di Marianna Comitangelo

 

Ciò che manca a molti narratori italiani di oggi è forse una solida coscienza estetica e intellettuale, e il coraggio di scandagliarne gli abissi, con tutti i rischi del caso. È vero che l’ipercoscienza può essere un deterrente alla creatività, ma non esiste un talento narrativo privo di una vasta, complessa, personale visione del reale. Sono d’accordo con Fofi quando afferma che per essere grandi scrittori bisogna essere innanzitutto grandi intellettuali (anche se esserlo non è una condizione sufficiente). E non mi sorprende che lo dica a proposito di Siti in una recensione al suo penultimo romanzo, Bruciare tutto, libro magmatico, ricco al tempo stesso di logos e di pathos, di pieghe rischiose per chi legge e chi scrive. Ma lì l’equilibrio tra intelligenza narrativa e passione analitica era sbilanciato, a mio avviso, a favore del secondo termine. Il diagnostico dei vizi e dei mali della società italiana aveva non di rado la meglio sul narratore, che deve sacrificare, ai fini di una maggiore armonia compositiva, una parte del suo materiale di inchiesta e delle sue osservazioni, o lasciarli filtrare attraverso i personaggi, il loro modo di parlare, di muoversi nel mondo, di entrare in relazione fra loro. La natura è innocente appare invece da subito un libro più sciolto, ritmicamente impeccabile e linguisticamente agile. La storia sembra essersi scritta da sé. Incalza senza intoppi nel racconto disteso e lineare degli eventi. Siti integra al meglio gli inserti sociologici, antropologici e psicologici, che rivelano una delle sue cifre migliori, quella di critico della cultura e dei costumi. Riesce a dosare sapientemente la sua presenza, tessendo le fila del racconto e al tempo stesso scomparendo per “far parlare le cose” (e le persone). Eppure, egli c’è fino in fondo, forse più che altrove, come dichiara nell’epilogo del libro, dove scopriamo che ha “appaltato” ai due protagonisti la testimonianza degli aspetti più oscuri e controversi della sua vita. Ma di questo dirò più avanti.

 

Si può leggere La natura è innocente in molti modi: come biografia romanzata, come testimonianza del rapporto irrisolto tra letteratura e verità, come tesi che ha per oggetto l’incolpevolezza della natura, nel cui dominio è assente il concetto di responsabilità e quindi di colpa, come testamento morale e intellettuale. Sono solo alcuni degli strati che compongono un romanzo che appare a prima vista semplice nella forma, ma che rivela, pagina dopo pagina, la sua grandiosa complessità (anche formale). È a questa complessità che Siti è sempre rimasto fedele per scelta e per vocazione, non risparmiando a se stesso alcuno dei dilemmi e dei drammi che l’opera letteraria pone in essere nel suo incontro con la realtà.

 

Il primo dilemma riguarda appunto il rapporto tra letteratura e verità. Credo che questo problema attanagli qualsiasi scrittore “impegnato” e presieda a qualsiasi operazione artistica, condizionandola, trasformandola, depurandola e a volte persino impedendola. Porsi il problema della verità significa porsi un problema sia estetico che morale. Chi sceglie di assumerselo accede a un orizzonte conoscitivo certamente più vasto, ma al prezzo di una riduzione delle possibilità narrative, degli strumenti linguistici e stilistici. Si è consapevoli che per dire ciò che si vuole dire, nel modo in cui lo si vuole e lo si deve dire, bisogna scartare una serie di mezzi che non rispondono al fine desiderato o si rivelano in contraddizione con esso.

 

«Odio la “verità dei fatti”: se i fatti non fanno tremare, stanno a disposizione di chi grida più forte»[1] (e fanno tremare al punto che molti romanzi di Siti si trasformano in “casi”). L’affermazione estremistica (e pericolosa) sollecita allora una domanda: quale verità insegue lo scrittore Walter Siti? Prima di tutto una verità estetica, che entra in conflitto con la verità dei fatti chiedendone il sacrificio. L’immaginazione ha le sue pretese e la sua ragion d’essere. «Bisogna difendere i diritti della fantasia avventurosa», afferma Siti nella nota finale, e per farlo occorre «moltiplicare le deviazioni dal vero»,[2] affinché il racconto sprigioni una sua profonda verità intrinseca. Perché un gesto, un nome, un fatto inventato possono contribuire a rendere significativa una vicenda umana più di quanto non faccia la realtà riprodotta alla lettera. Solo attraverso la trasfigurazione letteraria è possibile cogliere quelli che Sciascia chiamava i «fantasmi dei fatti», importanti almeno quanto i fatti stessi.

 

Sapere fin dall’inizio che il romanzo-verità non esiste e che «la verità ha a che fare con la scienza e la giurisprudenza, non con la letteratura né con la vita»,[3] significa rinunciare a una garanzia fondamentale, quella di autenticità. Lo scrittore non può servirsi di questa copertura, ma deve confrontarsi con una materia sfuggente, recalcitrante, irriducibile, sapendo di dover giocare la sua partita unicamente nell’esile discrimine esplicitato nel sottotitolo: «due vite quasi vere». È nel “quasi”, nell’agone incerto tra realtà e finzione, che si addensa tutta la verità possibile della scrittura letteraria. Chi abbia consuetudine con la narrativa sitiana, ha forse imparato a dialogare con i suoi demoni. Il «demone» – ha detto l’autore in una intervista – «è quell’elemento che insinua la contraddizione, che mostra come ogni cosa ha in se stessa il suo contrario».[4] Stare nel vero vorrà dire allora provare ad abitare la contraddizione.

 

Come lettori, si ha da subito l’impressione che non ci sia nulla di prestabilito, che l’impresa potrebbe concludersi con uno scacco. Riuscirà l’autore a raccontare le vite di Filippo Addamo e Ruggero Freddi rinunciando all’onnipotenza demiurgica dell’inventore di storie e al tempo stesso allontanando la naturale diffidenza del lettore rispetto a ciò che è ibrido, sia vero che falso? Il patto di fiducia non è posto da subito, ma si dovrà costituire poco alla volta. Siti non è, non vuole essere uno scrittore che offra certezze consolatorie. Sta nel magma della realtà insieme ai suoi lettori. Li “sopravvaluta”, li tratta come lettori al quadrato, rispettandone l’aspirazione al dubbio, il desiderio di pensare e di capire. In questo senso crede nella letteratura. Pretende molto da essa e da chi la frequenta. L’incontro non può che essere spossante. «La sofferenza è la vera origine della coscienza», afferma il protagonista dei Ricordi del sottosuolo di Dostoevskij. Nell’intervista già citata, Siti allude al demone che assedia la mente di Ivan Karamazov conducendolo alla follia. Quando si ha a che fare con i demoni è difficile dire come andrà a finire. Lo scrittore sa, prima ancora di imbarcarsi nell’impresa, che può restare vittima delle contraddizioni con cui ha accettato di fare i conti.

 

La natura non è benigna, non è matrigna: è innocente. E le catastrofi naturali che si abbattono sull’umanità inerme e inconsapevole? E il più forte che annienta il più debole? Non è anche spietata la natura, che nutre i suoi figli per poi ucciderli (Leopardi)? La tesi di Siti è che la natura “natureggia”, ha le sue leggi, è indifferente alle vicende umane. Non è colpevole perché non ha libertà di scelta. Colpevoli sono gli uomini, che conoscono il bene e il male e sono “liberi” di agire in una direzione o nell’altra. Queste e altre riflessioni sono consegnate all’Intermezzo vulcanico, un vero e proprio inserto saggistico che divide in libro in due parti e ne porta in superficie le idee, come se l’autore sentisse il bisogno di chiarire i motivi intellettuali impliciti nelle vicende che narra, di vestire anche i panni del critico di se stesso. Non posso però trattenermi dall’esprimere un dubbio rispetto al significato del titolo. Un po’ manicheisticamente, se è colpevole chi opta per il male e innocente chi opta per il bene, perché la natura, che non ha libertà di scelta, deve essere considerata innocente? Ignora il male ma anche il bene. A meno che il concetto di innocenza non sia preso nel suo significato propriamente cristiano, cioè di condizione anteriore alla colpa, quindi alla conoscenza della differenza tra bene e male. In questo senso, dopo il peccato originale, tutti gli esseri umani sono colpevoli. Ma bisogna anche dargli il beneficio dell’innocenza, altrimenti sarebbero privati della facoltà di scegliere. L’essere umano non è puro, ma può essere innocente. Mi sembra che nei libri di Siti il bene non sia altrettanto reale come il male. La mia è una constatazione, non un giudizio di valore. La sua narrativa restituisce intatto il suo nichilismo, il suo dichiarato odio per la vita (che credo vada distinto dall’odio verso i singoli esseri umani). Si situa nei territori del negativo e della negazione. È tutto un continuo precipitare in vuoti di senso e risalire alla ricerca di certezze che si negano. Quelle che si lasciano afferrare sono le false certezze, le false verità ultime che garantiscono la sopravvivenza. La disperazione dell’autore e quella del narratore quasi coincidono. In questo sappiamo che Siti “finge” senza mentire. Se, come dice Gianluigi Simonetti in un’attenta lettura di Bruciare tutto, «i romanzieri sono abituati a studiare e a documentarsi, per descrivere personaggi e ambienti di cui vogliono scrivere»,[5] è pur vero che i personaggi sono figli del loro autore e recano impresso, ognuno a suo modo, il sentimento del reale di chi li ha generati. Sì, l’ateo Walter Siti si è cimentato nell’impresa di dar vita a un personaggio a lui estraneo come quello del prete, ma potremmo forse negare che don Leo abbia qualcosa in comune con l’autore? Non è un prete qualsiasi. Ha un rapporto conflittuale, persino nevrotico con Dio. Provoca, disturba, aggredisce, non assolve, disprezza i «cristiani di pastafrolla».[6] L’autore stesso ha dichiarato in una intervista che ciò che lo affascina del cristianesimo è il suo radicalismo. Ecco allora un cristiano che incarna a suo modo (cioè con tutti i limiti del suo carattere) questo paradigma. È inoltre difficile separare l’autore da certe cogitazioni messe in bocca a don Leo, di cui faccio seguire un esempio:

 

Di un articolo su «Micromega» gli è rimasta impressa una definizione, “esoscheletro di storie”; che intendeva l’autore? Forse che gli uomini ormai sono invertebrati, colpiti da troppi messaggi, e i giornalisti gli forniscono dall’esterno (a forza di storie, appunto) l’individualità perduta. Altro che cani da guardia della democrazia, il giornalismo ormai serve per confermare e per distrarre; la voga dei tweet e di altre diavolerie darà sempre di più la parola ai peggiori, e spingerà i migliori a parlare senza riflettere. La riscossa dei ciarlatani. Amo i singoli, come si deve, ma non quello che fanno quando si coagulano in una massa. Le sempre più numerose masse “digitali” sono un mostro che esige una cronaca sempre più esorbitante, frenetica, in una post democrazia irrimediabilmente chiusa a ogni istanza superiore. L’abolizione del segreto non conduce alla correttezza ma alla gogna. Il perbenismo progressista è il “panem et circenses” del nuovo millennio: ora mi alzo, urlo e mi alzo.[7]

 

Un capolavoro fulmineo di critica culturale, di cui i romanzi di Siti offrono un vasto campionario.

Posto che uno scrittore ha il diritto sacrosanto di esprimere la propria visione delle cose, pessimista, ottimista o nichilista che sia, non mi persuade quanto scrive Simonetti a proposito della nostra «civiltà ossessionata dal bene e dalla correttezza morale e politica».[8] Se il nostro paese, la nostra Europa sono come li descrive Simonetti, l’umanità è salva. Ma credo che qui si confonda il bene con quello che Simone Weil chiamava giustamente il «falso bene». La nostra civiltà ha un’idea distorta, ipocrita, confusa del bene. Scambia per bene i prodotti contraffatti del male. Sembra che questa parola evochi in automatico atti, situazioni, discorsi politicamente accomodanti, buonisti, ipocriti. Se è così, parliamo di una caricatura del bene, creata ad arte per nascondere le difficoltà con cui esso costringe a misurarsi. Manca da tempo, forse dagli anni Settanta, una riflessione individuale e collettiva sulle due grandi categorie della morale. Anche il male può essere retorico e la trasgressione conformista (per fortuna questo non è il caso di Siti). Discuterne non è tempo sprecato, come mi sembra di capire dall’articolo Simonetti, che attacca Michela Marzano attribuendole pensieri oziosi che nulla hanno a che fare con la letteratura. Da sempre gli scrittori si sono confrontati con il problema del bene e del male, con la minuscola o con la maiuscola. I critici non devono? Sono bacchettoni se lo fanno? Dipende da come lo fanno.

 

Siti è un moralista nel senso classico della definizione. Dei suoi romanzi mi ha sempre interessato questo aspetto, che dipana le riflessioni sulla colpa, sulla libertà, sul modo di vivere e di pensare degli individui. È un moralista anche in quanto critico di una cultura plasmata da un furore edonistico che ha spianato la via a vent’anni di berlusconismo. Quella descritta da Siti è una società in cui «l’amoralità» è diventata un «dato neutro»,[9] in cui bene e male sono fungibili. Prendiamo il matricidio: non è tanto l’immoralità del gesto a sgomentarlo, ma l’atteggiamento amorale di chi riesce a “rifarsi una vita”, a tornare alla normalità, dopo aver ucciso la propria madre. Se il gesto terribile di Filippo può essere spiegato, restano incomprensibili l’oblio, il blando senso di colpa, la nostalgica idealizzazione della persona perduta, la fuga dalla coscienza. L’anima brucia le tappe per raggiungere la tanto agognata liberazione dal dolore ed è maestra di scorciatoie, nascondigli, salti all’ostacolo. È più che fondato «il sospetto che ormai si viva tutti, Filippo compreso, in una “civiltà del sorpasso” in cui gli eventi tragici sono macinati in una spirale di comunicazione, ablazione e velocità – tutto si supera, tutto si dimentica in un “che altro viene poi adesso?”. La musa del nostro tempo è la distrazione».[10]

 

Ma l’assenza di moralità è il contrassegno di tutti i personaggi del romanzo, dei giovani come dei vecchi, dei poveri come dei ricchi. Agiscono in preda agli istinti e ai propri interessi individuali. Sono vittime che non si esimono dall’essere anche carnefici. Aver subito un torto o un’ingiustizia è il pretesto per rivendicare di stare dall’altra parte, dalla parte di chi li infligge. Non si esce dai rapporti di forza, la relazione è prevaricazione.

 

Laddove la morale agisce, si trasforma in delirio equivoco e nevrotico, come nel caso di don Leo, il prete protagonista di Bruciare tutto. La forza dei suoi diktat morali è direttamente proporzionale a quella dei suoi desideri proibiti. Desiderio e repressione si alimentano a vicenda. Nessuno mai, prima di Siti, aveva rappresentato con tanta intensità la tragedia del desiderio condannato a essere negato e nella negazione a trovare la sua linfa migliore. Quello della morale è campo minato… Leo Bassoli è un pedofilo che non ha mai assecondato i suoi desideri, meno una volta che ha segnato per sempre la sua vita. A ventun’anni, quando era in seminario, ha avuto ripetuti rapporti sessuali con un ragazzino di undici. Da allora non ha mai smesso di tormentarsi l’anima e il corpo. Il caso (il “diavolo”) vuole a un certo punto che Leo affronti la prova della sua vita. Quando Andrea, un bambino di dieci anni, gli dice che l’ama e gli chiede se può toccargli il pene, sembra che finalmente si presenti l’occasione per il prete di mostrare a se stesso di avere saldato il suo debito. Leo infatti non cede, e ne è fiero, ma cade poco dopo in un baratro più profondo: Andrea si suicida e Leo si convince del fatto che sia stato il suo rifiuto a indurlo al terribile gesto. Crede che il suo moralismo ipocrita e autocompiaciuto abbia condannato il bambino, che voleva ricevere un gesto di affetto e considerazione, a una sorte peggiore. Cosa avrebbe dovuto fare Leo? Il suo destino non gli avrebbe probabilmente concesso di fare altro, ma il suo imperativo categorico, fonte di inenarrabili supplizi, gli ha impedito di capire che sarebbe bastato trattare affettuosamente il bambino per cambiare il finale della storia. Apro ancora una parentesi sulla verità dei fatti, stando alla quale è assai improbabile che i bambini si suicidino. Ma in nome della verità estetica Andrea deve togliersi la vita affinché la vicenda di Leo si trasformi in destino. Il monologo del bambino è l’irrisione involontaria e micidiale della sicurezza del prete, della sua patetica illusione di aver vinto la sua battaglia e anche, soprattutto, della sua incapacità – come scrive Matteo Marchesini – di «liberarsi del suo io».[11] «Ho considerato la salvezza della mia miserabile anima più importante del tuo ancora aperto futuro»,[12] afferma Leo. L’ambiguità della morale può essere atroce, in questo caso addirittura mortale.

 

Anche La natura è innocente solleva problemi cruciali, e il merito di Siti è quello di indagarli senza emettere sentenze definitive. Investiga, raccoglie indizi, li compone ad arte in complessi mosaici, ma lascia giudicare al lettore. Il matricidio è uno dei temi forti. L’altro è il rapporto tra il sesso e il denaro, inteso come potere, ricchezza, successo. Entrambi possono essere però ricondotti a un’origine comune, che Siti individua nel capitolo conclusivo, forse il migliore commento che il libro avrebbe potuto ricevere. La matrice è il vitalismo. Ruggero e Filippo sono così affamati di vita che dissipano se stessi nel tentativo di possederla. Sono due incontinenti. Ruggero preferisce la carriera di pornoattore a quella di ingegnere perché disprezza la “banalità” del quotidiano. Aspira alla popolarità, vuole essere ricco, fuoriuscire definitivamente dall’anonimato esistenziale, fatto di solitudine e povertà, che ha contraddistinto la sua prima giovinezza. Filippo è un ragazzo di vita cresciuto nella provincia siciliana. Tutto nella sua vita fila liscio finché la madre non scappa via di casa con un suo amico (di Filippo). Sulla famiglia si abbatte il fantasma della vergogna e Filippo è deciso a vendicare il torto subito, come figlio amatissimo e poi “tradito”, come maschio, come uomo d’onore. La sua irrequietezza caratteriale si trasforma in smania adrenalinica che ha come solo obiettivo quello di aggiustare le cose nel modo più radicale possibile: uccidere la madre, radice di ogni male. La liberazione passa da lì. Filippo è figlio della sua cultura, che nega il diritto di esistere a chi viola le sacre leggi della tribù, soprattutto se a farlo è una donna. Non c’è compassione da parte di nessuno per Rosa Montalto, una delle rare figure femminili “a tutto tondo” dei romanzi di Siti. Il suo con le donne non è un problema letterario da poco. Esse rasentano spesso la mediocrità morale e intellettuale. Sono poco interessanti sia nel bene che nel male. Fanno atmosfera culturale, sociologica, antropologica. Non palpitano di vita vera. Rosa Montalto rappresenta il primo autentico sforzo da parte di Siti di mettersi nei passi di una donna: «Se cerco di penetrare dove non posso, nell’anima di Rosa ormai inaccessibile, mi sento come uno scimpanzé che si sforzi di aprire una scatola di metallo chiusa ermeticamente».[13] Anche Rosa è una persona in fondo mediocre, ma rispetto ad altre precedenti comparse femminili, ha meno l’aria di un esemplare caratteristico di un genere determinato. Non è uno stereotipo. Siti si è prodigato per conferirle una tridimensionalità umana. Eppure questo mi lascia soddisfatta a metà. Mi dispiace che uno scrittore con la sua brama conoscitiva (caso raro) non abbia saputo concepire figure femminili indipendentemente dal loro ruolo di madri, di mogli e di amanti. Non che nei confronti di quelle maschili l’autore sia stato più condiscendente. Ma è generoso nella misura in cui ne perlustra la psiche in lungo e in largo, senza sottintendere o presumere nulla.

 

Nei romanzi di Siti anche i luoghi prendono corpo, non sono semplici sfondi. Roma e la provincia catanese rappresentano due mondi diversamente violenti, uno per assenza di confini, l’altro per essere, al contrario, rigidamente delimitato. La capitale è anche uno dei set di Bruciare tutto. Don Leo, prima di fare sesso con Massimo, pensa tra sé: «Roma è una licenza, un nullaosta, se non lo faccio qui non lo farò mai più».[14] Non conosco altre città che, come Roma, facciano sentire isolati e centrali, impotenti e onnipotenti al massimo grado. Due facce della stessa medaglia. Molti fattori concorrono a darle questo primato: l’illusione di grandezza che sopravvive nell’immaginario collettivo, il lassismo morale, che preserva inalterato lo status quo, una sorta di tetra anarchia (molto diversa, per esempio, da quella di Napoli) che sdogana ogni vizio, ogni forma di aggressività, e che dà la sensazione deprimente che nulla si possa fare per evitarli. Uno degli aspetti più interessanti e convincenti del libro riguarda il conflitto tra le classi sociali. Non bisogna dimenticare che esiste, oltre a una Roma borgatara in perenne trasformazione (oggi non esistono più le borgate di Pasolini), anche una Roma aristocratica perfettamente conforme all’immobilismo che opprime la città da decenni. Si tratta di una piccola enclave che divide il mondo in “noi” e “loro”: noi nobili e loro plebei. La loro sopravvivenza si fonda sul principio della distinzione e della separazione, con la fisiologica conseguenza dell’elogio e dell’apologia delle disuguaglianze. All’apice della sua carriera di pornodivo, Ruggero è contattato dal principe Giovanni del Drago, ormai settantenne, ma affetto anche lui dal morbo del vitalismo. È un incontro paradossale, e ancora più paradossale è l’unione che ne nasce. Cos’hanno i due in comune? Nulla. Ma ognuno si sente mancare di qualcosa che l’altro può offrirgli. Per Giovanni Ruggero rappresenta un antidoto alla decadenza fisica, mentre a Ruggero il principe offre una possibilità di riscatto e di elevazione sociale («non ci vuole molto a capire che per quel ragazzo ipervitaminico il sogno della famiglia nobile è la sublimazione di un nido mai avuto»).[15] Ruggero arriva da escort nella casa del principe, una villa sontuosa nel rione Ludovisi, nei pressi di via Veneto, un tempo quartier generale del potere fascista, ed è subito avvinto al fascino misterioso di quel luogo così diverso da quelli a cui è abituato (forse anche nelle sue fantasie più estreme). Nel Romanzo del Novecento Debenedetti poneva l’accento sul «valore poetico, espressivo, creativo»[16] di certi luoghi letterari. A proposito del primo incontro tra Frédéric Moreau e Madame Arnoux nell’Educazione sentimentale di Flaubert, affermava che l’amore tra i due non sarebbe potuto nascere fuori da quella scenografia (il battello sul fiume). La villa di via Lucullo non è uno spazio fisico fungibile: è il motore di tutto. L’eleganza, l’ironia, il distacco superiore di Giovanni fanno il resto. Giovanni gioca abilmente con l’ambizione e il narcisismo ferito di Ruggero, il quale a sua volta vende cara la sua merce, calcola e contratta. Ciò non vieta che tra i due passino anche sentimenti di autentica tenerezza. Ma l’abilità di Siti è nel descrivere i rapporti di forza: entrambi sono consapevoli del potere che esercitano, anche se la cultura e il denaro di Giovanni ne fanno un naturale «predatore», almeno fino a quando la malattia non lo assoggetta alle cure (e alle richieste) del suo amante.

 

Ho cercato, in queste poche pagine, di delineare alcuni dei motivi narrativi e metanarrativi che emergono dal romanzo di Siti. Filippo e Ruggero si servono dell’autore per immortalare se stessi, e sono da lui “utilizzati” per battere sentieri ancora inesplorati. Siti è un testimone di testimoni che sceglie di testimoniare perché nel referto rispecchia se stesso: «Sommandosi, i miei due eroi hanno fatto quello che avrei voluto fare io. Uno come soggetto e uno come oggetto della frase: avrei voluto uccidere mia madre per essere libero di possedere tutti i pornoattori muscolosi del mondo».[17] Le pagine dell’epilogo sono tragicamente eloquenti e fanno di questo libro il primo consapevole prodotto di un nuovo sottogenere letterario: «l’autobiografia bifida e appaltata».[18] Ma, a ben guardare, Siti ha semplicemente reso esplicito ciò che sarebbe implicito in ogni romanzo, dandone un’altra possibile definizione, quella appunto di autobiografia appaltata. Bisogna chiedersi, tuttavia, se sia legittimo aggiudicare a persone reali, realmente esistite, il racconto di sé, in tal modo contaminando, adulterando quello delle loro vite.[19]

 

Note

 

[1] W. Siti, La natura è innocente, Milano, Rizzoli, 2020, p. 335.

[2] Ivi, p. 347.

[3] Ivi, p. 17.

[4] Matilde Quarti, La contraddizione del diavolo, intervista a W. Siti disponibile sul sito www.luz.it.

[5] Gianluigi Simonetti, Tre tipi di racconto. Su Bruciare tutto di Walter Siti. Seguito da Tre tipi di critica? Una postilla, www.leparoleelecose.it

[6] W. Siti, Bruciare tutto, Milano, Rizzoli, 2017, p. 85.

[7] Ivi, p. 170.

[8] Gianluigi Simonetti, commenti a Tre tipi di racconto, cit.

[9] W. Siti, La natura è innocente, cit., p. 330.

[10] Ivi, p. 270.

[11] M. Marchesini, Scoperte illuminanti in seconda lettura, «Il Foglio», 20 novembre 2017.

[12] W. Siti, Bruciare tutto, cit., p. 356.

[13] Id., La natura è innocente, p. 27.

[14] Id., Bruciare tutto, cit., p. 190.

[15] Id., La natura è innocente, cit., p. 233.

[16] G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1998, p. 40.

[17] W. Siti, La natura è innocente, cit., p. 333.

[18] Ibidem.

[19] Ringrazio Giacomo Pontremoli per il lungo confronto su alcuni dei temi trattati in questo articolo.

 

[Immagine: Particolare della copertina di La natura è innocente (Rizzoli, 2020)].

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