di Andrea Cortellessa
«Con i ricordi ancora gracili dell’infanzia la vita suole per lungo tempo condursi come una madre che accosti il neonato al suo petto senza svegliarlo»: così scrive Walter Benjamin in una pagina di Infanzia berlinese intorno al millenovecento, il suo frammentario capolavoro di scrittore, scritto fra il ’32 e il ’38 ma pubblicato postumo, dieci anni dopo il suicidio – in fuga dalla Francia occupata dai nazisti, bloccato al confine spagnolo di Port Bou – del settembre 1940. Aveva da poco compiuti i 48 anni. Benjamin vuole così esprimere l’aura che hanno sempre avuto, per lui, i «cortili»: come quelli del suo quartiere d’infanzia, il Westen berlinese, che ricorda di aver ritrovato in un lampeggiamento di magia – un’illuminazione profana – «fra i vigneti di Capri, ove io tenni fra le braccia l’amata». Il suo pensiero corre alla stagione più felice di una vita avara di gioie: a Capri era giunto nell’aprile del ’24 e, contro ogni sua aspettativa, ci rimarrà sino a ottobre. In quell’esplosione di luce scrive il suo testo più oscuro e terebrante, la premessa all’Origine del dramma barocco tedesco.
L’amata è Asja Lacis, un’attrice lettone più anziana di lui di un anno (gli sopravvivrà sino al ’79), che Benjamin avvista in una drogheria dell’isola. La giovane donna cerca delle mandorle per la sua bambina, Daga, ma non conosce la parola italiana; allora il giovane studioso cogli occhiali, che tante riflessioni dedicherà alle virtù messianiche della traduzione, vince la sua timidezza e interviene in suo soccorso: «permetta che mi presenti, Dottor Walter Benjamin». Staranno insieme, quella bella estate, parlando di Proust e di comunismo; si rivedranno a Berlino, a Riga e a Mosca, nel ’26-27: quando sarà forse proprio Asja (che nel ’38 verrà deportata in Siberia) a convertirlo definitivamente al marxismo.
Ma insieme, soprattutto, scoprono Napoli. Vi s’immergono in infinite flâneries: tornano bambini e così imparano a perdersi e ritrovarsi, nel tempo oltre che nello spazio (come farà lui, in modo simile al Proust che ha tradotto, quando a Berlino si ricorderà di come a Capri si ricordava di Berlino…). Sarà Asja a fare un’osservazione decisiva: quella città è diversa da tutte le altre, perché ignora demarcazioni rigide e confini vessatori. La sua architettura è il «momento condensato della ritmica comunitaria» (a Mosca – con altra e più azzardata immagine dialettica – a Walter parrà che, come a Napoli non è «neppure arrivata a formarsi», la «vita privata» dal bolscevismo è stata «eliminata»). Nulla, a Napoli, è «concluso e fatto per sempre», è impossibile distinguere «quel che deve essere ancora costruito e quel che è già caduto in rovina»; «il giorno di festa permea irrefrenabilmente ogni singolo giorno di lavoro». Insomma, come la pietra su cui è costruita, il tufo, Napoli è una «città porosa».
Proprio questa sigla della porosità renderà celebre (sino a rischiare, in una certa stagione della cultura napoletana, il luogo comune) il breve testo che Walter scrive, firmandolo insieme ad Asja che gliene ha donato l’idea: uscirà l’anno dopo sulla Frankfurter Zeitung, e più avanti ne realizzerà anche una versione radiofonica. Al di là dell’amata – che ha potuto incontrare, in effetti, proprio grazie a quella porosità sociale altrove proibita –, quel soggiorno era stato per lui importante: gli ha insegnato non solo un modo nuovo di fare esperienza del viaggio, ma anche di scriverne: dal ’25 al ’30 produce infatti quella serie di prodigiose istantanee, le Immagini di città, che nel ’63 Peter Szondi raccoglierà in un libro bellissimo (nell’ultima edizione einaudiana, uscita a cura di Enrico Ganni nel 2007, Napoli è tornata a inaugurarla, seguendo l’ordinamento di Szondi), a sua volta premessa all’Infanzia berlinese che chiuderà il cerchio magico della memoria.
Passato, presente e futuro si compenetrano fra loro: come e più che in Proust. La porosità diventa una categoria del pensiero, una chiave dei sogni, ma anche la tavola della legge di un’acutissima religiosità laica. Non a caso Benjamin manda una redazione alternativa, di quelle pagine, all’amico Gershom Scholem: che rappresenterà sempre, per lui, la tentazione simmetrica e contraria al marxismo, quella della mistica ebraica. Proprio questa versione, conservata alla National Library of Israel, ha tradotto e finemente commentato il giovane e brillante Elenio Cicchini: il quale nel trascriverla opportunamente segnala i pochi passi supplementari che, tagliati da Benjamin per il giornale, si leggono in assoluto per la prima volta, ora, in un piccolo quanto prezioso volumetto uscito per gli storici tipi partenopei di Dante & Descartes.
Brilla fra questi una paginetta sulla guida Baedeker: la madre di tutte le guide turistiche, che Benjamin consultava come un oracolo nel suo primo viaggio italiano, nella primavera dei suoi vent’anni (taccuino tradotto l’anno scorso, nella bella edizione Neri Pozza dei suoi Scritti autobiografici). Ma nel ’24 si rende conto di come «questo manuale del perfetto viaggiatore […] protegga da ogni inconsapevole avventura la borghesia da viaggio europea»; e nel successivo Spagna 1932 giungerà a una straordinaria riflessione sul «livellamento del globo tramite l’industria e la tecnica», cui contribuiscono i «reportage» e appunto i Baedeker: livellamento che dovrebbe «fare della disillusione lo sfondo oscuro di ogni descrizione» del “diverso”. Un pensiero che non solo anticipa le successive considerazioni sull’aura come «lontananza» – e sulla sua fine, appunto – ma persino quelle sulla «fine dei viaggi» che tanti anni dopo consegnerà Claude Lévi-Strauss ai suoi Tristi tropici.
Proprio a quel viaggio in Spagna, e in particolare ai giorni di nuovo “perfetti” passati in un’altra isola, Ibiza, dedica alcune delle sue pagine più belle Frédéric Pajak nel primo volume che del suo Manifesto incerto, grazie all’Orma, sia stato tradotto da noi: se ogni volume di questa serie di nove previsti (il settimo, dedicato a Emily Dickinson e Marina Cvetaeva, l’anno scorso si è aggiudicato il Prix Goncourt per la biografia) è dedicato alle esperienze di grandi “viaggiatori”, reali o virtuali, è inevitabile forse che a raggiungerci per primo sia quello dedicato all’«infaticabile viaggiatore» che si professava Benjamin, paragonandosi agli eroi dei romanzi picareschi del Seicento. E davvero ha qualcosa di picaresco il mood di questa curiosa figura di outsider, refoulé dell’Accademia di Belle Arti, che vanta un curriculum di operaio, grafico, cuccettista sui treni notturni e inserviente in un macello industriale: e la cui improvvisa emersione rappresenta – ha scritto Emanuele Trevi sulla «Lettura» – «una delle imprese artistiche più originali e illuminanti del nostro tempo».
Il manifesto di Pajak è una forma doppiamente ibrida, in quanto mescola la non-fiction al graphic novel, accompagnando le sue assorte notazioni saggistico-diaristiche ai propri stessi disegni (bellissimi i paesaggi quasi astratti di Ibiza), non sempre ma nei casi migliori appunto contaminando parole e immagini senza farne illustrazioni o didascalie. Si potrebbe dunque dire che anche questa sua scrittura è porosa (non è vero che a Benjamin, come dice Pajak, «le avanguardie […] interessassero poco»: è dai surrealisti e da Breton che riprendeva questo sincretismo di parole e immagini). Ma il manifesto è incerto anche per il singolarissimo io “ibrido” che si viene a creare “doppiando”, in forma di personal essay, esperienze del passato come appunto quella di Benjamin (ma qui si legge pure, per esempio, del rapporto fra Beckett e il pittore Bram Vandevelde). «È con lo sguardo degli altri che riusciamo a vedere meglio», scrive Pajak; e a tratti viene da pensare a W.G. Sebald: ostentatamente “povero” e derelitto (ma oltremodo colto; anche Benjamin, del resto, gli ibizenchi lo chiamavano «el miserable»…) quanto l’autore degli Anelli di Saturno, a sua volta un nipotino di Benjamin, era lussuoso e a tratti compiaciuto. (Si parla, beninteso, del maggior scrittore apparso in Europa negli ultimi quarant’anni.)
Nelle pagine scritte a Ibiza, Benjamin trascrive i versi di Orazio (Od. II, 16): «Chi fugge il patrio suolo fugge anche se stesso?», poi li corregge: malgrado quel famoso livellamento, «il viaggiare non comporta forse un superamento e una purificazione delle passioni del luogo»? Non consente, a chi viaggia insieme alle terre che percorre, «una specie di metamorfosi»? Ricorda Hannah Arendt che Benjamin, mai ebbe fortuna. La sua fuga s’interruppe alla frontiera proprio il giorno in cui – come aveva letto in Kafka – questa era, per lui, invalicabile. Il confine di Port Bou era privo di qualsiasi porosità. E gli costò la vita.
Walter Benjamin-Asja Lacis, Napoli porosa, a cura di Elenio Cicchini, Napoli, Dante & Descartes, 2020, pp. 79, € 7; Frédéric Pajak, Manifesto incerto. Con Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio, traduzione di Nicolò Petruzzella, Roma, L’Orma, 2020, pp. 192, € 28. Si parla anche di Walter Benjamin, Scritti autobiografici, traduzione di Carlo Salzani, Neri Pozza, 2019, pp. 543, € 30.
[Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Sole 24 ore» il 21 giugno].
[Immagine: Asja Lacis].
“ Venerdì 24 luglio 2020 – Poi starei per leggere un articolo di Andrea Cortellessa su LPLC: « Compenetrazione Benjamin ». Ma quando vedo la foto che lo correda, forse sarebbe meglio dire “ sovrasta “, mi fermo. Perché ho l’impressione di avere già letto tutto. (Anche quello che Cortellessa non ha scritto) “.
“Le descrizioni fantastiche di numerosi viaggiatori hanno colorato la città. In realtà essa è grigia: di un rosso grigio o ocra, di un bianco grigio. E’ assolutamente grigia, in confronto al cielo e al mare.”
Walter Benjamin, Napoli, in Scritti 1923-1927 a cura di Rolf Tiedermann. Edizione italiana a cura di Enrico Gianni, Einaudi, Torino, 2001 p. 39
Arduo ma ricco articolo su Benjamin, Bravissimo il dotto Cortellessa.
“Lourdes, 19, 7, 1940
Non è il momento di farti il racconto delle circostanze della mia partenza. Puoi comunque fartene un’idea sapendo che sono riuscito a prendere soltanto l’astuccio della toilette e la mia maschera a gas.
[…]
Ho preso un solo libro: le memorie del cardinale de Retz. Così, solo, nella mia stanza, faccio appello al ‘Grand Siécle’.”
Gretel Adorno Walter Benjamin, Briefwechsel 1930-1940, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2005 pp. 413-4