di Cristina Rivera Garza (trad. di Giuseppina Imperatrice)
[Pubblichiamo un saggio di Cristina Rivera Garza, scrittrice e saggista messicana che vive attualmente a Houston, autrice di racconti e romanzi, tra cui Nessuno mi vedrà piangere, tradotto in Italia per Voland].
Freno d’emergenza
La frase è di Walter Benjamin:
Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale, ma forse non è così. Forse le rivoluzioni sono il freno d’emergenza azionato dall’essere umano in viaggio su questo treno.
e fa proprio al caso nostro perché, in questi giorni di pandemia, tutto sembra svolgersi a questa velocità inedita, inaugurata dall’attivazione della leva del freno: la decelerazione. Non si tratta, certamente, di quella lentezza romantica della quale hanno scritto romanzieri e attivisti vari, ma di un’impasse senza scampo in cui predomina la preoccupazione ossessiva e l’ansia. La pandemia non è un’oasi, tantomeno di pace. Senza dubbio, ci siamo fermati di colpo e, nonostante sia chiaro che la mano che ha tirato il freno sia umana –il cambio climatico e l’alterazione dell’ecosistema sono l’altra faccia del capitalocene selvaggio– è meno chiaro se questo freno sarà sufficiente per trasformare un sistema economico che, per la sua brama di ottenere il miglior profitto possibile, ha devastato sistematicamente la Terra. La cosiddetta normalità, di cui si parla molto in questi giorni, e con giusta ragione, è alla base del problema che ha portato alla pandemia. Si reitera continuamente l’impossibilità di ritornarvi, perfino se qualcuno lo volesse. Come affermavano veementemente Angela Davis o Rita Segato, si ha ora la possibilità di sostituire questa vecchia normalità con un mondo di solidarietà diffuse in cui la coscienza della nostra mutua interdipendenza affettiva e materiale includa in modo centrale la Terra.
Una mera approssimazione
Non stiamo attraversando una rivoluzione, ma un cambio decisamente radicale sì, così diffuso in ogni angolo del pianeta che potrebbe essere definito come un cambio strutturale. Non sappiamo quanto durerà la trasformazione, né come saranno e quanto dureranno le sue conseguenze, ma viviamo questi giorni di pandemia con l’ansia e la curiosità di chi osserva fenomeni per i quali non esiste ancora un linguaggio preciso. Viviamo con il pulsante dell’angoscia azionato. Siamo gli stranieri che, intrepidi e senza valigie in una città estera, si sforzano di creare delle analogie per poter visualizzare –capire è molto più complicato– quello che succede davanti ai loro occhi. Questo somiglia a. Beh, potrebbe trattarsi di. Il processo di traduzione, che include sia l’esperienza sia il linguaggio in cui l’esperienza stessa viene descritta, è laborioso, spesso francamente impercorribile. Ad ogni tentativo si nota che il lessico non smette di cozzare con i contesti inediti e i fenomeni che, a volte in maniera ovvia e a volte più sottilmente, seguono regole che non sono ancora chiare. Ogni tentativo è solo un’approssimazione.
Sul verbo toccare
Dato che il contagio avviene per vicinanza, soprattutto attraverso il sistema respiratorio ed il tatto, dobbiamo essere coscienti del fatto di essere corporei. Sembra facile ma non lo è affatto. La produzione industriale ci ha abituati a vivere con l’illusione di essere incorporei. Possiamo lavorare senza sosta. Possiamo spendere senza sosta. Se fossimo in un racconto della scrittrice salvadoregna Claudia Hernández, saremmo quei personaggi che, anche da morti, anche da cadaveri, continuano a timbrare il cartellino d’entrata a lavoro o ad esibire la carta di credito davanti al registratore di cassa. Il capitalismo in stile USA è così: letteralmente disgustoso. L’illusione di non avere un corpo, alla quale contribuiscono pillole e medicamenti vari, porta all’illusione di non avere altra connessione col mondo che non sia quella elettronica. Dall’artificio dell’astrazione deriva la mancanza di solidarietà con il mondo che ci circonda e, in fin dei conti, l’indolenza. Non ci duole ciò che non ci tocca –ciò che non sappiamo che ci tocca–. Ma ora che siamo chiusi in casa, ora che sappiamo che le nostre mani sono armi mortifere e non sono solo, come affermava Kant, ciò che ci rende diversi dagli animali, non possiamo non pensarci. La re-materializzazione del nostro mondo al tempo della decelerazione ci obbliga a farci domande che sono essenzialmente politiche: chi ha toccato questo che sto toccando io? Che è un modo per chiedere: da dove viene, chi lo produce, in che condizioni di produzione o in che condizioni sanitarie si produce quello che arriva tra le mie mani, con quale percentuale di virus. All’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing sono voluti anni e diverse pagine per trovare la risposta alle domande riguardanti il matsutake, il fungo, venerato in Giappone, che cresce in zone boscose del mondo che sono sopravvissute ad un processo di devastazione. In effetti, ci sono molte mani in The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, quelle dei lavoratori migranti, quelle dei commercianti, quelle dei guardaboschi, della polizia, della polizia di frontiera. Mani callose e mani morbide. Mani abituate alle carezze o mani che non hanno mai conosciuto la crema idratante. Tracciare il lavoro delle mani nei processi di produzione e riproduzione del mondo in cui viviamo è un compito principalmente politico, compito che, proprio adesso, è inevitabile. Le nostre vite dipendono, di fatto, dal porre queste domande e dal prestare la giusta attenzione alle risposte. Tutto quello che ci circonda –e proprio adesso sappiamo che siamo, e siamo sempre stati, circondati da tante mani– ci interessa perché ci riguarda. Questo potrebbe davvero aprire le porte alla fine dell’indolenza.
La ri-materializzazione dello spazio domestico
Privati della routine che ci dava l’impressione di essere immobili, allontanati dalla fretta che scandiva il tempo delle fabbriche, delle banche e delle università, condannati ad un sedentarismo casalingo senza la sicurezza di una presunta stabilità economica, il COVID-19 ci ha messi faccia a faccia con la decelerazione. Tutti, all’inizio della giornata, controlliamo cifre che sono ogni volta più allarmanti, facendo attenzione alle nuove misure di sicurezza. Nel frattempo, abitiamo una casa che prima, con allarmante frequenza, usavamo solo per fermarci qualche ora, quasi sempre di notte, per dormire non senza un po’ di difficoltà. Improvvisamente, questo spazio che chiamavamo casa, casa nostra, si rivela in angoli sconosciuti e cose fuori posto. È un’entità estranea, separata da sé, alla quale bisogna abituarsi a poco a poco. Spazzare, passare lo straccio, lavare le suppellettili, rifare il letto, mettere la biancheria nella lavatrice, spolverare –tutte quelle attività quotidiane che, almeno in questa casa, abbiamo sempre fatto da soli–, molto spesso ricadono sulle spalle delle donne e, di solito, passano inosservate. L’impossibilità di uscire, o meglio, l’impossibilità di non vederle, le rende monumentali. Di fatto, le trasforma nel progetto del giorno, l’unica struttura che sopravvive quando tutto il resto ha preso direzioni sconosciute. Il tempo che prima impiegavamo per spostarci da un posto all’altro, anche per andare a mangiare, adesso lo occupiamo per selezionare bene gli alimenti da cucinare quotidianamente. Bisogna lavare bene tutta la verdura o la frutta. Bisogna mettere in ammollo i fagioli la sera prima. Bisogna calcolare per quanti giorni ci basta il riso. Tra una cosa e l’altra bisogna lavarsi le mani più volte, in sessioni di venti secondi che, a ben vedere, costituiscono una buona parte della giornata. A Houston la quarantena ci obbliga a stare a casa ma ancora non ci proibisce di uscire per andare al supermercato per fare scorta di provviste o di portare a spasso il cane (sempre mantenendo le dovute distanze con gli altri). I ristoranti, che hanno chiuso, continuano a produrre cibo da asporto ma di questi tempi, in cui dobbiamo pensare a tutte le mani coinvolte nella preparazione del cibo, è meglio lasciar perdere questa opportunità. Vorremmo farlo, soprattutto per sostenere i ristoranti del quartiere che non se la passano molto bene, ma non possiamo ancora convincerci. Cucinare, tra l’altro, non è un’attività che si fa velocemente. I processi non si velocizzano o si fermano in base al capriccio di chi cucina, ogni cosa ha i suoi tempi: le verdure, i cereali, la frutta. Parte della re-materializzazione della casa consiste nel ritrovare il ritmo delle cose, il loro essere nel tempo. Quelli di noi che non sono confinati fuori dal carcere, dal manicomio o dalla strada, ma dentro, si imbattono in mobili, mestoli, specchi, che la quotidianità aveva reso invisibili e che, adesso, si riappropriano della loro presenza. Trattare qualcuno come fosse un mobile, ricordava la teorica Sara Ahmed in Queer Phenomenology: Orientations, Objects, Others, vuol dire trattarlo come se in realtà non esistesse. Vuol dire ignorarlo. In un habitat privato della corporeità, il posto del mobile è quello della discrezione, se non quello dell’invisibilità più triste. Esattamente al contrario, gli oggetti queer –quella sedia scomoda, il tavolo che improvvisamente spicca per la sua presenza– non svaniscono sullo sfondo. Gli oggetti queer resistono a fondersi in secondo piano. La pandemia, che non ci ha fatto dimenticare il limite materiale della nostra esperienza, ha anche obbligato la vista, e tutti i nostri sensi, a riconoscere gli oggetti dai quali dipendiamo per il loro valore d’uso (e non per quello di scambio). Le padelle, rovinate, ormai quasi senza teflon. L’acchiappamosche. Il divano, che si è spostato dalla sala dove nessuno lo utilizzava al ripiano della cucina, dove ci si può accomodare per leggere qualcosa mentre bolle l’acqua. La suola delle scarpe, con le impronte della strada che lasciamo all’entrata. La materialità della casa che ci circonda, ci recinge, ad alcuni addirittura li asfissia, ma sul finire del giorno è qui, fisica e solida, contro le tempeste d’informazioni e la paura, in un tu per tu contro l’astrazione dello Stato e del capitale, incitandoli o intimandoli a sapersi corpo del nostro corpo.
La solitudine è reale
Negli Stati Uniti sono comuni gli inviti alle feste con orario limitato: dalle 5 alle 7 del pomeriggio per esempio o dalle 6 alle 9, quando si vuole esagerare. Le manifestazioni pubbliche sono definite da un permesso, che include non solo gli orari ma anche degli itinerari specifici. Studenti e impiegati mangiano insalate in contenitori di plastica davanti ai loro computer o telefoni, mentre controllano i loro messaggi o guardano un video. Alle porte degli uffici, che sono allineati in corridoi stretti, sempre illuminati, non arriva nessuno senza prima avvisare. E nemmeno nelle case. Truman Capote diceva che a New York ci si andava per stare da soli; ma io non sarei così provinciale. Ora che la tele-esistenza è diventata il mezzo quotidiano del lavoro e dell’interazione è impossibile non notarlo: viviamo attraverso delle assenze rigorosamente regolate. Siamo circondati da una profonda solitudine. I ritmi di produzione dell’impero sono possibili solamente attraverso corpi isolati, i cui desideri o bisogni sono soddisfatti in modo immediato o automatico pur di non arrestare la marcia delle cose. La pandemia ha ri-materializzato anche questa assenza primordiale, evidenziando che siamo circondati ovunque da spazi vuoti. I professori della pandemia si sono resi conto del fatto che sono più stanchi dopo un’ora di lezione fatta tramite Zoom che di cinque ore fatte in presenza. La ragione è semplice ma davvero triste: sembra che siamo lì, tutti insieme, a parlare e riflettere, vedendoci, ma il corpo sa che non siamo lì. Questa dissonanza stanca. Questa dissonanza ci lascia a bocca aperta. La distanza, che precede di molto la pandemia, diventa intollerabile con essa. Adesso risentiamo della separazione di questi giorni solamente perché non possiamo smettere di vederla. Non possiamo fare così tanto fesso il corpo. Forse per questo siamo ritornati alle chiamate telefoniche: ci lamentavamo che il suono della voce sconnesso dai gesti del viso o dal movimento del corpo non era capace di esprimere vicinanza, ma adesso ci è chiaro che il meccanismo della voce, quando è accompagnato dalla coreografia alquanto forzata di Skype o di Zoom, è ancora più sterile. Ora che parlo al telefono tutti i giorni con i miei genitori, che sono anziani e si trovano in un’altra città, la loro voce in sé, la loro voce sincera e profonda, con le loro inflessioni e titubanze, con quei toni che riconosciamo bene, produce un’intimità densa, capace di scatenare l’immaginazione degli altri sensi.
Tutto è diverso attraverso una finestra
La frontiera di un’abitazione è la sua porta, ma le azioni più interessanti avvengono alle finestre. Lì c’è quello che si guarda ma non si riesce a toccare: l’altra definizione di desiderio. Una finestra è un passaggio, spesso segreto. Intravedere è un verbo che ricorre attraverso un vetro. Nonostante molti immaginino Houston come un posto piuttosto secco, per la sua associazione con l’aridità texana, questo luogo è, come ben diceva qualche volta Gabriela Wiener, l’Amazonia stessa. L’umidità e l’afa lo rendono adatto alla proliferazione di querce e magnolie, rampicanti e felci, buganvillea e bambù. Erano lì da prima, ovviamente, ma si notano di più adesso che i giardinieri hanno smesso di venire e le piante crescono spontaneamente. Le varietà del loro fogliame prorompono sugli spartitraffico alberati e nei giardini, nei lotti incolti e nei cortili interni. Le ombre che creano i rami degli alberi si stagliano, in modo preciso, sulle irregolarità del suolo. È appena passato, rumorosamente, un coleottero enorme con le sue ali ben distese. Le farfalle, che si rincorrono l’un l’altra, vanno a sbattere contro la recinzione in un momento di pura distrazione. La diminuzione dei rumori della città veloce, soprattutto quelli delle auto, ha permesso che altri suoni giungessero alle nostre orecchie come fossero nuovi. Re-materializzati passano anche gli uccelli con il loro inedito cinguettio che, visti da lontano, sembrano tutti diversi e magnifici. Il miagolio dei gatti, il latrato dei cani, il tubare dei colombi, il ronzio degli insetti. Queste due, tre, quattro, cinque, sei galline che, tronfie, camminano per strada come se fosse un grande recinto. Questo è il canto di un gallo a metà pomeriggio? Ciò che voglio dire è che mai come in questi giorni è stata tanto visibile questa interconnessione tra animali e piante, e i luoghi impervi della città, che è urbana solamente a metà o la cui urbanità è una complessa rete di negoziazioni con la natura che, alla minima distrazione, fa capolino o riappare. Se la finestra è una frontiera, frontaliero è anche ciò che accade al di là di essa.
Recuperare l’uso dei piedi
C’è una scena che mostra il mondo iperconsumista degli Stati Uniti in Wall-E, il film d’animazione fantascientifica uscito nel 2008. Se ci si ricorda, in un contesto post apocalittico, una buona parte dell’umanità vive sull’Axiom, dove desideri e bisogni vengono soddisfatti in modo immediato e automatico. Quegli umani guardano così tanta televisione e rimangono seduti per così tanto tempo che hanno perso l’uso delle gambe. Così, una singolare condotta (quella di essere un couch potato) ha riconfigurato il corpo umano, in qualche modo mutilandolo. I Frankenstein del capitalocene. In città come Houston, sovrastate da un paesaggio fatto di numerose strade a più di sei corsie, è facile vivere senza camminare. Di fatto, la cosa più complicata in una città progettata per la circolazione dei veicoli meccanici è camminare. Dopo le 5 del pomeriggio, cioè, dopo l’orario di lavoro, il centro di Houston è, ed è stato, un territorio desolato per il quale passano solo vagabondi e persone disorientate, e anche questo solo ogni tanto. È il paesaggio della quiete dopo la tempesta della battaglia giornaliera: un complesso di edifici disabitati, dove non smette mai di luccicare la scintilla ambrata della luce elettrica. Viviamo in un quartiere tradizionalmente messicano su un lato della I-45 e, nonostante si trovi a soli circa 30 minuti a piedi dall’università, è raro vedere studenti o professori che attraversino lo spazio urbano. Le misure anti-contagio della pandemia, che permettono di uscire in strada, ma senza contatti ravvicinati, hanno tirato fuori dalle loro case le tribù solitarie e le hanno messe in strade semivuote dove altre tribù solitarie si siedono nei loro atri o sul prato dei loro giardini, di cui sicuramente godono per la prima volta. Di certo, il clima mite di questa primavera aiuta, ma c’è qualcosa in quel lento camminare dei solitari che rende tutto molto particolare. Mai come in questi giorni sono state alzate tante volte le mani da lontano in un gesto di saluto o di congedo, in ogni caso di riconoscenza. Mai come in questi giorni hanno calpestato lo stesso marciapiede genitori e figli, insieme. C’è gente con la mascherina ma in bicicletta. I cani avanzano, col guinzaglio di mezzo, su queste strade più e più volte. Forse non è poi tanto strano che l’eco dello spagnolo risuoni così chiaramente in queste passeggiate pandemiche. Quello che sta lì, davanti ai nostri occhi e sotto i nostri piedi, non è la strada della produzione standardizzata e veloce. Non è la strada delle automobili chiuse, gelose del daffare della loro aria condizionata. È, se così si può dire, una strada domestica. Man mano che la sfera pubblica si ritrae, le regole del fisicalismo interiore, una delle quali consiste nel non dimenticare che siamo dei corpi, escono in strada, infondendo una velocità pedestre a tutto quello che accade. Come se la re-materializzazione dell’abitazione si fosse riversata prima nel giardino e, poi, sul marciapiede, per poi traboccare nelle strade. Sono solitarie, certamente, ma sembrano, paradossalmente, più piene che mai. Da lì passiamo tutti noi che abbiamo recuperato l’uso dei nostri piedi.
Potenzialità
È indubbio che il numero dei contagiati e dei morti sia in aumento, così come aumenta anche il numero dei disoccupati. Rinchiusi nel nostro spazio domestico, i nostri corpi hanno smesso di presentarsi alla comunione del mercato tranne che per acquistare i beni di prima necessità: alimenti, prodotti per l’igiene personale, acqua. Lo sapevamo già, ma adesso è comprovato: quelli che producono i beni di prima necessità, quelli che ci mantengono in vita, sono i migranti che, anche se contavano come figure di lavoratori indispensabili fin da prima, continuano a stare senza documenti e, peggio ancora, senza assicurazione medica. Oltre che dai dottori e dagli infermieri, dipendiamo da chi raccoglie lattuga e melanzane, dalla cassiera del supermercato, dalle badanti degli anziani, da chi aggiusta la lavatrice, dal postino. Non staremmo qui, a fare il nostro lavoro per via telematica adesso, se non ci fossero uomini e donne là fuori, chini su enormi campi di verdure, a rischiare la loro vita per poter, paradossalmente, campare. Lavoro in un’università pubblica in cui la maggioranza degli studenti latini l’ha trasformata, ufficialmente, in una “hispanic serving institution”. Questo significa che molti dei nostri allievi sono i primi della loro famiglia di lavoratori ad andare all’università. Forse alcuni di loro sono figli o nipoti di uomini e donne che hanno passato la vita intera a raccogliere barbabietole o lattuga. Questo significa anche che molti di loro fanno uno o due lavori per mantenersi, pagare l’affitto e le tasse universitarie e aiutare le loro famiglie. La pandemia li ha colpiti con particolare violenza. Ma non mi sorprende che, nonostante affrontino dei problemi enormi –molti hanno perso il lavoro e altri si vedono minacciati dallo spettro della strada–, continuino a stare sul piede di guerra, seguendo le lezioni tramite una piattaforma digitale, organizzata in fretta e furia e in modo molto efficiente dall’università. Non stiamo, di certo, inventando la ruota ma un sistema più flessibile sì, soprattutto per ciò che riguarda gli orari delle lezioni, per facilitare la loro partecipazione. Non so se diventeranno autori ma scrivono in spagnolo e lo fanno in modo creativo, riversando nei loro testi la visione di mondi condivisi nei quali si intravedono critiche contro lo statu quo, tanto degli Stati Uniti quanto dell’America Latina, così come altre possibili strade future. Sofía scrive di una giovane ginnasta che non si arrende mai; Rony, di un generale che respinge attivisti in Centroamerica; Jessica, di alcuni gemelli che devono abituarsi a convivere serenamente; Alan, di un calciatore che, dopo aver accettato che la sua squadra ha perso una partita di calcio, comincia a prepararsi psicologicamente per la stagione successiva; Linda, di una ragazza che finalmente riesce ad accettarsi; Jonathan, di una donna che organizza il suo ritorno in Chile. Non ci sono delle morali nei loro racconti, e nemmeno reiterazioni di un’identità che le ha provate tutte, ma certamente ci sono tracce di un’esperienza ampia e critica che farà luce sul nostro futuro. Leggerli mi mantiene vigile. Vederli fare relativamente a ciò che scrivono mi mantiene attenta. Perché non è solo il contenuto del testo in sé quello che mi apre gli occhi, speranzosa, ma anche il modo in cui si confrontano gli uni con gli altri: l’attenzione nella lettura e l’accuratezza delle opinioni. Quella coscienza dello stato di vulnerabilità che condividiamo quando scriviamo un testo e lo presentiamo ad altri. Se questi giovani in serie difficoltà sono capaci di tanta responsabilità e di tanta attenzione, se sono capaci di dare così tanto di sé stessi in questo periodo così difficile, credo che siano capaci di riuscire in tutto. E allora posso dormire tranquilla.
Uno Stato fisico
Quando il campus dell’università in cui lavoro fece sapere che avrebbe esteso le vacanze primaverili, per prepararsi così al passaggio all’istruzione telematica e anche per prendere altre misure contro la trasmissione del coronavirus, capii che la cosa si stava facendo molto seria e ci avrebbe colpiti presto. In quel momento stavo passeggiando con mia madre, una donna di 76 anni in buona salute, per le strade del quartiere in cui viviamo, a Houston. Ero andata un po’ più avanti per leggere il comunicato sul mio cellulare e, quando finii, mi girai a guardarla. Avanzava con quei grandi passi che le sono permessi dalle sue gambe lunghe. Aveva la testa bassa, per fare attenzione alle irregolarità della strada ed evitare di cadere. Mi ero già abituata a quelle passeggiate quotidiane, durante le quali, con la scusa del fattore salutare, chiacchieravamo di tutto. Mi sarebbe mancata, senza dubbio, ma glielo dissi immediatamente: “Deve ritornare in Messico” (io, da buona frontaliera, a mia madre parlo con il lei). La decisione fu immediata e la ragione, semplice: in quanto turista, mia madre non aveva l’assicurazione medica che le avrebbe permesso di essere curata in ospedale in caso di malattia. Senza questo documento sarebbe stata rifiutata, come succede a moltissimi altri, all’entrata di qualsiasi struttura sanitaria. Questo significa vivere in un paese che manca di un sistema sanitario pubblico e che insiste nel sostenere le grandi aziende farmaceutiche e non la salute dei suoi cittadini. Siccome lei è stata, per buona parte della sua vita, un’impiegata della Universidad Autónoma del estado de México, gode di una pensione molto modesta ma che comprende servizi sanitari che, fino ad ora, sono stati fondamentali per la sua vita da persona anziana. Le tre operazioni che ha subito, per salvarsi da un aneurisma, sono state eseguite, per esempio, nell’Hospital de Neurología con una premura di insuperabile eccellenza, per le quali non ha dovuto sborsare neanche un peso. Ma qui, da questo lato della frontiera, mia madre avrebbe condiviso il destino inconsistente delle migliaia e migliaia di abitanti di questo paese che, per curarsi, devono ricorrere, troppo frequentemente, a rimedi casalinghi e, quando possibile, a farmaci che qualche parente o amico porta dal Messico. Quante volte sono stata testimone dello scambio privato di vitamina B12, antibiotici o antistaminici; tutte medicine che non curano le cause delle malattie ma che offrono sollievo a corpi che non possono permettersi il lusso di smettere di lavorare, neanche per un giorno. Mia madre mi diede ragione e agimmo immediatamente. In un solo giorno, sbrigammo i preparativi necessari perché potesse ricongiungersi con le sue sorelle alla frontiera prima di partire. Due giorni dopo, salì a bordo di un aereo che la portò nella capitale di un paese in cui, nonostante tutto, lei è più al sicuro. Le cifre hanno dimostrato che il COVID-19 non solo attacca con una peculiare aggressività gli anziani, ma anche popolazioni precarie e minoritarie, in particolare quelle che non possono coprire le spese di un’assicurazione sanitaria, e per le quali un contagio equivale ad una sentenza di morte. Come una grande lastra a raggi X, la decelerazione dovuta alla pandemia permette di osservare, o addirittura mette in evidenza, quello che è accaduto qui: un sistema economico governato dal profitto alle spese di tutto il resto e uno Stato inconsistente, ossia, uno Stato per il quale i corpi non sono organismi da preservare ma oggetti di mero sfruttamento. La cosa peggiore che ci potrebbe accadere, argomentava convincentemente Arundhati Roy, è ritornare a quella normalità selvaggia; ed io aggiungo: a questo mondo immisericordioso che, preso dall’incantesimo malvagio dell’incorporeità, è incapace di riconoscere i legami di reciprocità che ci uniscono agli altri e alla terra. La coscienza inevitabile di una vicinanza materiale con gli altri viene unita all’angoscia e all’inquietudine, ma anche alla potenzialità. Un altro mondo è possibile: questo ci dice chiaramente la vita, quando si impone sulla pandemia. Allora sarà possibile, dopo tutta questa esperienza con la malattia, abbattere una volta per tutte questa normalità inconsistente ed essere testimoni, allo stesso tempo, della nascita di uno Stato fisico? In altre parole, come riusciremo ad esigere che lo Stato si assuma la propria responsabilità di proteggere la salute della popolazione mentre, simultaneamente, intessiamo relazioni profonde, cioè, gesti d’affetto e di unione che partano dalla totale ammissione del fatto che siamo corpi e abbiamo bisogno di cure, che siamo anche in grado di offrire? Mi sembra chiaro che, almeno negli Stati Uniti, questa lotta è iniziata ed è profondamente connessa all’assenza di un sistema sanitario pubblico che, non esistendo, ha condannato ad una morte certa e quotidiana un gran numero di lavoratori, soprattutto quelli che, essendo indispensabili –e ora la pandemia ha comprovato questo status–, continuano ad essere considerati clandestini da questo governo incompetente e genocida. In questo senso, la lotta per un sistema sanitario pubblico e la lotta per una riforma migratoria sono in realtà la stessa cosa, entrambe si incentrano, innanzitutto, sull’ammissione fondamentale del fatto che siamo corpi e, conseguentemente, sul fatto anch’esso fondamentale che, in quanto corpi, dipendiamo gli uni dagli altri in contesti ecologici gravemente alterati. Le misure speciali –richieste per la salute pubblica che appartiene allo Stato– non si contrappongono, ma anzi sono complementari, alle misure essenziali, quotidiane, di lavoro comune, dalle quali dipende la fine della dannosa alleanza tra lo Stato e gli enti farmaceutici. La pandemia, che ci ha aiutato a vedere chiaramente il volto duro del nostro tempo, non creerà da sola le relazioni profonde –corporee, con altri, in connessione materiale con le nostre comunità–che ben potrebbero porre le basi per una realtà altra. Faremmo bene a prestare attenzione alle domande alle quali ci porta la ri-materializzazione, e che essa stessa rende inevitabili. Dalle loro risposte dipende l’inizio della fine dell’indolenza. E questo è già qualcosa.
[Immagine: il ponte “Be Someone” sopra la I-45 South di Houston, ridipinto con la scritta “WashUrHands”].