di Sergio Benvenuto

 

1.

 

“La prigionia ci riporta a un’orribile innocenza, all’irresponsabilità… Non è nostra la responsabilità di essere qui; ci stiamo perché non possiamo uscire. Che riposo per la mente!”

 

Così Sartre scrisse a Simone de Beauvoir il 26 ottobre 1939 (Oeuvres romanesques), fatto prigioniero in Germania durante la guerra. Confessa quel che per lui, filosofo della responsabilità assoluta, è inconfessabile: la dolce pigrizia mentale della prigionia. Dopo tutto, Sartre – il corifeo della libertà senza limite degli umani – ammetterà di non essersi trovato tanto male nello Stalag: non dover scegliere, non dover decidere, rende la vita più facile, più serena.

 

Mi viene in mente questa esperienza di Sartre parlando con analizzanti, o con amici e parenti, o anche con me stesso, delle varie settimane di clausura per il coronavirus. Per molti quegli arresti domiciliari furono un periodo che ormai ricordano con nostalgia, un intervallo di quel disagio sottotraccia, capillare, che accompagna la routine della vita libera. E questo anche se il periodo di lockdown è stato tempo di intenso lavoro, perché molti hanno continuato a lavorare on line. Anzi, di più intenso lavoro del solito (è il caso di chi scrive).

 

Il dover mangiare sempre a casa liberava dalla necessità di scegliere tra “stasera si mangia in casa o fuori?” e, nel caso della seconda scelta, “dove andiamo? Dal cinese che piace a P. o dal siciliano che piace a T.?” E poi la scelta del film e del cinema, del cinema o del teatro, del teatro o del caffè in piazza… Siccome durante il lockdown riunioni con parenti e amici si facevano on line, finita la ricerca di parcheggi, l’attesa di autobus o la talvolta frustrante chiamata di taxi. Coppie alquanto malconce nel periodo della clausura hanno ritrovato una nuova linfa, la sensazione di “aver vissuto insieme un periodo eccezionale”, come aver fatto la guerra da commilitoni o aver partecipato alle stesse barricate nel corso della Rivoluzione.

 

Quando si è dovuto scegliere con chi passare una quarantena senza limiti precisi, che poteva durare anche molti mesi, la scelta è stata per lo più – per una miracolosa saggezza del proprio inconscio – quella giusta: la quarantena è stato il momento della verità. E la verità disvelata dal lockdown sospende la confusione di scelte difficili e controverse tra due donne, tra due uomini, tra il figlio e i genitori, tra il padre e la madre e il fratello…. Chi ha scelto di passare il lock down da solo, ha scelto anche in questo caso il compagno giusto…

 

Una mia amica da molti anni è separata da suo marito, con cui ha una figlia grande che vive all’estero. Il marito da anni sta con una donna più giovane, lei ora è single e non ha mai cessato di rimpiangere l’unione coniugale perduta. Per il lockdown il marito ha scelto di stare con lei, ex-moglie, ed è stato raggiunto dalla figlia che ha preferito passare oltre due mesi con i genitori anziché col suo fidanzato a Londra… Una rivelazione epocale per la mia amica: ha capito così che lei, lui e la figlia erano rimasti sempre la Sacra Famiglia, malgrado le apparenze. Ahimè, la Sacra Famiglia si è disfatta con la fine del lockdown: il suo ex è tornato dalla donna solita, la figlia è tornata a Londra.

 

Come per Sartre, la drastica limitazione delle scelte imposte dalla quarantena offre l’occasione di una grande liberazione mentale, il potersi dedicare finalmente “all’essenziale”, anche nel lavoro. Siccome ci si sente un po’ come in guerra, e siccome si corre qualche pericolo di essere contagiati, si dà libero corso ai propri desideri proibiti, con la scusa di consolarsi degli arresti domiciliari: si abbandonano diete severe, si riprendono a bere alcolici proibiti, si vedono quei film o serial che prima “non avevo il tempo di vedere” (che in realtà ci si vergognava di vedere), si ha una buona scusa per non vedere amici e parenti che in realtà ci annoiano. La quarantena dà l’euforica frivolezza dei morenti, ci si concedono “le ultime volontà”, si chiudono conti che l’illusione di un tempo indefinito lasciava fastidiosamente aperti. Se si aveva una casa in campagna o al mare dove si andava poco, perché gli impegni in città avevano sempre il sopravvento, si è deciso di passare là il lockdown e si è riscoperto, finalmente, il piacere di una casa che doveva fare da parentesi, perché ora la parentesi diventa il pieno della vita. E così ci si dedica all’orto che da anni ci si riprometteva di coltivare, al libro di 500 pagine che da anni ci si diceva “devo leggerlo prima di morire…”, e all’ozio, finalmente non più colpevolizzato, dell’occuparsi della propria tana.

 

2.

 

Così, finito il lockdown, tornati all’usata opra, molti sono diventati preda di depressione. Alcuni analizzanti mi portano fantasie di suicidio. Catapultati di nuovo nel tempo laico della libertà, molti si rendono conto di quanto sia costosa e fastidiosa questa libertà. Anche i problemi di coppia, che come d’incanto erano svaniti nel periodo della detenzione domestica, si ripropongono in una forma talvolta aggravata rispetto al “prima”. Si ha nostalgia, come Sartre, di una prigionia che aveva tanto semplificato la vita.

 

Ora, come è noto, i leader che hanno dichiarato lo stato d’eccezione per la pandemia – come Conte in Italia – hanno visto salire di molto la loro popolarità. Mentre i leader che hanno detto a tutti “Continuate a fare come volete! Non rinchiudetevi in casa, non mettetevi la mascherina!”, tali Trump e Bolsonaro, hanno visto una caduta della loro popolarità tra i loro concittadini. Il popolo voleva insomma che si decidesse per esso, che Lui costringesse ciascuno a stare a casa. E, con grande sorpresa di molti, i più entusiasti per la quarantena imposta sono stati proprio coloro che votano a sinistra, mentre si sono agitati e in certi casi anche rivoltati coloro che di solito votano per l’estrema destra (che ormai è destra tout court in tanti paesi). Chi anela a un Führer che li comandi senza discutere ha vissuto male la quarantena imposta; chi è per i diritti civili, per la libertà degli omosessuali e per il libero ingresso degli immigrati, ha accettato col sorriso l’imposta clausura. Forse c’è qualcosa da rivedere nelle nozioni tradizionali di “sinistra” e “destra”, temo.

 

Erich Fromm scrisse The Fear of Freedom (Fuga dalla libertà), per deprecarla ovviamente. Ma col lockdown abbiamo visto, con nostra grande sorpresa, che, anche se siamo frommiani, c’è una dolcezza nel restringere certe libertà. E che quindi quella che secoli fa Etienne de la Boétie ha chiamato servitude volontaire non è una patologia degli “altri”, non è un’incomprensibile reazione tipica dei nostri avversari politici. La dittatura, ovvero il dover fare certe cose imposte dal Partito o dallo Stato, libera dal peso continuo, assillante, delle scelte.

 

3.

 

E in effetti tanti non vivono affatto male sotto le dittature.

Ho conosciuto molto bene persone che hanno vissuto sotto il fascismo, che erano fasciste e tali sono rimaste anche dopo il 1945; nella mia infanzia ho potuto ascoltare la loro versione sul Ventennio. Ho conosciuto poi tanti filo-franquisti vissuti sotto il regime franquista, e tanti cittadini sovietici che simpatizzavano per il regime, di cui avevano o hanno nostalgia.

 

Io ho avuto sin dalla più tenera infanzia un’educazione rigorosamente anti-fascista, perché mio padre, socialista e cattolico, lo era sempre stato. Ma mi diceva che all’epoca della proclamazione dell’Impero, verso il 1935 e il 1936, “noi anti-fascisti a Napoli [città in cui viveva] ci contavamo sulle dita delle due mani”. Per mio padre i suoi figli, a cominciare da me che ero il primo, erano i rampolli della Repubblica e della Democrazia, noi avremmo passato quella gioventù libera che lui invece non aveva potuto vivere, perché il fascismo si era imposto quando aveva sette anni. Ma erano stati fascisti e continuavano ad amare il duce zii e zie, cari amici di famiglia, persone talvolta buone come il pane, che non avrebbero fatto male a una mosca, che tutti noi amavamo. Costoro ammiravano sempre il Duce, anche se ammettevano “alla fine, con la guerra, ha sbagliato!” (ma non era chiaro se avesse sbagliato perché si fosse alleato con un mostro come Hitler, oppure perché, semplicemente, avesse scelto la parte perdente). Il fatto che ora, con la democrazia, potessero votare per i partiti che volevano – anche per l’MSI, il partito neo-fascista, in molti casi – non li impressionava granché. Per loro era meglio che decidesse lui, il Duce. Evidentemente in quel regime si sentivano un po’ come noi al tempo beato della clausura da coronavirus: rasserenati dal fatto di non essere costretti a scegliere. E sappiamo che molto spesso, nella vita, le scelte sono impossibili, ovvero, dobbiamo scegliere tra la zuppa e il pan bagnato, o peggio, tra la peste e il colera.

 

Contrariamente a quel che ci fa credere la propaganda occidentale, la vita sotto lo stalinismo non era così male. È quel che mi hanno ripetuto simpatici vecchietti e vecchiette un tempo cittadini sovietici. A meno che, ovviamente, tu non fossi un dissidente dichiarato, o se, magari per puro caso, non finissi in qualche Gulag. Certo, se eri ebreo, a partire da un certo momento, ne sentivi il peso: si sapeva che gli ebrei non erano ammessi a certi studi universitari in materie che Stalin considerava “strategiche”. Ma se avevi la ventura di essere uno scienziato, per esempio, godevi di privilegi che gli scienziati in Occidente si possono solo sognare: uomini e donne di scienza erano trattati col rispetto con cui si trattavano i preti in Italia, e come ai bisogni dei preti provvede la Chiesa, così ai bisogni degli scienziati provvedeva lo Stato. L’Accademia delle Scienze era una potente corporazione ampiamente indipendente dal Partito e dallo Stato.

 

Non c’era la competizione vorticosa, l’agitazione finanziaria e motoria, del mondo capitalista: la vita scorreva su binari previsti, rallentata rispetto ai paesi capitalisti, senza punte alte né basse, diciamo in chiave minore, confortevole e noiosa. Pochi erano i dissidenti, come pochi erano gli oppositori italiani sotto il fascismo: erano guardati male, considerati degli eccentrici, dei misfits. I media non mettevano mai opinioni a confronto, l’Opinione era sempre unica e ufficiale, non ci si doveva quindi scervellare per decidere chi avesse ragione, dove schierarsi…

 

Siccome tutti dovevano e potevano lavorare, si mettevano dieci persone a fare un lavoro che avrebbero potuto fare uno o due, ragion per cui si lavorava molto rilassati, ognuno aveva poche cose da fare. Io stesso ho potuto vedere come funzionava un hotel sovietico: si era circondati da una massa di impiegati che non si capiva che cosa facessero. In ogni piano dell’hotel c’era un sorvegliante col suo tavolo, e non si vedeva assolutamente a cosa servisse; secondo me passava il tempo a fare parole crociate. Nella sala della colazione, anziché un solo cameriere c’erano una quindicina di addetti che ci guardavano mangiare, pronti a rispondere a ogni nostro desideratum, che però arrivava solo raramente. Lavorando si batteva la fiacca, poi ci si poteva dedicare tranquillamente alle gite, alla pesca, alle feste a base di vodka, a fare un po’ di musica, a corteggiare l’altro sesso… Vita senza grandi drammi – a parte la guerra, che stravolse questa pacchia del quotidiano, ma che Stalin subì, non scelse – e soprattutto senza grandi Scelte da compiere. Certo, la gloria era riservata – ma questo è così dappertutto – solo ad alcuni, a chi faceva carriera politica, ad attori e attrici, a cantanti, a qualche “eroe del lavoro” come Stakanov. È il fascino discreto della dittatura, culla zuccherosa di irresponsabilità, dove nulla di grave accade perché i media lo ripetono continuamente, “tutto va bene”, e la stragrande maggioranza ci crede, perché le cose avvengono di solito senza strappi. A parte le minoranze perseguitate, appunto, i kulaki sterminati… Ma le minoranze sono minoritarie appunto, le maggioranze vedono le cose da lontano così come vedeva da lontano i detenuti chi abitava vicino a qualche Lager polacco. Si può ignorare qualsiasi cosa, anche un genocidio, se è celato alla tua vista. E poi è sempre bene sterminare completamente una minoranza, non lasciare sopravvissuti, così costoro non potranno ricordare chi è stato massacrato, nessuna memoria ereditaria risveglierà il ricordo di morti che non possono far ricordare. Massacrare completamente una minoranza è anche cancellarne completamente la memoria.

 

4.

 

Insomma, è illusione pensare che la maggioranza dei nostri concittadini ci tengano davvero alla libertà. Per avere idee politiche precise occorre una certa cultura e un certo interesse, e la massa non ha né l’una né l’altra. Che da qualche palazzo governi un Duce o un partito democraticamente eletto, non fa molta differenza. Per la maggior parte delle persone, politica è dover io pagare più o meno tasse, aumentare o meno il mio salario, che il sindaco metta quel semaforo all’angolo di strada oppure no… politico è solo ciò che è vicinissimo ai miei interessi personali. La sola politica veramente interessante, per la maggior parte delle persone, è lo sport agonistico. Le elezioni, anzi, sono sgradite, perché obbligano ciascuno – anche chi non ha il minimo interesse per la politica – a dover riflettere e scegliere per chi votare. Ognuno si sente tenuto a compiere una scelta che per tanti non ha senso, perché non hanno alcuna idea di che cosa sia veramente in gioco nel conflitto politico.

 

Si dice che in democrazia la gente finalmente si può esprimere. Ma anche nelle dittature chi aveva qualcosa da esprimere lo faceva comunque, nei discorsi al bar, al pub, al bistrot, nella Bierhaus, o a casa tra amici. Anche durante il fascismo, il nazismo e lo stalinismo circolavano barzellette contro i potenti, si sghignazzava contro il capo e il leader. La più famosa battuta inventata dai sovietici a suo tempo: “’Che cosa è il capitalismo?’ Risposta: ‘Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo’. ‘E il socialismo?’ Risposta: ‘L’inverso’”

 

Oggi poi ci sono i social, dove ciascuno può sfogarsi ascoltato da migliaia di persone, di solito idiote quanto lei o lui; ma non c’è bisogno delle dittature per controllare la libertà d’espressione nei social. Anche nelle democrazie sempre più la sboccata, oscena libertà del pensiero viene limitata dalla correttezza politica: non si possono fare discorsi razzisti, omofobi, contro le donne, di inviti all’odio o ai reati, di insulto alle persone o calunnie, non si possono scrivere oscenità…. Anche la Coca Cola boicotta ora Facebook perché non censura abbastanza il suo social. Se non è un Duce o il Partito a limitare la nostra libertà espressiva, ci pensano i magistrati o comunque la parte “buona” della cittadinanza che condanna scandalizzata. Ma per tantissima gente esprimersi liberamente significa proprio fare discorsi razzisti, omofobi, misogini, contro gli ebrei o i cinesi, insultare il calciatore o il ministro che si odia… L’espressione libera fa uscire il meglio di una comunità, ma anche il peggio. E spesso, come è noto, prevale il peggio.

 

Per questa ragione, insomma, la maggior parte di noi si è trovata bene durante il lockdown. Una prova generale di confortevole prigionia.

4 thoughts on “Il fascino discreto della prigionia

  1. “ 1 luglio 1994 – « 15 settembre – Lo so: per tenere un diario, bisogna non aver niente da fare, e quindi da dire; e io sono arrivato alla mia età senza mai scrivere niente di me. Ma questo è un caso un poco diverso: non facciamo niente, è vero, ma siamo i soggetti passivi di una metamorfosi. È cambiato tutto: i nostri occhi e quello che vedono. Grosso modo, suppongo che si tratti di una degradazione, di una semplificazione, di un ritorno all’infanzia e i miei compagni la pensano come me. Ma non ne siamo proprio sicuri. Quindi, d’accordo con loro, annoterò ogni giorno su questi fogli a righe e senza margini tutto quello che mi viene in mente e che, da vicino o da lontano, si riferisce alla nostra condizione. Abbiamo paura infatti di ricordarcela, in seguito, migliore o peggiore di quella che è. » (Jean Paul Sartre, Il diario di Mathieu, 1941) “.

  2. Vorrei proporre all’autore un esercizio di immaginazione. Immaginiamo dunque una comunità di individui abbastanza ampia ma non troppo (in modo che comunicare non diventi eccessivamente difficile), che non abbia uno Stato o altre forme di autorità centrale, che sia colpita da un’epidemia causata da un virus in tutto simile al coronavirus, e che per il momento conosca di questo virus le stesse cose che sapevamo noi al tempo del lockdown: che è molto pericoloso in particolare per le persone anziane o malate (le uccide o provoca in loro gravi e durature conseguenze negative), che è molto contagioso, che si trasmette attraverso le goccioline di saliva, che sopravvive a lungo su diversi tipi di superficie, che ha un periodo di latenza di 14 giorni e che vi sono individui che sono portatori del virus ma senza sintomi (ossia che non possono sapere se sono malati e pericolosi per gli altre a meno di non fare indagini mediche). Supponiamo inoltre che, proprio a causa di queste e altre caratteristiche del virus (per esempio la somiglianza di molti suoi sintomi a quelli dell’influenza), essa scopra di essere stata colpita dall’epidemia quando già il contagio è molto diffuso, sebbene sia difficilissimo, per i motivi detti sopra e il sovraccarico del sistema sanitario, stabilire quanto precisamente. Cosa potrebbe fare una comunità di questo tipo (senza un’autorità centrale) e in questa situazione per cercare di fermare il contagio o almeno rallentarlo se non dispone di un vaccino? Io penso che gli individui che la compongono deciderebbero di comune accordo di evitare per quanto è possibile di entrare in contatti stretti gli uni con gli altri (anche a costo di sospendere temporaneamente attività cruciali), in modo che nessuna delle persone contagiate dal virus ma asintomatiche e perciò inconsapevoli di esserlo contagino altre persone, ossia, idealmente, in modo che nessun’altra persona contragga il virus una volta presa (e messa in atto) questa decisione. E penso anche che tutti (almeno in questo esempio supersemplificato; gli interessi dei membri delle nostre società sono senza dubbio più eterogenei) coopererebbero, e che lo farebbero innanzitutto perché nel proprio interesse (nessuno si vuole ammalare). Io cioè penso questo: che proclamando il lockdown il governo italiano non abbia messo i cittadini agli arresti domiciliari, per usare il suo linguaggio, ma li abbia autorizzati e messi in condizione di proteggersi dal virus e dalla covid in modi in tutto simili a quelli cui avrebbero probabilmente pensato per conto proprio. Detto in altre parole: non pensa che alla libertà di uscire molti cittadini americani, e in particolare quelli malati o magari morti, avrebbero forse preferito l’autorizzazione a non andare al lavoro?

  3. Che dire. Non l’ho vissuta proprio così. L’ho vissuta (la vivo) molto, davvero molto male (NB: rabbiosa per essere costretta a starmene a casa, per i fatti miei, per imposizione dall’esterno, invece di potermene stare a casa, per i fatti miei (che è ciò che comunque, e per lo più, faccio) per MIA scelta.
    Devo tuttavia ammettere che, pensandoci bene, è stato anche così.
    Ci dovrò pensare davvero bene.

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