a cura di Massimo Gezzi
[Quinta puntata della rubrica a cura di Massimo Gezzi, costituita da una serie di interviste a insegnanti-scrittori e scrittrici sulla difficoltà (ma anche sulla bellezza) di insegnare la poesia e la letteratura a scuola oggi, sulla relazione tra il mestiere di scrittore e quello di insegnante e sul senso di questa professione. Dopo Fabio Pusterla, Francesco Targhetta, Marco Balzano e Marilena Renda, oggi risponde Gian Mario Villalta].
1) Per prima cosa, per contestualizzare quanto stiamo per leggere, che contratto hai, quanto e dove insegni?
Sono insegnante a tempo indeterminato (una volta si diceva “in ruolo”) in un liceo che ha diversi indirizzi; insegno allo scientifico italiano e latino, al triennio, da decenni. Da 8 anni sono a mezzo servizio (part time verticale) in ragione degli impegni relativi al festival pordenonelegge.
2) Ho intitolato un recente contributo apparso sull’«Ulisse» Una visita allo zoo. L’idea nasceva da una riflessione sui programmi e sulla pratica didattica tipica del liceo ticinese (quello in cui insegno), ma forse, per buona parte, anche di quello italiano: a scuola trattiamo prevalentemente poesia e autori che scrivono in versi, mentre la società contemporanea e il pubblico dei lettori italiani seguono e leggono – se li leggono – quasi esclusivamente scrittori in prosa (soprattutto romanzieri). Come mi capita talvolta di dire ai ragazzi e alle ragazze, i poeti somigliano sempre di più ad animali in via di estinzione o esotici relegati in uno zoo (la scuola, l’aula) e affidati a dei custodi (gli insegnanti). Senza questo recinto istituzionale, la poesia tutta – anche quella altissima: poniamo Dante, Leopardi, Montale – avrebbe ben poche chances di essere letta dalle nuove generazioni. Sei d’accordo con questa diagnosi? Anche a te, qualche volta, è sembrato di lavorare in un zoo?
Ai miei colleghi, e non solo ai giovani – come forse si penserebbe – che affermano come se fosse un merito di non essere interessati alla poesia e di non “capirla”, chiedo provocatoriamente perché hanno scelto questo mestiere, dato che quello che devono insegnare è soprattutto poesia e, mi si permetta, quella poesia italiana che annovera almeno una decina di capolavori mondiali. Detto questo, c’è un insegnamento antiquato/antiquario della letteratura fino alla fine dell’Ottocento (quale letteratura infatti si può conoscere senza che l’indirizzo dell’interpretazione venga dalle domande del presente?). Quando si passa al Novecento è un disastro: regna la confusione già nei libri di testo. Il risultato è che i programmi d’esame si fermano in buona sostanza alla triade Ungaretti, Montale, Saba, con l’unico risultato di aver sostituito Saba a Quasimodo (piacciono le triadi) rispetto agli autori che io stesso ho portato all’esame di maturità nell’anno scolastico 1977/1978: Ungaretti, Montale e Quasimodo.
3) Quando insegni e leggi poesia in classe, ti è mai capitato di sentirti inefficace, goffo o controproducente? Se sì, cosa genera questa sensazione, secondo te?
Per fortuna ci sono le opere! Ho imparato a scegliere dei versi per iniziare a presentare un autore. Prima di tutto un testo. E su quello cominciare a notare ciò che è notevole, a confrontare un tema, una sensibilità, la forma dell’espressione con la nostra possibile risposta attuale. A volte l’efficacia è maggiore, a volte invece il testo resiste alla presa, ha bisogno di molte informazioni che fanno perdere il contatto con le parole che si hanno sotto gli occhi. È difficile la concentrazione su un testo che ha bisogno di far percepire molti livelli espressivi, i ragazzi sono abituati a una comunicazione che punta subito al bersaglio grosso. A volte ci si sente, è vero, inadeguati, ma credo che valga anche per altre materie di insegnamento.
4) Che relazione c’è tra la tua esperienza di scrittore e quella di insegnante? È un rapporto unidirezionale o bidirezionale?
Direi che il rapporto è sicuramente bidirezionale. Gli studenti mi insegnano molto sul tempo attuale. E la riflessione costante sui classici, in un certo senso “obbligata” dall’insegnamento, porta molta acqua al mulino della mia personale scrittura. Tengo sempre presente che il mio lavoro si svolge nell’arco di tre anni, così posso costruire un rapporto personale che si lega allo studio delle materie, sia con i singoli che con la classe (sono due cose diverse).
5) Leggi poesia e letteratura contemporanea, con i tuoi allievi? Raccontami un aneddoto a proposito di un testo, un autore o un libro.
Lavoro in una buona scuola, viva, dove si sviluppano interessi. Qualche tempo fa, tu lo sai, con l’amico e collega poeta Roberto Cescon abbiamo proposto una rubrica on line: I poeti sono vivi. Ogni mattina sul sito della scuola viene postata una poesia di un poeta non solo contemporaneo, ma vivente. E c’è l’accordo, tra colleghi di lettere, di segnalare, o di leggere senza commento, la poesia del giorno. Funziona a singhiozzo, ma intanto c’è. Mi capita di leggere poesie di oggi in classe, per l’argomento (che magari stiamo trattando) o perché la giornata ha preso una piega particolare. Siamo dotati di computer e proiettore in aula, perciò diventa tutto più facile. Gli episodi potrebbero essere molti, più di una volta (ma non spesso) mi è capitato che il giorno dopo – o qualche giorno dopo – una studentessa o uno studente mi abbiano portato un loro componimento “alla maniera di”, colpiti dal testo che avevamo letto insieme.
6) Credi che la scuola, nella sua organizzazione attuale, possa essere un punto di riferimento per i ragazzi e le ragazze che amano leggere e scrivere? Tu sei uno scrittore: riesci a seguire e a stimolare i ragazzi e le ragazze cui piace scrivere?
Non ne vedo altri, sinceramente. Abbiamo una biblioteca a scuola, abbastanza aggiornata, e in biblioteca un pomeriggio la settimana si incontravano (prima del coronavirus) un gruppo di studenti/poeti. È una piccola tradizione dell’Istituto. Fanno da soli, però a volte qualcuno di noi va a fare una chiacchierata con loro.
7) In articolo provocatorio e fluviale uscito su LPLC2 il 1 luglio 2019, Mauro Piras, stufo delle semplificazioni e delle dinamiche che inevitabilmente si innescano durante l’esame orale di maturità, proponeva – chissà quanto seriamente – questa soluzione:
Per dieci anni fare pulizia di tutte le formulette […]: divieto di trattarle e divieto di ripetere quelle formule, scomparsa dei manuali per decreto o per estinzione commerciale. Obbligo per i docenti di fare le loro discipline letteratura inglese filosofia arte scegliendo qualche testo autore che amano, leggendolo insieme agli studenti e da lì conversando. Senza interrogare. Anarchia, senza metodo. Per prendere aria. E poi, tra dieci anni, vedere che cosa ne è uscito fuori.
Forse è impraticabile, ma che ne pensi, da insegnante?
Si è tentati, sì, tutti siamo tentati in quella direzione. Ma la scuola si tiene insieme anche per la ritualità, la ripetizione, l’esercizio. Se devo dirti la verità, non mi illudo di formare una classe di liberi geni creativi; fare in modo che si diplomino sapendo comprendere bene un testo scritto e sapendo a loro volta scrivere un commento adeguato è il mio traguardo. E poi, certo, offrire attenzione e cercare libertà, cogliere la natura generativa della letteratura, ma senza dimenticare che la scuola è per tutti e allo stesso tempo deve ottenere dei risultati riscontrabili. Mauro Piras ha ragione (eccome se ha ragione!) quando mette il dito sulla piaga di quello che è il male peggiore: spesso si imparano a memoria le formule critiche e addirittura le note a pié di pagina e non si gusta una parola del testo. Questo è un punto importante: tutte le informazioni utili a comprendere meglio una pagina di letteratura come un’intera opera vanno messe al servizio dell’effetto che quella pagina, quell’opera fanno su chi la legge. E l’insegnante, con la poesia, con tutta la letteratura, deve esporsi, essere sincero, mostrare che quell’effetto c’è. Se nessun effetto quelle pagine gli hanno mai fatto, perché allora la scelta di quel mestiere?
8) Ultima curiosità: fai l’insegnante anche perché hai avuto un bravo o una brava insegnante, da qualche parte nel tuo percorso?
Ho avuto degli insegnanti (pochi) che ho stimato e ai quali ho anche voluto bene, altri (molti) decisamente inadeguati. Però è vero che lo capisci quando sei a scuola se insegnare è qualcosa che ti piacerebbe fare o no. Alla fine del liceo sapevo che avrei studiato letteratura, sapevo che avrei scritto poesie, sapevo che avrei insegnato… tutto come meglio avrei potuto.