cielo possa concederti una morte che abbia anche solo metà della gioia e dell’inesprimibile serenità della mia. Questo è l’augurio più caldo che io ti possa fare”. (La lettera in mano, il volto sul tavolo, singhiozzando:) Heinrich, Heinrich, mio Heinrich!
II
Alla parete un’insegna con l’aquila bicipite e quella massonica col compasso. Sotto l’insegna un tavolino stile barocco, al quale siede Hardenberg, bel vecchio coi capelli bianchi, trecce d’oro sulla giubba. Sta esaminando delle pratiche.
HARDENBERG (leggendo un documento:) “Sua Eccellenza, Onoratissimo Cancelliere, Esimio signor Barone, a segno della più intima venerazione ho l’onore di porgerle in piena reverenza questa mia opera appena uscita. Avrei raggiunto la meta da me più agognata se mai fossi in condizione di allietare con essa un’ora del prezioso riposo di Sua eccellenza e se mi toccasse in sorte il plauso di un uomo che, accanto all’arte di governare, si è dimostrato uno dei più acuti conoscitori dell’arte teatrale. Lei forse sa che Sua maestà il re, come mi annuncia in un suo degnissimo scritto testé pervenutomi, ha accondisceso di assumermi nell’esercito. Ora per me, nel considerevole disordine in cui si è trovata la mia cassa a causa della fine del mio giornale, il procurami un equipaggiamento è estremamente difficile. Oso perciò, confidando nel patriottismo manifestato da Lei in varie occasioni, di rivolgermi a Lei per un anticipo di 20 louis d’or, di cui s’intende che rimango personalmente debitore. Se Lei accondiscenderà a questa supplica, darà al mio cuore la benefica tranquillità che il petto di Sua Eccellenza non è più pieno di rancore nei miei riguardi”.
KLEIST (a gran voce:) Sua Eccellenza von Hardenberg!
HARDENBERG (sobbalzando): Chi è? Dov’è Raumer?
KLEIST: Il suo illustre segretario? Non lo vedo. Meglio così.
HARDENBERG: Von Kleist! Che ci fa qui? Com’è entrato? Non sarà qui per insistere ancora…
KLEIST: Per un risarcimento? No, non mi serve più. Lei mi ha condannato a morte condannando il mio giornale. Nessuno aveva avuto un’idea come la mia, da noi in Prussia non si era mai visto un quotidiano con le notizie locali, e meno che mai con la cronaca dei delitti. Questa è stata la mia incomparabile trovata. Si ricorda le code di acquirenti alla Gendarmeria?
HARDENBERG: Già. Si è dovuto accertare che la gente spasima per i crimini.
KLEIST: Avevo avuto la fortuna di ottenere da voi l’esclusiva per i rapporti di polizia, e tutte le mattine andavo alla polizia a prendere le notizie fresche, poi correvo a casa a scrivere e la sera all’uscita del giornale la ressa era tale che per prevenire disordini avevate dovuto mandare le guardie. Non era una meraviglia che tanta gente volesse leggere, informarsi?
HARDENBERG: La sua trovata ci aveva offerto il destro per presentare ai cittadini tutto quello che fa la polizia per garantire la loro sicurezza.
KLEIST: Ma per me i crimini erano solo un’esca…per far poi passare anche cose dilettevoli, per esempio degli aneddoti – anche quelli piacciono – ma soprattutto certe cose serie che a me e anche a voi stavano a cuore.
HARDENBERG: Sì, ma purtroppo sui rapporti di polizia hanno cominciato quasi subito a piovere le proteste.
KLEIST: La protesta del consigliere segreto Pauli perché facevo il suo nome nel rapporto su una zuffa di cani nel suo cortile?
HARDENBERG: Sì, però perché in uno degli aneddoti con cui adornava il suo giornale ci doveva proprio mettere un soldato del principe Lichnowsky?
KLEIST: Quel soldato che davanti al plotone d’esecuzione chiede che gli sparino – pardon – nel didietro. (Ride:) Non è splendido? Voleva, disse, che il suo cadavere presentasse un buco solo…
HARDENBERG: Ma il principe Lichnowsky, che non è l’ultimo arrivato, viene a lamentarsi da noi! (S’infuria:) E noi, e io ho bel altro da fare!
KLEIST: Lei non doveva tagliarmi i rapporti di polizia come ha poi fatto ufficiosamente, sott’acqua, per non avere grane: le vendite sono calate vertiginosamente. E tuttavia mi lasciava ancora scrivere di teatro, delle messinscene del Teatro della Gendarmeria diretto dal Iffland, e il teatro è ben importante. Fino a quello scandalo di fine novembre! Fischi e buh buh a scena aperta a non so più che commedia messa in scena dal grande Iffland. Hanno pensato tutti che a ispirare la gazzarra fossi stato io, il mio giornale, il mio odio per Iffland. Vero niente. Risultato: lei ha vietato al mio giornale anche di parlare di teatro.
HARDENBERG: Per favore taccia.
KLEIST: Iffland è suo compagno di loggia.
HARDENBERG: Eccellente autore, eccellente sovrintendente. Tutti sanno che lei si era meschinamente offeso perché lui non le aveva accettato un lavoro. Capirai! se lui dovesse accettare tutti…
KLEIST (gridando:) Io non sono tutti, io non sono tutti.
HARDENBERG: Ma lei ha poi avuto l’ardire di scrivere a Iffland insinuando che…
KLEIST: Che se la protagonista del mio lavoro respinto fosse stata invece che una fanciulla un fanciullo, lui l’avrebbe accettato. Scusi, a Berlino è cosa nota che lui…
HARDENBERG: Ma lei alla sua risposta a Iffland ha fatto fare il giro della città. Disgustoso. Così non le è rimasto altro che parlare di politica. Solo che di parlare di politica avevano il privilegio regio solo i suoi due giornali rivali, i due bisettimanali. Allora lei ha cercato di mettersi al riparo. E’ venuto da me a sottopormi per l’approvazione una nuova dicitura: “Per grazia di Sua Eccellenza il cancelliere von Hardenberg ecc. ecc. questo giornale conterrà prossimamente i comunicati ufficiali sugli eventi riguardanti il bene pubblico sull’intero territorio della Monarchia”. Io le consiglio un’altra formulazione, più modesta, e lei cosa risponde? Risponde: devo trovarmi un editore fuori della Prussia, devo raccontare all’estero la vicenda di tutte queste censure al mio giornale? Ha già dei contatti con l’estero? chiedo io. E lei: no, Sua Eccellenza, nessuno più di me tiene alla patria.
KLEIST: Lei sapeva benissimo che sulle riforme del suo governo, tasse sulle proprietà dei nobili, abolizione della servitù della gleba, liberalizzazione dei commerci, io ero sempre e con tutta l’anima dalla sua parte.
HARDENBERG: Certo, lei è un seguace del liberalismo, di Adam Smith. La Prussia è in gran ritardo ma il progresso va sicuramente in quella direzione. Bene: i miei editti escono il 27 ottobre e lei, lei (con improvvisa furia:) perché il 16 novembre pubblica lo sciagurato scritto sul Credito nazionale del suo caro amico Müller che piuttosto che veder cambiare qualcosa preferiva vedere la rovina: per amor del cielo, non toccate, scriveva, i più antichi ordini dello Stato, non toccate i sacri beni della nobiltà. Ma Müller non perde mai un colpo: non passa qualche giorno che le fa mettere sul giornale un articolo in lode del mio operato. Il voltagabbana! Cosa credevate, che io ci cascassi?
KLEIST: Io avevo parlato di “causa nazionale”, ma aggiungevo chiaro e tondo “dando spazio e tutte le possibili opinioni”. Si dovrà pure addivenire al formarsi di un’opinione pubblica. Essere pubblico, diceva Kant nella Pace perpetua, è la formula trascendentale del diritto, è il suo elemento repubblicano.
HARDENBERG: (con una risata:) L’unico risultato è stato che le opinioni del suo caro amico hanno seminato dubbi, incertezze sui miei decreti, mentre in un momento così difficile la gente aveva solo bisogno di certezze. Non siamo in Francia, e quand’anche…quanti bavagli non ha messo Napoleone alla stampa! Von Kleist, il suo candore è terribile. Ma già, è un poeta!
KLEIST: Perché solo il due bisettimanali, mediocri com’erano, avevano il privilegio regio di parlare di politica? Non si sarebbe potuto estenderlo anche al mio quotidiano? Lei invece che fa? M’impone di pubblicare soltanto notizie già pubblicate da loro. Questa è stata per me la vera catastrofe. Chi faceva più la coda per leggere notizie già note?
HARDENBERG: Se l’è voluta lei. La riprova della sua imprudenza: il 3 novembre lei dà notizia della stangata presa dai francesi in Portogallo. Coi francesi che ci controllano, si può essere più impolitici di così?
KLEIST: Era la verità. E poi lei si lamenta che il mio giornale era solo un povero feuilleton? Lo era diventato: niente politica, niente teatro, attualità di seconda mano. Sono rimasto solo a redigerlo: meglio così, perché i collaboratori mi facevano impazzire. Ho sopperito con gli aneddoti, coi miei scritti sulle marionette, sull’arte, sulla pittura, col mio progetto satirico di una “pedagogia alla rovescia”.
HARDENBERG: Buona anche quella! Erano lezioni di crapula, mendacio e puttaneria solo perché secondo lei è dai cattivi esempi che per spirito di contraddizione i giovani si danno alla virtù.
KLEIST: Non ha capito che era tutta un’ironia, da leggere fra le righe? Volevo solo affermare che non serve a niente la virtù se si esercita per pura imitazione. Se lei, come mi aveva promesso in quell’udienza di dicembre, mi avesse fornito le comunicazioni ufficiali del governo, sarei stato salvo. Le avevo pure assicurato che sarei stato ligio ai suoi ordini come a quelli di un buon padre. (Commosso:) Un buon padre, che altro ho sognato io allora e sempre? E della promessa faceva parte un piccolo sostegno pecuniario. Mi sarebbe servito a non morire di fame.
HARDENBERG: Sostegno? Perché? A Berlino gli scrittori hanno tutti da vivere. Tranne lei.
KLEIST: Però nelle disposizioni mandate agli Interni lei aveva inserito una clausola ambigua, fornire al von Kleist comunicazioni ufficiali “nella misura in cui non diano spazio a preoccupazione”.
HARDENBERG (infuriandosi:) Come…
KLEIST (ridendo forte:) Come lo so? Me l’ha detto il suo segretario Raumer. Era il vostro squisito alibi per non passarmi un bel niente. Ma, caro Kleist, mi diceva Raumer ogni volta per placarmi, si vede che finora non abbiamo trovato nulla di confacente. E’ per questo che poi gli ho ingiunto che mettesse per iscritto quanto ci eravamo detti a quell’udienza, e poco c’è mancato che non lo sfidassi a duello. Per fortuna se n’è andato, ha lasciato Sua Eccellenza per andare a fare il professore in Slesia.
HARDENBERG: La sua arroganza non ha limiti. Non le scrivevo, mi pare il 26 febbraio, in termini perentori che non ricordavo affatto di averle mai fatto delle promesse e che il suo giornale era di così scarso valore che non aveva diritto a nessun pubblico sostegno o al titolo di organo semiufficiale? E che le buone intenzioni che io nutrivo nei suoi riguardi non si erano potute concretare.
KLEIST: In febbraio il secondo editore del mio giornale…
HARDENBERG: Anche questo, se lei non chiudeva, rischiava a causa sua la bancarotta! E il suo Müller vi ha lasciati nelle peste: non avendo ottenuto un posto di professore all’Università di Berlino, si è procurato un posto alla corte di Vienna.
KLEIST: Beato lui. Io avevo l’editore Kuhn che mi tempestava per un risarcimento del passivo: 1100 talleri. Ma io dove li avevo?
HARDENBERG: Mi dicevano che anche il suo abbigliamento lasciava ormai molto a desiderare, e di questo avevo io stesso dispiacere.
KLEIST: E’ allora che io vi ho chiesto di versarli voi a Kuhn quei 1100 talleri. Io da mesi non avevo nemmeno più il piccolo vitalizio della regina Luisa.
HARDENBERG: Questa era l’altra sua faccenda, anche più irritante. Un altro suo diritto acquisito, eh? Ma noi siamo gente retta e tutti ci stanno a cuore fino all’ultimo cittadino. Come sa, io ho ordinato un’accurata ricerca negli atti: la nostra beata regina è morta nel giugno 1810 e prima di questa data la sua graziosa elargizione a lei non risultava da nessuna parte. 300 talleri l’anno, nemmeno molto.
KLEIST: Provenivano dalla cassa personale della defunta.
HARDENBERG: Fantasia di poeta, se vogliamo essere indulgenti, un indegno imbroglio a essere realisti.
KLEIST: Né l’uno né l’altro: a questo titolo me li passava la mia nobile cugina Marie von Kleist, dama e amica della regina. Mi crede?
HARDENBERG: Non so. Possibile che non le sia mai passato per la mente che sua cugina glieli versasse generosamente di tasca propria e per pura delicatezza ci mettesse in mezzo la regina?
KLEIST: Non è possibile.
HARDENBERG: Strano uomo è lei. Aggredisce come una belva, e poi è di un candore fanciullesco. Lei si salva ancora, come si era salvato dopo la sua folle andata a piedi da Parigi a Boulogne, solo perché nel governo la conoscono, la conosce anche il re, anche per via del suo glorioso antenato Ewald von Kleist. E quando mai ha incontrato la regina?
KLEIST: Ho scritto dei sonetti in suo onore, e uno è stato letto in pubblico e l’ha fatta piangere. (Con entusiasmo:) Le donne sono come il sole che riscalda il mondo.
HARDENBERG: Uhm. Lasciamo stare. La regina è stata anche un’abile politica. Ma lei si è anche permesso di mandare la disgraziata cronistoria del suo giornale, naturalmente vista da lei, al principe ereditario Willhelm.
KLEIST: E di mandare alla principessa consorte, tramite mia cugina, il mio ultimo lavoro teatrale, il Principe di Homburg,
HARDENBERG: E le hanno risposto?
KLEIST: No. La principessa era prossima al parto.
HARDENBERG (irato:) Com’è benevolo. Gliel’avranno pur riferito come il lavoro è stato accolto. In questi nostri disperati anni di disordini, insubordinazioni e diserzioni, lei ci viene fuori con un militare, un generale che non rispetta gli ordini, che attacca battaglia di testa sua.
KLEIST: Ma che porta i suoi alla vittoria!
HARDENBERG (ride:) E per giunta è un sonnambulo, mi dicono e, peggio che mai, uno che piange di paura davanti alla morte.
KLEIST: Ma il suo sovrano, che sa conciliare lo stato coi sentimenti umani, lo assolve.
HARDENBERG: Roba da pazzi.
KLEIST: Io sono pazzo. La pazzia è il massimo piacere della vita. Ma il punto è che il suo Iffland non rappresenta nemmeno più Goethe: troppo difficile, a meno di buttarlo in comico, mettendo delle donne nei ruoli degli uomini e viceversa. E’ anche colpa del nostro re che, come si sa, vuol vedere solo farse e cose leggere. Ma certo! Il teatro è come un fornaio, la prova che il suo pane è buono ce l’ha solo dalle vendite e gli animi sono futili: riempi la scena di arlecchini, fanciulle, saltimbanchi, cavalieri spagnoli e si riempiono palchi e panche di platea. La gente è futile. Ma Iffland non ammette voci critiche e soprattutto neanche un briciolo di libera concorrenza! E’ suo compagno di loggia, no?
HARDENBERG: Allora era lei a firmarsi Gr.v.S. sul numero del giornale del 7 novembre!
KLEIST (ride:) Il sedicente monarchico bacucco che scriveva al mio giornale da Dresda? Sì, ero io.
In lontananza si sentono battere le ore.
HARDENBERG: Lei è un uomo di tutti i ruoli. E’ seguace di Adam Smith e frequenta quel covo di conservatori del Convivio cristiano-tedesco, da cui sono esclusi le donne e gli ebrei, anche se battezzati.
KLEIST: Il Convivio è chiamato da loro stessi ironicamente la Società delle forchette. E io ci vado perché i pranzi da loro non sono cari e io non ho un soldo. Ma io amo gli ebrei. Dieci anni fa, quando sono approdato qui da Francoforte, erano i berlinesi che preferivo. Erano i più colti, i più illuminati. Magari un po’ spocchiosi, se vuole, ma era un ebreo quello che mi aveva generosamente aperto il suo gabinetto di strumenti per lo studio della fisica.
HARDENBERG: Lei dopo la fine del suo giornale mi ha scritto di nuovo, di trovarle un posto. Io che – nota bene – alle lettere rispondo, per scrupolo le ho segnalato che ce n’era uno, di correttore di bozze, nel notiziario della Kurmark. Ma lei, come sento dire, sta scrivendo un romanzo.
KLEIST: Ho sempre disprezzato i romanzi ma sono i soli che rendano. Se intanto il re mi avesse concesso l’assegno d’aspettativa che avevo chiesto.
HARDENBERG (tagliente:) Lo sa bene che i debiti di guerra con Napoleone ci dissanguano.
KLEIST (ridendo:) Ma la nobiltà piange che non vuole essere tassata. Non era bella sul mio giornale quella mia finta lettera di protesta del nobile pieno di servi, mute di cani e carrozze?
HARDENBERG: Adesso ricordo: lei mesi fa mi ha mandato in omaggio una commedia. Non è quella che hanno dato a Weimar?
KLEIST: Sì, per servirla, la mia Brocca rotta. Un clamoroso fiasco al teatro di Weimar.
HARDENBERG: E questa volta il sovrintendente era Goethe.
KLEIST: E otto anni per riuscire a pubblicarla! Ma io rido volentieri. Si ride da uno stato più alto del piangere. Il riso, diceva Kant, è un affetto che viene dall’improvvisa trasformazione di una forte attesa in un nulla, è la libertà dalle passioni, cancella il destino, accetta il caso. La commedia sta al di sopra della tragedia, forse è il genere dell’avvenire. La commedia è limpida, lucida, tranquilla.
HARDENBERG: Quello che lei non è mai. Lei, discendente di militari, sin da principio ha rotto con la propria classe, sputato sui militari…
KLEIST: A militare ho speso sette anni della mia gioventù, i sette anni più stupidi della mia vita.
HARDENBERG: E ci ha sputato sopra. Poi ha sputato anche sui burocrati, perché voleva darsi tutto alla poesia, e ora…ora perché è alla fame, fa domanda al re di rientrare nell’esercito. Il gabinetto regio le risponde: d’accordo, però la guerra non ci sarà, e lei non fa neanche lontanamente l’ipotesi che sia solo un modo cortese per dirle di no, e scrive subito a me di corrisponderle una somma per procurarsi l’equipaggiamento di ufficiale.
KLEIST (grida:) Non era l’esercito che volevo, volevo la guerra, volevo il campo di battaglia. Per morire combattendo. Per morire in altro modo che questo.(Esce)
Pausa. Si abbassa la luce.
HARDENBERG (balzando in piedi): Cos’è, dov’è andato questo che mi ha parlato fin qui con quell’arroganza inaudita? Uno scherzo del mio orecchio? Sono impazzito anch’io? Sono tempi allucinanti. Com’è che sotto questa sua tirata scritta c’è annotato di mio pugno: “22 novembre. Messo agli atti, perché lo scrivente non è più” ? Ma già: si è sparato il 21 sul Wannsee.
III
Luce di tardo pomeriggio autunnale. In mezzo un lago, sullo sfondo una città di oggi, skyline con grattacieli. A ridosso della città una strada asfaltata, dove sfrecciano luci di auto.
HEINRICH (gridando:) O Ernst, Ernst von Pfuel, amico mio, dove sei? Vieni a me. Da quanto tempo siamo separati? Tra poco anche il mio ultimo barlume di coscienza si spegnerà, e tu non saprai…Mi restano da dirti tante cose che non so nemmeno di dove cominciare. Oh, vieni, vieni. (Lunga pausa. Dal fondo emerge una figura slanciata in divisa da ufficiale. Poi svanisce ). Lo so, lo so, è vano chiamarti, chissà dove sei. (La figura riappare e si ferma davanti a lui). Sei solo un’ allucinazione.
ERNST: Heinrich!! E tu dove sei che non ti vedo?
HEINRICH: La tua voce, la tua voce! Allora…allora sei tu…Guarda, sono qui, in terra, nella conca. Sono i miei utltimi momenti. Avranno sentito gli spari, dalla locanda sono trecento metri, fra poco saranno tutti qui. Ma prima io voglio parlare con te. Credi nell’inferno? L’inferno per me è stata questa terra. Nelle nostre ultime ore lei e io siamo stati come due angeli. Vedi laggiù? La locanda Stimming, buona e non cara. Ieri sera abbiamo fatto un’ottima cena, stanotte abbiamo bevuto e scritto lettere, stamattina dopo colazione abbiamo giocato a rincorrerci davanti alla casa, l’oste e i suoi ridevano, si sa che i signori sono sempre un po’ matti. Poi abbiamo pranzato, e sulle quattro ci siamo fatti portare caffè e rhum qua fuori, guarda là sul tavolo, vedi quel cesto…Ci avevo nascosto le pistole. Due, nel caso che una facesse cilecca. (Fascio di luce su H. che si è rizzato a sedere e su un corpo disteso un passo più in là, ERNST si avvicina) Ho sparato a lei, al cuore (indica il corpo), poi a me, in bocca. (Ride): Vedi, la carica era debole, si è impiantata, non mi ha sfracellato il cranio.
ERNST: Lei…E chi è?
HEINRICH: La Vogel. Ma tu bada a me. E’ tanto tempo che non ci vediamo. Se ci fossi stato tu, se tu mi fossi stato vicino, giuro che non l’avrei fatto.
ERNST: Non mentire. Tu è da anni che volevi farlo.
HEINRICH: Ma adesso, adesso…mai la vita era stata così terribile. E l’ultimo colpo! Dieci volte vorrei morire piuttosto che rivedere quella stanza, quel tavolo apparecchiato, quelle tre facce.
ERNST: Dove, dove? Di cosa parli?
HEINRICH: Dell’ultima visita a casa mia, a Francoforte.
ERNST: Dalla tua amata sorella Ulrike?!
HEINRICH: Sì. Ma non eravamo soli, c’era anche l’altra mia sorella, e un’ospite, una sconosciuta e che ci fosse anche quest’estranea era già di per sé un affronto. Ero da loro perché gli avevo chiesto un prestito, 20 louis d’or, per farmi l’equipaggiamento.
ERNST: Equipaggiamento?
HEINRICH: Sì, da ufficiale, avevo fatto domanda per rientrare nell’esercito.
ERNST: O Dio, Kleist!
HEINRICH:. In ogni caso dal gabinetto regio era già arrivata la risposta: prendiamo nota della sua disponibilità, signor von Kleist, per il caso ci sia la guerra, ma la guerra non ci sarà. A tavola balbettando come se mentissi ho detto che avevo buone speranze di rifondere loro quei maledetti 20 louis d’oro in quanto stavano per rappresentare un mio lavoro a Vienna. “Ah sì?” fa Ulrike, e poi, tranquilla, passandomi un piatto senza guardarmi – o Ernst, è così terribile che non so più se sia vero – “non pretenderai ancora solidarietà, sei un fallito, sei il disonore della famiglia”. Stringimi a te, Ernst! non mi far pensare! Tu lo sai, tutta la vita ho sperato sopra ogni cosa di farmi onore agli occhi dei miei. La gente non ci crede, tutti hanno sempre pensato: Kleist spasima per la gloria. Oh, non è vero, io ho spasimato sempre soltanto per un po’ di calore.
ERNST: Lo so.
HEINRICH: Non mi chiedi perché sono venuto fin qui…sul lago, sulla strada di Potsdam? Ucciderci a Berlino sarebbe stato più comodo, no? Ma vedi la strada laggiù? Di là passa il re con la corte ogni volta che da Potsdam si trasferisce a Berlino.
ERNST: E allora?
HEINRICH: Allora ogni volta che lor signori passeranno di là dovranno ricordarsi di me, di come mi hanno trattato.
ERNST (si copre il viso): Però, però…di uccidere lei…almeno questo te lo potevi risparmiare. Dio, Dio, Heinrich, lei, mi pare, ha anche una figlia, una bambina. Sei stato tu a indurla…
HEINRICH (ride): Dato che non ho mai potuto indurre te!
ERNST: Sciagurato. E ci hai provato anche con tua cugina Marie, e anche lei ti ha dato del pazzo. La gente normale vuole vivere malgrado tutto.
HEINRICH: Non cambiare discorso. Lo so, ci avevo provato anche con lei, ma quella è una donnetta, mentre tu….Morire con me! Lo so che la mia proposta era mostruosa. A te piace vivere, sei bello, sano, ami il nuoto, la scherma, il militare, farai carriera. Diventerai generale, ci scommetto.
ERNST: Mi prendi in giro?
HEINRICH: No, al contrario. Ma tu quando te lo proposi, l’ultima volta, ricordi? Era a Parigi. Tu nemmeno mi hai risposto, sei uscito di casa sbattendo la porta.
ERNST: Sì. Avrei dovuto morire con te solo perché tu da mesi eri incatenato a quel dramma che non ti riusciva?
HEINRICH: Chi non scrive non può capire quest’ossessione. Ero dannato, finito, il più deforme, il più storpio degli uomini e…il più bisognoso d’amore.
ERNST: Tornai verso sera e tu eri scomparso. Unico segno di te: nel camino, un mucchio di carta scritta, mezzo bruciata o incenerita. Avevi distrutto il tuo dramma. Mi è venuto male. Ti ho aspettato per cena. Niente. Alle dieci non eri ancora tornato. Allora sono corso dai von Werdeck: venivano da teatro, ma nemmeno a teatro ti avevano visto. Forse sarà da Lucchesini, dall’ambasciatore, abbiamo pensato, ma cercarti da Lucchesini a quell’ora non si poteva. Alla Werdeck viene in mente di verificare se ti fossi portato via della roba, ma non riusciamo a capirlo. La mattina dopo corriamo da Lucchesini: niente di niente. Abbiamo avvisato la polizia, siamo andati anche all’obitorio. Lo ricordo come fosse ora. Come ti abbiamo odiato!
HEINRICH: E’ il destino di chi vuole essere amato.
ENST: Io ti amavo, ma per te era sempre troppo poco.
HEINRICH: Mai ho avuto il cuore così in alto come andando a raggiungere gli odiati francesi a Boulogne, mai ho visto così vicina e gloriosa la mia tomba.
ERNST: Ma quale gloria. Te ne sei andato via, hai fatto duecento chilometri a piedi, da Parigi a Boulogne. Senza passaporto, per giunta a raggiungere quello che odiavi sopra ogni cosa, Napoleone, che radunava le truppe per passare la Manica e sbarcare in Inghilterra. Pensa al disonore se i francesi ti prendevano e ti fucilavano come spia. Avevi o no giurato al nostro re che non avresti mai servito sotto altri che la Prussia? Possibile che tutti i conti tu li voglia saldare con la morte?!
HEINRICH: Mi fosse riuscito. Invece mi fecero rientrare a Parigi. Poi caddi ammalato, rimasi sei mesi a Magonza, in casa di quel medico giacobino. Poi mi fecero tornare in patria, a Berlino davanti all’inquisizione, da quel burattino di von Köckeritz, il generale aiutante del re. Non mi far ricordare quell’ora, in quella sala di Charlottenburg. “Lei, signor von Kleist, nel ’99 ha lasciato la sua carriera di ufficiale promettendo al re di dedicarsi a studi utili a un futuro impiego civile nello stato. Li ha conclusi? No. A Berlino per un po’ ha collaborato, così per dire, col Dipartimento delle finanze, poi se n’è andato con la scusa di continuare i suoi studi a Parigi ed è stato fuori di Prussia per un tempo indeterminato, a Parigi e dove altro non si sa bene, poi c’è il gravissimo fatto di Boulogne. Inoltre, siamo bene informati, lei ha scritto anche dei versi”.
ERNST: Be’ questo era un insulto inaudito.
HEINRICH: Ma non erano disumani. Mi diedero un altro posto nella burocrazia. Precario, con un soldo da fame, e lassù a Königsberg. Però allora eravamo in tanti a non sopportare più questo paese di vili, interessi privati, scatti di stipendio, onorificenze fasulle, ognuno come un bruco sulla propria foglia. In tanta miseria io avevo solo un sogno, che mi pagassero abbastanza per invitarti a condividere quel poco con me.
ERNST: Ah, giovinezza. Non sognavamo anche di emigrare? Voleva venire con noi anche il nostro amico Rühle.
HEINRICH: Sì, in Australia, in Nuova Zelanda.
ERNST: Io avrei preferito l’America.
HEINRICH: Ma tu non facevi sul serio. Anche in te lor signori avevano subodorato uno dei tanti potenziali ribelli e ti avevano spedito in guarnigione all’Est, ma se tu fossi davvero venuto con me, io non avrei esitato a imbarcarmi.
ERNST:Tu sei nato clandestino, io no.
HEINRICH: A Königsberg c’erano il porto, le navi, il mare aperto. Ah poter salire una sera su una nave ed essere portati via dal vento e vedere il porto allontanarsi come fa il sole al tramonto, e il mondo diventare nebbia.
ERNST: Ecco il poeta.
HEINRICH: O Ernst, io qui tu là abbiamo però avuto anche dei momenti felici. Ci mandavamo per posta dei progetti: volevamo costruire un natante che andasse sotto’acqua e riemergesse con un meccanismo di raccolta e di espulsione dell’acqua. Io avevo fatto anche dei disegni. E il mio progetto della bomba postale, recapitare la posta a tappe, alla velocità di una palla di cannone? Non era un’idea splendida? Che gioia mi davano queste invenzioni. A pensarci, ben più che la poesia.
ERNST: Dove trovarlo, dicevi, uno come me che sa trovare un differenziale e fare anche dei versi? Come ho sempre ammirato la tua passione per le scienze.
HEINRICH: Una passione maschile, come la tua per gli esercizi fisici. La fai ancora la scherma? Mentre la poesia…dopotutto è una debolezza femminile, è come per una donna rimanere incinta e magari senza sapere di chi.
ERNST: Sarebbe a dire?
HEINRICH: Sì, è così. Una metà di me è donna.
ERNST: Ma se tu le donne le disprezzi!
HEINRICH: Ti ricordi di quando eravamo in Svizzera, a Thun, sull’isola Dolosea? Perché l’abbiamo poi lasciata per andare in quell’inferno di Parigi?
ERNST: Non lo so più, io avevo qualche risparmio, ma non sapevo cosa fare di me.
HEINRICH (ride:) A Thun a mantenermi eri tu. Io stavo chiuso in casa a scrivere, ore e ore anche a letto, anche per via dei miei disturbi di visceri, di nervi. Fumavo come un turco e riempivo la stanza di fumo. Tu uscivi, andavi al lago, anche quando faceva freddo, e ti buttavi nudo in acqua. Nuotatore, schermidore, tutto sei. Per me è inconcepibile. Qualche volta venivo anch’io: mi sedevo sulla sponda e stavo a guardarti…
ERNST (ridendo forzatamente e citando:) Guardavi il mio bel corpo con sentimenti di fanciulla. Me l’hai anche scritto. Una pura suggestione letteraria: “Io ripristinavo nel tuo cuore l’età greca” e in quel momento avevi “compreso i greci, gli spartani e la loro concezione dell’amore tra i giovani maschi. Avrei potuto, dicevi, servire da modello per un artista, il modello di un dio.
HEINRICH: Ah, il tuo cranio ricciuto, il tuo collo robusto, le spalle larghe…
ERNST (ride:) Il più bel giovane toro che sia mai stato sacrificato a Zeus, mi hai scritto. Be’ non so se in questa versione mi piacevo. Una bestia, dopotutto.
HEINRICH (con empito): Ma io avrei potuto dormire con te.
ERNST: Una bella scena mitologica.
HEINRICH: C’era tutta l’anima mia. Come quando ti dicevo: io non mi sposerò mai, sii tu mia moglie, i miei figli.
ERNST (rabbrividendo:) La tua lettera del 1 gennaio 1805: l’ho conservata. Non me ne hai poi scritte molte.
HEINRICH (gridando:) Tu non sai com’è quando ti figuri l’amore per uno del tuo stesso sesso…
ERNST: Io non me lo sono mai figurato.
HEINRICH: E’ una strana cosa, Ernst. E’ quando vedi in un altro maschio ciò che vorresti essere tu e che non puoi essere.
ERNST: Kleist! Di quali fantasie non sei stato preda. Strano, dopotutto somigli a tua sorella Ulrike.
HEINRICH: In che senso?
ERNST: Non hai sempre detto che lei era una via di mezzo fra i due sessi? Il risultato…(indica il cadavere dell’uccisa), il risultato è che ti vai a mettere con questa moglie di un altro.
HEINRICH: Lo so, la Vogel non ti è mai piaciuta, e non sei il solo.
ERNST: Pazienza quel volto segnato dal vaiolo, ma lo sguardo, lo sguardo con quel che di falso…
HEINRICH: Falso? Perché? Mi adorava. Mi dava fiducia in me stesso.
ERNST: Non è umiliante prendere la fiducia in se stessi dalle mani di una dappoco?
HEINRICH: Era un’anima eletta.
ERNST: Ma va’. Scusa la brutalità, parlo per il male che sento, per come ti ho ritenuto degno di una compagnia migliore e di non finire così. Aveva un cancro all’utero e una morte atroce davanti: lo sapevano tutti a Berlino. Non capisci cos’è stata per lei l’idea di morire prima, volontariamente, d’un colpo, insieme a un noto poeta? Tu lo sai cos’è la brutta bestia della vanità, specie nelle donne? No, non lo sai, sempre troppo superbo per essere vanitoso.
HEINRICH: Ho amato la morte insieme a lei. Da ultimo passavamo interi pomeriggi a casa da lei a far musica. Musica liturgica, salmi e corali. Si cantava e suonava ed eravamo chissà dove, in una salvezza che nessuno ci avrebbe tolto.
ERNST: Salvezza? Un miscredente come te.
HEINRICH: Ci siamo figurati insieme la sopravvivenza in un altro mondo.
ERNST: Sei ricascato proprio all’ultimo nelle panzane che vi raccontava il vecchio professor Wünsch all’Università di Francoforte? La trasmigrazione delle anime! Panzane dell’altro secolo! E a cascarci sei proprio tu, uomo dell’avvenire, ben più avanti della melensa congrega romantica, degli Arnim, ndei Brentano e di quella carogna opportunista del tuo amico Müller.
HEINRICH: Sei geloso?
ENST: Neanche lontanamente. Müller ti ha fatto solo del male.
HEINRICH: Davanti alla morte si torna fanciulli. Fanciulli trionfanti. Ho sempre desiderato di avere un anima, anche una sola, un amico che fosse soltanto il mio amico, il mio testimone, che vivesse all’unisono con me. Lo capisci questo? E con lei ci sono riuscito.
ERNST: Già, io ero un amico che di amici ne aveva anche altri, e persino una fidanzata, poi una moglie, com’è normale.
HEINRICH: Chi ha tanti amici non ne ha nessuno.
ERNST: Non dire assurdità. Tu oltre a me non avevi forse la tua cara cugina Marie e il nostro Rühle, e non hai avuto Brockes, Lose, Louis Wieland, quelli di Berna e il medico giacobino che ti ha curato e poi Dahlmann, che è venuto con te a Praga, e gli epistolari con le donne…Sì, di questi sono un po’ geloso: la von Schlieben, la von Werdeck, la Levin. A chi non ti aggrappavi?
HEINRICH: Nessuno di loro mi ha mai chiesto di essere l’unico. Mentre io…io mi ci sono dovuto abituare ma era una tortura questo dare e prendere a frammenti quando capita, questo doversi limitare e guai lamentarsi se è poco, e per colmare l’assoluto bisogno dover andare dall’uno all’altro!
ERNST: Tu l’altro lo volevi risucchiare dentro di te. E con questa povera malata ci sei riuscito.
HEINRICH (in una risata:) Forse il miglior amico che si possa avere è un malato, un paralitico, così sai sempre dove trovarlo…
ERNST: Sei un cinico. Potrei odiarti. Ma tutti a Berlino si chiedono se con questa qua eravate…
HEINRICH Amanti? Impossibile, nelle condizioni di lei. Io so solo che con lei in queste ultime settimane ho provato un’assoluta serenità.
ERNST: Come quei due autunni a Thun, sulla nostra isoletta. Ma eravamo giovani.
HEINRICH: Alla locanda abbiamo preso due stanze attigue e la sera abbiamo bevuto, mangiato, scherzato e tirato tardi scrivendo lettere di congedo, finché sotto la finestra si sono uditi i passi del bravo Stimming che andava a fare l’ultima ricognizione prima di notte. Poi ognuno si è chiuso a chiave nella propria stanza. No, non eravamo amanti.
ERNST: Lo immaginavo. Perché a parte la malattia di lei, tu, tu…Sono cose di cui non si parla, ma tu sei mai stato…No, scusa, come non detto.
HEINRICH (ridendo:) Mai stato con una donna? No, Ernst von Pfuel, mai, e nemmeno lo rimpiango. Forse c’è stato qualcosa del genere quand’eravamo giovani, a Potsdam, nell’esercito, ma non so più cosa fosse. Erano donne? Non so. Potsdam, con tutti quei militari, era piena di bordelli. Che disgusto, non mi ci far pensare.
ERNST: E a Francoforte, la von Zenge, la tua fidanzata? Se non sbaglio, l’hai rivista sposata con figli a Königsberg. Dicono che fosse graziosa.
HEINRICH: Sì, accanto a lei mi prendeva a volte un terribile desiderio, specie in quell’oretta serale che ci lasciavano soli sotto la pergola, che divideva il giardino dei miei dal loro. Aveva un neo nell’incavo di un braccio che mi faceva impazzire. Ma non era pensabile di…Era una casta signorina in attesa di diventare moglie e madre. E poi – questo non lo sai – io allora avevo un ostacolo.
ERNST: Impotentia coeundi? Tanti ce l’hanno.
HEINRICH (rabbrividendo:) No, un’ostruzione, una fimosi, e me ne liberò un chirurgo di Würzburg, almeno credo, perché non ho avuto poi occasione di…
ERNST: Il tuo misterioso viaggio a Würzburg! Eri con un amico, no? Quel Brockes più vecchio di te, una specie di padre, so che poi ne hai fatto elogi sperticati, che la povera von Zenge nemmeno poteva sognarsi.
HEINRICH: Ma a cosa avvenuta, col cuore in festa le scrissi delle lettere piene d’amore. Adesso, le dicevo, potrò venire incontro ai tuoi sacrosanti diritti e renderti madre. Per te ho fatto ciò che per nessuno ho mai fatto.
ERNST (ride): Millantatore: da lei a Francoforte non hai messo più piede. Sai cos’ho sempre pensato? Con la tua faccia da bambino, il tuo arrossire, il tuo balbettare, tutto sembri fuorché questo, eppure, lasciami dire: tu hai solo la vocazione dello stupratore.
HEINRICH: Io? Sei pazzo.
ERNST: No. Tu sei l’ufficiale russo all’assedio che stupra la marchesa, nella Marchesa di O, e poi la sogna come un cigno immacolato sporcato di fango.
HEINRICH (ride di piacere:) Stuprare dev’essere la stessa ebbrezza che si prova una mattina che è nevicato a uscire in giardino con gli stivali e cacciarli nella neve, e lasciare, un passo dopo l’altro, delle belle impronte scure nel candore.
ERNST: Lo vedi?
HEINRICH (indicando l’uccisa:) Ma nemmeno quella l’ho toccata con un dito, nemmeno quando ci trovavamo accanto, a casa di lei, a far musica, spalla a spalla. Forse solo quella sera, una delle ultime, che abbiamo gettato nel camino del salotto, con un solo gesto, le sue e le mie carte ed è montata la vampa, avrei voluto prenderla fra le mie braccia.
ERNST: Non mi dire che lei non ne avrebbe esultato.
HEINRICH: Non lo so. Le nostre due anime ardevano più in alto.
ERNST: C’era il marito, no?
HEINRICH: Era tutto il giorno al ministero, e poi…una sera che era tornato di un umore più vivace del solito sai cosa mi ha proposto offrendoci da bere? La vuole lei, signor von Kleist, la mia bizzarra Henriette? Dato che state così bene insieme, io se vuole gliela cedo.
ERNST (scoppia a ridere:) Kleist! E’ perché lui nel frattempo si era fatto un amante. Niente di straordinario nella corrotta Berlino. Lo sapevanno tutti, tranne te – tu là sei davvero rimasto l’unico puro. E tu cosa gli hai risposto?
HEINRICH: Mi sono solo sentito avvampare.
ERNST: E lei?
HEINRICH: Ha fatto tanto d’occhi…Poi dalla donna di mondo che era ha cambiato discorso.
ERNST: Ne aveva ben donde. Ah Kleist, tu non sai mai niente. Lei prima di te aveva avuto…
HEINRICH: Non voglio sapere nulla.
ERNST: E’ tipico di te. Sei come le tue eroine: non vogliono mai sapere. Lo dice la tua Marchesa. Che poi fosse svenuta quando il russo la stupra è una panzana. Per fortuna ogni tanto ridi: in un epigramma su di lei non hai messo “fanciulle, non è una storia per voi, la marchesa teneva solo gli occhi chiusi”?
HEINRICH: (ride:) Ma certo. (Tornando serio:) Quell’arrogante di Vogel: cedere la moglie a me! E dove l’avrei portata? Io non avevo più una vita. Solo sconfitte e debiti.
ERNST: E dopo tra voi, ritrovandovi soli, cosa vi siete detti?
HEINRICH: Nulla, come due porte chiuse.
ERNST: Tu sei nato solo, asimmetrico.
HEINRICH: Non è vero. In questi ultimi giorni sono stato a trovare i von Marwitz in campagna, e abbiamo discusso a lungo le possibili varianti della politica del re, che dichiarasse guerra alla Francia entro quattro settimane, che passasse la linea dell’Oder ma fosse respinto, e anche dell’ipotesi che facesse una generale chiamata alle armi ma non sapesse poi cosa intraprendere. Maledetta la pace, maledetta la soggezione ai francesi. Poi sono andato a trovare il colonnello Gneisenau, che ancora lavora a un’ipotetica rivolta popolare contro Napoleone, e per consiglio di Marie gli ho consegnato dei miei “saggi di argomento militare”, anche se tutto questo mi sembra, per dirla coi francesi, “mostarda dopo cena”. O Pfül, tu non sai come mi avrebbe cambiato la vita un’attività accanto a un simile uomo. Quella mezz’ora che sono rimasto da lui mi sono sentito come ridestare alla vita e alla gioia. Se in vita mia avessi mai avuto una collocazione, avessi avuto sopra di me un uomo di valore!
ERNST: E oltre a questo un principe giusto e benigno e una comunità che ti ama. Sognatore!
HEINRICH: Ma ieri mattina a Berlino pareva una congiura: la famiglia Müller a Vienna, mia cugina via da settimane e caduta ammalata nella sua tenuta, la Levin che non risponde. Allora sono passato dagli Staegemann: c’era solo la vecchia, che mi ha mandato a dire da un servo sono indisposta, caro Kleist, può tornare un altro giorno? Forse bastava poco, magari una parola affettuosa di questa vecchia conoscenza, perché io mi riabbandonassi all’abbraccio del mondo e dimenticassi l’idea di morire .
ERNST: E dimenticassi anche la Vogel.
HEINRICH: Già. Lei che mi aspettava fuori porta, nella carrozza che avevamo ordinato per venire fin qui.
ERNST: T’immagini, se non ci andavi, il suo rientro a casa dal marito?
HEINRICH: No. Appena sono arrivato là fuori e sono salito accanto a lei in carrozza mi ha ripreso l’entusiasmo per il nostro comune disegno. Ma cosa credi? Che io lei non la vedessi com’era? Con la sua smania di emanciparsi dal suo ruolo di madre e moglie di un noioso funzionario, con le sue ambizioni di scrittrice. Quelle come lei spostano poi tutte le speranze su un uomo – e quello adesso ero io. Abbiamo messo per iscritto delle cose assurde, due litanie d’amore, io per lei, lei per me: se qualcuno le ritrova non so cosa penserà. Mio caro peccatore, mio cristallo, mia corona di spine, mia religione, mia musica interiore, mia porta del cielo, ha scritto lei, mio piccolo malato Heinrich, mio tenero agnellino. Ma il suo leggero profumo, quando avvicinavamo le teste per leggere lo spartito, quel tepore che emanano uno scollo, delle braccia semiscoperte, mi faceva ritrarre.
ERNST: Un bel gioco! E tu cos’hai scritto?
HEINRICH: Mia piccola Henriette, ho scritto io, mia colombella, mia amica, sangue del mio cuore, mie viscere, mia pupilla, mio sole, luna e stelle, cielo e terra, mio passato e futuro, mia donna, mie nozze, battesimo dei miei figli, mia fama postuma….
ERNST: Vedo che da te c’è una progressione…verso la gloria! Hai mai desiderato altro!?
HEINRICH: No, Ernst von Pfuel, ma la volevo da vivo, come un perenne festino intorno a me, con tutti che esultano, la volevo come un calore senza fine. Ma io non avevo che un mezzo talento. E’ l’inferno che dà i mezzi talenti, il cielo o li dà interi o niente. (Giungendo le mani:) Così, sai come mi chiamavano da ultimo a Berlino? Le pauvre Kleìst!
ERNST: Dopo averti chiamato anche il Kleist di Müller e poi il Kleist degli Abendblätter, del tuo giornale!
HEINRICH: Ah, non avessi avuto niente! Pensa, una piccola carriera nell’esercito o rintanato nella Deputazione tecnica nel rispetto di tutti e nella stima dei miei, e invecchiare tra figli e nipoti…Credi che mi sarebbe apparso spregevole? Al contrario! Non so cos’avrei dato.
ERNST: E il perenne festino intorno a te? Ah, il genio vuole essere amato in misura speciale. Si sente il figlio unigenito di Dio.
HEINRICH: Ben detto. Fatto sta che con me, con me e lei, non è rimasto che Ernst Peguilhen.
ERNST: Chi è?
HEINRICH: Un piccolo burocrate sentimentale, per l’esattezza consigliere militare, un amico di lunga data dei Vogel. Era innamorato di lei, e si è innamorato anche di me, diceva che con la nostra assoluta purezza lo facevamo sognare.
ERNST: Bianco agnellino, ecco che prendi di nuovo cibo dalle mani di un inferiore.
HEINRICH: E’ alla sua pietà che abbiamo diretto l’ultimo messaggio, calcolando che gli arrivi a Berlino prima di sera e che lui e Vogel facciano ancora in tempo a venire da Berlino fin qui a raccogliere…i nostri cadaveri. Dopo aver scritto “i nostri cadaveri” ci ha preso una matta allegria. Ci sembrava di non avere più peso, di danzare con la grazia delle marionette appese al filo. La famiglia dell’oste ha trasecolato quando abbiamo chiesto che ci portassero caffè e rhum qui, al freddo, lontano dalla locanda, su questo prato in vista del lago. Io ho ordinato un doppio rhum, lei mi ha teneramente rimproverato…Heinrich, non eccedere. La serva se n’è andata con l’ordinazione. Non sarebbe potuta tornare prima di un quarto d’ora, e allora io detto: cuor mio, è ora che ci sbrighiamo. Lei si è alzata, io l’ho presa per mano. Meno male che nessuno aveva guardato nel cesto che avevamo con noi, ma io ci avevo messo sopra un tovagliolo.
ERNST: Sopra le pistole.
HEINRICH: Poco più in là c’era questa cunetta, dove mi vedi, e io le ho detto mettiti lì. Lei si è stesa, dopo aver sistemato il vestito sotto di sé. Addio, mia luce, ho detto e le ho mirato dritto al cuore: così preciso che le ho fatto solo un minimo foro sotto un seno. Poi ho pensato a me. Già lo sai: mi sono sparato in bocca per essere certo di finirmi. Sono crollato su un fianco, un po’ più in basso, quasi addosso a lei. Per un po’ ho ancora sentito il suo calore. Il cranio sfracellato è un’idea che mi ha sempre dato voluttà…l’ho messo anche nei miei racconti. Invece niente…la palla è rimasta dentro. (Ride:) In me resta sempre tutto dentro. Alla locanda, dentro uno zaino, ci sono tutte le nostre lettere di congedo.
ERNST: Hai scritto anche a tua sorella Ulrike?
HEINRICH: Sì, perché lei per me ha fatto il possibile. Adesso l’avevo supplicata di venire a vivere con me a Berlino.
ERNST: Le vostre convivenze sono sempre state un fallimento.
HEINRICH: Sì, però se ora l’avessi avuta con me, nella Mauerstrasse, non mi sarei legato con altri e non avrei fatto…
ERNST: Ma quando, Heinrich tu sei stato felice?
HEINRICH: Due volte.
ERNST: Ah sì?
HEINRICH: A Fort Joux, in fortezza. Gennaio del’ 7. Quando arrivammo, il Giura era nel ghiaccio. Per tutto il tempo i miei due compagni non fecero che imprecare ai francesi e lagnarsi della salute, io coi 3 friedrich d’or presi a prestito da loro mi ero procurato carta e candele. Mai sono stato così in salute. Scrivevo, e non potendomi raggiungere alcuna risposta dal mondo ero perfettamente sereno. Il carcere ti libera dal tuo destino. Avessi potuto rimanere per sempre lassù. Ma venne la pace di Tilsit, e ci trasferirono a Châlons e…
ERNST: …ricominciò il destino.
HEINRICH: E mi riprese tra le sue mani di ferro. Ma con un’altra parentesi: quell’autunno a Dresda. C’eri tu, che abitavi con me, c’era Rühle, mi avevano pubblicato l’Anfitrione e il Terremoto nel Cile, avevo conosciuto della gente che mi capiva, della gente influente, avevo trovato un sostenitore entusiasta in Müller, avevamo dei progetti comuni, ti ricordi? una rivista, una libreria editrice, volevamo persino chiedere la licenza per pubblicare il Codice napoleonico.
ERNST (con un gesto di scontento:) Quel Müller. Ma l’uomo è immortale solo quando è felice, l’hai scritto tu non so dove.
HEINRICH: Ma ti ricordi…quelle notti che passata la sera in compagnia noi tornavamo ubriachi di felicità a Pirna a casa nostra…O la sera del mio trentesimo compleanno, il 10 ottobre, a casa dell’ambasciatore von Buol? Non sapevo che era il massimo di fortuna cui sarei arrivato. Tutte quelle portate, quegli abiti femminili, quelle luci, e quando alla fine della cena sulla soglia del salone apparve la deliziosa figlia di Körner, tutta in bianco, con un infantile sfavillio negli occhi, ecco, pensai, ecco la dea della giovinezza, e reggeva…o buon Dio, una corona d’alloro. Per chi? Perché stava venendo dalla mia parte? Era per me e quando me l’ebbe posata sulla testa, con un bacio sulla guancia, la farfalla di un bacio, tutti alzarono i calici e dalla tavolata si levò un fragoroso applauso: al genio di Heinrich von Kleist, al suo sublime talento, alla speranza del teatro tedesco…Mi sarei buttato in ginocchio davanti a loro, a chiedere scusa, a dire perché mi fate tanto onore. Oppure fuggire, non esserci stato, e che fosse un racconto di altri. E intanto in mente mi riemergeva un comandamento che mi ero coniato da bambino e che da bambino mi ripetevo ogni sera a letto, prima di addormentarmi : io voglio, io devo entrare, e fosse di traverso.
ERNST: Che strano, sembra detto oggi, oggi che l’uomo è rimasto senza Dio e non vede più altra immortalità che in se stesso. Oggi o domani. Ah, il domani!
“La vita di Heinrich von Kleist svela il conflitto sessuale che ha ispirato Penthesilea. Il fallimento di Kleist nel seguire la tradizione militare di famiglia era degno di biasimo. La letteratura era una riprovevole e ridicola vocazione.
Il suicidio di Kleist, con un colpo di pistola in bocca (come la fucilata di Hemingway), esprime il martirio all’altare della mascolinità prussiana. Armi nella bocca potrebbero esprimere qualcosa di non esplicitamente manifestato nella Penthesilea: un frenato ma lacerante desiderio omosessuale. Kleist cercò di convincere la cerchia di amici a commettere un doppio suicidio, cosa che infine ebbe luogo grazie ad una conoscente. Kleist descrisse eroticamente questo evento come ‘la morte più gloriosa e sensuale’.
Inevitabile che un solipsista romantico sia in intima relazione con la sorella, in questo caso Ulrike, la sorellastra […] Nello stile auto-divorante e sado-masochista della Penthesilea, la spinta di Kleist verso la sorella si rivolge alla componente sessuale che manca: il femminile di lui e il maschile di lei. Lei era quello di cui aveva bisogno. Il romanticismo familiare di Kleist prende forma nel provocatorio programma di Penthesilea. Di rado le donne hanno parlato tanto arditamente quanto Kleist parla qui a loro nome.”
Camille Paglia, Sexual Personae. Art and Decadence from Nerfertiti to Emily Dickinson, Yale University Press, New Haven 1990 pp. 264-5
“Durante i giorni a Berlino, Visconti mi aveva parlato più di una volta del suo desiderio che io componessi per lui l’opera Der Prinz von Homburg. Io avevo costantemente rifiutato. Lui aveva letto Kleist solo nelle traduzioni in italiano e in francese e, per quanto fossero fedeli, non poteva sapere che per un tedesco lo stesso linguaggio di Kleist è già musica, una musica che suona come una grande orchestra scossa dalla tempesta. Stranamente non riusciva a immaginare Der Prinz von Homburg come dramma, per lui il pezzo aveva senso solo sotto forma di opera.”
Hans Werner Henze, Canti di viaggio [con quinte boeme] Nuova edizione italiana a cura di Gastón Fournier-Facio, Michael Kerstan, Elena Minetti, il Saggiatore, Milano, 2015. pp. 159-60