di Michele Ortore. Con una nota di Tommaso Di Dio

 

Da Cassini

«On the final orbit, Cassini will plunge into Saturn, fighting to keep its antenna pointed at Earth as it transmits its farewell. In the skies of Saturn, the journey ends, as Cassini becomes part of the planet itself».

 

1.

 

Vendesi immobile di metratura lieve,

affaccio su cortili interiori,

silenzioso come l’irripetuto – angoli

a vista no espressioni cucinate.

 

Chi non ripete si stanca ugualmente

la valanga Paganini e un posto auto

dall’intensità del gesto verrà

la certificazione energetica.

Doveva davvero sembrare,

dicono tutti,

uno scheletro in frack con un violino

incastrato sotto la mascella

è il quadro che ho appeso in salotto.

È il verso sismico di nono grado.

È il senso vietato

che scoraggia chi non vuole davvero

e favorisce il parcheggio.

 

Cercasi acquirente onesto,

possibilmente non un tramonto,

ma una chiarezza boreale

senza filosofie.

Se invece il Sole è Levante

accetto anche il contante

l’importante è che conti

senza imbrogliare ripetendo

tre per sette è uguale a

mentre negli occhi passa il riflesso

di una coccinella e ventuno punti

contro il rosso. Perché il rosso perde

sempre ma mai definitivamente.

 

3. La Sorgue

 

Sono stata a Cassis, ad Arles, a Fontaine-de-Vaucluse

dove la Sorgue nasce due volte, una nel fondo di

pietra scesi come briciole i gradini, l’altra come chiara

parola che con il fresco e (supra) dolce Petrarca

ancora e ancora tornava, si presentava, stringeva la mano

guardando senza metterti a disagio, come un’attenzione

data di lato nascosta ma di cui ti accorgi e la prendi e la metti

in tasca. Quando la estrai, è diventata un orologio col cordino

controlli l’ora ma non c’è, c’è la lancetta che fa come il metronomo

su e giù.

Non ripeterò. Ma lei ripeteva.

E non ero stata a Cassis, ad Arles, a Fontaine-de-Vaucluse,

due volte era nata, a pareti di distanza, la Sorgue, e io non l’ho

conosciuta. Mi dirai che sono stata altrove, che questo

dolore è companatico, Valeria ho già scritto troppe poesie e se

come dici tutte nascono dal corpo, io ho i gomiti sbucciati e lo sapevo

che m’impressiona il sangue ma non bastava a non pencolare

come una tartana fuori onda, le reti gettate

in un verso tutto marino anche oltre e senza il mare.

Se solo potessi vedermi. Se io vedessi me stessa.

La capacità di tenere uniti due punti

…………………………………………..anche senza voce alleluiare.

 

 

12.

 

Caro filo nelle stelle, cara poesia nelle pietre,

caro giorno che mi duri distratto, cari cervi

in stalla per passare l’inverno senz’artrosi

alle anche, cari vocabolari

della materia, cara immateria

matura e socchiusa, se leggi i manga e

impari le anime, Dalla che è caro e mi scrive,

care mongolfiere canne d’organo nel sole,

caro non sapere se qui comincia o è il foglietto

estremo sul tavolo – e non fate troppi pettegolezzi,

care radiazioni senza sonno sulle sponde dell’universo,

informazioni nell’acrocòro della mente oppure

balene spiaggiate musi inutili che dicono

léggi morendo, cara immagine di me che

scrivi nella mente degli altri e mi riduci,

caro tempo perso quanto ti ho perso ma poi

quel signore ti ha raccolto e mi ha inseguito,

caro Davide, non te l’ho mai detto, mi dispiace

per tuo padre, ci sono cari i precordi, le fratture

nel grano, i punti che dall’alto ci vediamo,

non c’è di che, c’è di caro, educato,

cara siepe muraiola l’alfabeto sui mattoni fiorisce

anche fuori dalla clinica: coi molari

bloccato preme

il pulsante che inietta nel buio e nelle arterie

il suo addio liofilizzato, ma il niente come il pesto

si mangia e si vive soltanto fresco,

e cari, care, cara, caro, come vi chiamate

come avevate detto che vi chiamate?

Perdonatemi, ma tenetemi sempre

con rinnovata fede, sinceramente vostro,

 

 

13. Colorare bene

 

Tra le righe di carta i ragazzi in troppe parole

mi raccontano come e quando sosteneva Pereira;

con qualche onda rossa io fingo

di saperne di più, una luce ocra

sopra la testa, la lampada sempre che io scrivevo

come e quando sosteneva Pereira.

 

Un balbettìo sussurra

con la costanza di una favola lontanissima

che piove.

 

Piove alle mie spalle, oltre il vetro già aperto,

nelle V sbilenche dei tetti, chiazze

di cemento verso il cielo nero.

Gocce su grondaia nel mio timpano sinistro,

4/4 e il metronomo

smontato nella nebbia, grande fino alle colline

che da quando sono piccolo fanno contorno,

bordo in grassetto da riempire, colorare senza sbafare,

o sbavare. Sono laccate da un tempo senza pupille,

senza misura,

e la mia mano trema un po’.

 

 

14. Trittico evolutivo – I delfini (a)

 

Visto da lontano sembrerà meraviglioso

 

le braccia larghe delle molecole di acqua

si chiuderanno come al compleanno

di un cugino di quarto grado sui fianchi

a proteggersi nell’angolo dall’essere

inadatto alle circostanze, in silenzio ai giochi

dei bambini attorno rispondi

con un sorriso mantenuto col fermaglio

e sforzi gesuitici per trovare

qualcosa di diverso dalla diversità.

Ma spesso non funziona. E quando le

molecole di acqua stringono le braccia

senza che il silenzio si scuota, dal circolo

più stretto del pianeta sale la calma liquida

del mare, sale il sale sulle caviglie ed i garretti

sui radiocomandi della festa, i calzini con Pippo

inzuppato (ma anche Paperino muore perché la civiltà

post-liberista di Paperopoli ha scalfito nel profondo

la sua memoria di anatide), sale sulle palazzine

liberty di lungomari sommersi,

sulla crosta d’amore della vecchia,

sulle certezze di sabbia:

 

finché la terra, respirando

quasi immensa e smisurata balena,

non ha più ghiaccio e già non lo sa,

scende nell’acqua e sbatte la coda,

non ha più gambe e già non lo sa:

ci sono i delfini a giocare

 

* * *

Nota

di Tommaso Di Dio

 

La poesia di Michele Ortore è una delle poche oggi che regge benissimo il bilico fra tensioni opposte. Una scanzonata ironia convive in lui con una lucida asprezza, così come un fine e colto preziosismo delle scelte formali si accoppia con un ductus fluido e discorsivo che mai rinuncia ad una empatica unità di tono. Si ha sempre a che fare con una voce affetta da qualcosa e che dice qualcosa: ma di cosa è fatta questa voce? Ortore è studioso di lessico scientifico, nonché critico teatrale; entrambe le sue passioni sono avvertibili nella trama della sua scrittura. E scrivo “trama”, non per caso: la lingua di Ortore ci viene incontro proprio come un textus, un composito tessuto lavorato finemente, che cuce fra loro in un’unità vocale parti distanti della lingua non per nasconderne l’eteroclita provenienza, ma proprio per mostrarne gli sbreghi, i salti, le sottili e afone lacune che li uniscono. Sembra che il suo obiettivo sia proprio raggiungere quella «capacità di tenere uniti due punti / anche senza voce alleluiare». Ortore ottiene così un effetto arlecchino, fra il preciso e determinato cui lo conduce il lessico scientifico e il pathos vivente del teatro. Il suo testo esalta le frizioni fra i materiali grazie al cozzo che le frasi “di riporto” suscitano una volta trovatesi spaesate, ma divenute infine coese sulla pagina per via di qualcosa che sembra precedere la lingua stessa: una sorta di adesione condivisa con il lettore, con l’emotiva realtà delle cose al di qua del testo. La lingua così molecolarizzata e composita delle sue poesie è sempre allora costretta ad abbandonare il ruolo di neutra messaggera, per diventare il veicolo di una storia parallela: voce di una persona loquens che misteriosamente resta indistinta alle spalle dei linguaggi che adopera ma che ci appare solidale, vicina. Il risultato è quello di ascoltare una voce come fuori sincrona, in parte aliena in parte totalmente nostra. Questo ventriloquio insiste, parla, dice: e più procediamo nella lettura dei testi, più questa voce che dapprima ci diverte, ci stranisce, quasi ci fa ridere, piano piano, poi inesorabilmente, affonda in lucidità. E così che se davanti al distico che apre la prima poesia «Vendesi immobile di metratura lieve, / affaccio su cortili interiori» ci viene da sorridere, vi invito ad avanzare nei versi perché, come la sonda spaziale Cassini, così l’esplorazione poetica di Ortore è proiettata fino allo schianto verso il centro del linguaggio, verso quella forza oltre ogni persona grammaticale e ogni linguaggio, per raggiungere luoghi in cui una citazione in corsivo da Galilei convive con tremori «senza misura», per poi infine fuoriuscire alla visione della terra intera, minacciata, fragile come immenso e smisurato animale animato: «finché la terra, respirando / quasi immensa e smisurata balena, / non ha più ghiaccio e già non lo sa».

(aprile 2020)

 

 

 

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