di Matteo Bortolini

 

Quanta differenza può sussistere tra ciò che si professa scrivendo e ciò che si fa di sé (e degli altri) per mantenere una certa credibilità? Siamo sicuri che il kantiano di grido applichi sempre, caschi il mondo, l’imperativo categorico? Com’è possibile che il valido esegeta dell’Etica nicomachea non sia capace di tenersi un amico per più di tre settimane? E ci sarà di sicuro almeno un giovane italianista che obbliga i suoi studenti a defatiganti maratone su “tanto gentile e tanto onesta pare” ma poi passa la vita ad ascoltare la trap, no? Qualunque ispettore ministeriale aduso a forme anche elementari di data mining potrebbe facilmente identificare, ammonire, ed eventualmente licenziare nicciani tremebondi, bourdesiani irenici, hegeliani sradicati o goffmaniani egomaniaci.

 

Qualcuno di colto potrebbe ribattere citando William Butler Yeats (“Can you spell it please?”, “Y-E-A-T-S”): “It seems to me that I have found what I wanted. When I try to pull it all into a phrase I say ‘Man can embody truth but he cannot know it’. I must embody it in the completion of my life.” La verità la si può fare, forse, ma non sapere, e di certo non dire. Yeats morì poco dopo, senza aver avuto il tempo di incarnarsi—o forse proprio per quello. C’è, in alternativa, una scena delle Nuvole di Pier Paolo Pasolini dove Ninetto Davoli veste i panni non di Otello, ma di una marionetta di Otello, e chiede: “Ma qual è la verità? È quello che penso io di me, è quello che pensa la gente, o è quello che pensa quello là lì dentro?” “Cosa senti dentro di te? Concentrati bene,” risponde la faccia verde di Jago, applicata su quella di Totò. “Sì, sì, si sente qualcosa che c’è.” “Quella è la verità… ma sssssh… non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più”. Il camion, la discarica, e poi le nuvole.

 

La difficoltà di dire ciò che non si dice è chiara in Pasolini, soprattutto nelle tante parole dedicate a immaginare un’alternativa all’Italia “degenerata, ridicola, mostruosa, criminale” del boom economico. La domanda che il Parto Comunista poneva a Pier Paolo era semplice: se il “genocidio culturale” con cui la borghesia sta spazzando via il proletariato non può, per definizione, essere la verità, dove sta la verità? Dove la cerchiamo? La domanda nasceva dal fatto che Pasolini si guardava bene dal chiedere “più progresso, più uguaglianza, più democrazia”. La sua alternativa sembrava quella di una inspiegabile nostalgia per “l’immenso universo contadino e operaio” che precedeva lo sviluppo, il rimpianto di una inquietante reificazione di quella che lui stesso chiamava “Italietta fascista”. Il ricordo di quando il proletariato era ancora consapevole del suo posto e felice di starci. La glorificazione dell’analfabeta “in possesso del mistero della realtà” contro il giovanotto capellone trasformato in mutante del capitale.

 

Questo Pasolini non piaceva agli intellettuali illuminati fuori e dentro il PCI. Fabio Mussi, per dirne uno, lo insultava dalle colonne di Paese Sera. Figurarsi adesso. L’alternativa contadina la liquidiamo come una fantasia da poeta, o ne tacciamo del tutto. Ma chi volesse provare a combinare le Nuvole con una riflessione, per quanto fugace, sul colto, raffinato borghese Pier Paolo Pasolini, vedrebbe forse che sotto la verità impossibile di Yeats e Totò sta qualcosa di più interessante. Che Pasolini credesse davvero che il neocapitalismo fosse reversibile, che si potesse tirare il freno a mano, scendere dalla macchina e tornare indietro a piedi, ecco, tutto questo fa ridere. Ma allora cosa stava facendo? Ecco il punto. Faceva. Parlando di contadini e proletari scomparsi, Pasolini diceva una verità paradossale che si stava facendo nella sua vita—nel modo tragico e imperfetto in cui tutte le verità non possono farsi in una vita.

 

Disincantato quasi quanto lo zio Max, Pasolini proponeva a ognuno di trovare un modo di vita stilizzato, una cura di sé che, nel suo caso, prendeva l’immagine consapevolmente falsa dell’Italietta come una sorta di implicita verità individuale, l’approssimarsi a una rivoluzione vissuta nei gesti e nell’interiorità, nelle lunghe passeggiate “per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”. Non un argomento, ma un nodo, un koan de-ciso nell’esperienza e nel suo silenzio. La medesima stilizzazione che troviamo nel rapporto tra la vita e le idee di Robert Neelly Bellah—un intellettuale americano che pare folle mettere nella stessa pentola in cui sta già bollendo Pier Paolo Pasolini.

 

Contemporaneo e quasi coetaneo del regista, meno famoso ma non per questo meno radicale, Bellah aveva, al fondo, un dubbio che colpiva tanto le idee quanto la vita. Un dubbio che sopportava in filigrana il senso religioso di una coscienza simbolica capace di collegare tutto ciò che nella vita vissuta è, e rimane, separato. Simboli unitivi, li chiamava. Al centro una idea della verità come presenza reale, qualcosa che si incontra come occasione di rottura ma anche maturità, momento di fuga e di responsabilità insieme. Paradossi inevitabili: pur occupando il centro come fonte di senso e, forse, di “valore”, ciò che la verità fa è sconvolgere, revocando ogni aspettativa. “Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”. Diversamente che nei meme dei colti, è la luce che apre la crepa, e solo dopo ci passa dentro. La verità spacca abiti e abitudini, impedisce di star comodi. A patto, ovviamente, che non la si veda come specchio della natura, ma come qualcos’altro. Cos’altro non si sa, but then.

 

Al centro della condizione umana sta dunque una impossibile, e dunque ridicola, promessa di redenzione. Non a caso la chiusa di Religion in Human Evolution parla a lungo di “rinuncianti”, quelli che “escono di casa” per vivere una vita che è, in forma originale e a volte sconvolgente, la critica di ciò che la gente “comune” continua a dare per scontato. Non che nulla cambi, o quasi. Sì, certo, ci si alza la mattina all’alba per fare compieta, e si rinuncia a gozzovigliare la sera. Qualche volta si sale su una colonna, per poi finire in discoteca. Più che la regola vale l’intenzione—la verità si fa in ogni gesto, accennando col capo, lavando i manici delle padelle, piegando un ginocchio, facendo su una canna con estrema cura. Riti. Vediamo la verità nelle vite dei “tipi assiali”—profeti di Israele, samnyasin indù, bhikkhu buddisti, studiosi confuciani—ma anche in quella dei filosofi greci, gente che solo mentendo diremmo contemplativa. Ecco, per Bellah, l’eredità della rottura assiale: l’idea di teoria come blocco del flusso, il flettersi non solo dell’azione, ma anche e soprattutto del pensiero, e dunque l’inizio di una alternativa al quotidiano.

 

Per questo agli intellettuali non interessano le parole, le immagini e forse neanche le idee. Piuttosto, si tratta di gente—chaps—che mira a diventare la verità che li critica. Un dispositivo vivente sottoposto, di continuo, a dubbio e rifacimento. Cercano di farsi esempio di ciò che potrebbero fare, di ciò che dovrebbero fare, di ciò che vorrebbero fare, e non possono fare. Piuttosto, sono interessati al continuo rifarsi delle loro esistenze come concrezioni di ciò che dicono nella vita reale—qualcosa che dipende da ciò che praticano, e non viceversa. “Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.”

 

Guardando Bellah vediamo un tentativo continuo, e continuamente disatteso, di recuperare alla vita vissuta la dimensione del vero, contro ogni certezza—senza, però, contrapporre religione e intelletto, senza inserire una spaccatura tra analizzare e sentire o tra studio e poesia—che lo avvicina, di molto, a Pasolini (e ogni volta scriverlo, date le differenze, fa venire i brividi). Si cerca la sintesi, comunque assai loffia, tra verità e vita. Ma il punto è proprio questo: poiché la verità, per quanto travisata, muta, o invisibile, sta sempre nella condizione umana, (almeno) gli intellettuali non possono mai accontentarsi di ciò che già sanno, o del mondo, che è lo stesso.

 

E sicuramente non si accontentano della separazione tra modi diversi di immaginare la realtà che il 2019 ancora imponeva e che il 2020 ha sgretolato, così, a caso. Una dissociazione che risulta intollerabile perché, ancor prima di ostacolare la visione di una verità muta e inattendibile, impedisce di cambiare la propria vita, diventando nuvola, spazzatura, giglio di campo, passero in cielo. La spaccatura di idee e vita è, per mancanza di parole migliori, la corruzione (basso)borghese di una pratica che al fondo non può che contenere, come tutte le “cose serie”, la possibilità di morire. Un mondo hyperwoke in cui si potesse accertare il grado di congruenza tra vita e idee, dunque, non potrebbe che glorificare la distorsione del modo in cui ancora praticavamo l’attività intellettuale nel 2019. E tuttavia, se abbiamo ragione, siffatta misura risulterebbe ridicola e impossibile. Ovviamente.

 

Abbiamo detto individui, e Dio solo sa quanto Pier Paolo Pasolini e Robert N. Bellah fossero, profondamente, individui—anche se, non serve dirlo, marionette con la faccia verde, spaccate in modi e ritmi sconosciuti e poi gettate in discarica. E tuttavia, tutta questa riflessività è lungi dall’essere una ascesi individuale. La conclusione di Religion in Human Evolution parla di un’altra dimensione: “Al di là di tutte le differenze tra quelli che solo molto generalmente possono essere definiti rinuncianti nelle diverse culture assiali, tutti i rinuncianti condividevano il fatto di essere insegnanti (teachers), e fondatori di scuole o di ordini, così più o meno, e spesso meno, da istituzionalizzare una tradizione di critica”. Come discepoli e mentori, o come semplici amici, i rinuncianti della rottura assiale non facevano mai da soli. Perché è solo nell’esistenza concreta di una comunità che si realizza una forma di vita veramente riflessiva e dunque vera, in tutte le sue debolezze—Ninetto ha bisogno di Totò, Pasolini ha bisogno di Ninetto (e di Moravia), Bellah ha bisogno di Cliff Geertz, e poi di Bill Sullivan, noi del Seminario di Urbino avevamo Giovanni, Massimo e Alessandro, ma poi, chissà.

 

Non che basti, diciamolo subito così nessuno si offende, riunire un po’ di individui per fare una comunità. Ci sono, direbbe Bellah, lifestyle enclave in cui siamo uniti dal godere insieme di ciò che ci piace, ma senza cambiare di un millimetro. E ci sono, diremmo noi, mute, bande, cricche, strumenti e compromessi che anche quando puntano in alto in realtà non abbandonano mai il loro stesso piano di immanenza e superficialità. Senza che si possa dir nulla. Colpe e difetti si pagano da sè.

 

Le vere comunità—giurate e sacrali, fondate sul sangue dei vivi e sui corpi ancora caldi dei morti—si distinguono se riescono, e poi solo per un soffio, a creare uno spazio protetto in cui l’asprezza del mondo possa sospendersi per lasciare che altri modi di esistenza possano essere praticati. È per questo che la rinuncia non è lavoro, e che il rinunciante che si lamenta per la fatica non è, per ciò stesso, ciò che dice di essere. È gioco, serio e stimolante, che funziona come una muta anticipazione del Regno che viene. Mara-maratonda, testa in basso, gambe in su: “Non sono forse tutte le utopie una sorta di gioco di finzione, immagini o anticipazioni di un mondo che si presenta, in sé, come un campo rilassato in cui le pressioni quotidiane della vita vengono sospese? Se potessimo immaginare un mondo di rinuncianti buddhisti, sarebbe un mondo di pura gioia, in cui le sofferenze e i desideri di questo mondo sono stati abbandonati, dove non esiste coercizione di alcun tipo, né interiore né esteriore”. Certo le circostanze non sono favorevoli, e quando mai.

 

Come tutte le verità, anche questa si fa e non si dice. La si riconosce, però, quando ci si sta dentro. “Ogni giorno, ogni istante, è la piccola porta da cui entra il messia”. È lì, davanti e al tempo stesso dentro, e lascia una impronta, un anticorpo che ci permette di riconoscerla ogni volta che ci stiamo per pochi, incandescenti momenti—non più di così, i roveti ardenti non si toccano con le mani. Ma è proprio la gioia di una vita ascetica il modo in cui direi l’eredità più importante di Bellah e Pasolini, qualcosa che i due hanno fatto e che hanno lasciato agli altri nella divergenza delle loro esperienze. “Luterano” l’uno, “puritano” l’altro, entrambi però graziati, almeno a tratti, da una effervescente allegria intellettuale e carnale che sarebbe stata assai fuori luogo nella Augustinerstraße di Erfurt nel 1506 o nel New England del 1637. Confucianesimo, ma anche taoismo. Platone, ma anche Diogene. La Callas, ma anche i Prati di Caprara.

 

C’è, forse, in Bellah un tratto che lo indica più di Pasolini come esempio di quello che si può fare cercando un minimo di congruenza tra idee e vita—soddisfacendo così anche il kafkiano ispettore che, senza alcuna ironia, ha già preparato il conto. In Bellah, dicevo, l’obbligo paradossale di sovrapporre gioia e ascetismo deriva dalla comprensione della radicale storicità della condizione umana come apertura di possibilità di risonanza. Dalla rottura assiale in poi l’esperienza del vero, pur mediata da una moltitudine di simboli, rimane un’opzione concreta. Una porta, ogni giorno, seppur piccola. Eat me. Drink me. Fare l’intellettuale è solo un modo di vivere la condizione umana, ma tra i molti modi è il modo capace di ricordare lo scarto, il resto, lo sfasamento che c’è. Non fosse altro perché, diversamente da salumieri e tabaccai, l’intellettuale legge e scrive. Ci riesce solo di rado e comunque solo per pochi istanti—ma lascia una traccia del suo fallimento.

 

È tempo di tornare a casa. Sapere e scienza, direbbe lo zio Max, sono una vocazione se e quando si intrecciano con la vita, non quando sono un semplice mestiere o, ancora peggio, una carriera. Per questo le marionette di Totò, Bellah e Pasolini, con la faccia verde, bianca o rossa, rimangono interessanti. Molto più delle loro idee, che saranno comunque antiquate tra dieci, venti, cinquant’anni, ci preme la sofferta eppur gioiosa posizione dei due (dei tre?) davanti alla tensione tra verità e vita. Ma, si diceva, possiamo solo guardarli da lontano, senza sperare che le parole possano mai cogliere ciò che di vero, e forse anche di buono, c’era o ci sarà.

 

Bibliografia

Agamben, G. (2010) La Chiesa e il Regno. Roma: Nottetempo.

Bellah, R. N. (2011) Religion in Human Evolution. Cambridge MA: Harvard University Press.

Cacciari, M. (2020) Il lavoro dello spirito. Milano: Adelphi.

Carrère, E. (2015) Il Regno. Milano: Adelphi.

Pasolini, P. P. (2003) Saggi sulla politica e sulla società. Milano: Mondadori.

 

Grazie a Paolo Costa, René Capovin, Valeria Palazzolo e, per la prima volta sul mio schermo, Matteo Santarelli.

 

[Immagine: Robert N. Bellah].

3 thoughts on “Intellettuali e verità. Una variazione su Robert N. Bellah e Pier Paolo Pasolini

  1. L’IMPERATIVO CATEGORICO, L’ETERNO RITORNO, E I LAVORATORI E LE LAVORATRICI DELLO SPIRITO . Vita e verità……

    “Quanta differenza può sussistere tra ciò che si professa scrivendo e ciò che si fa di sé (e degli altri) per mantenere una certa credibilità? Siamo sicuri che il kantiano di grido applichi sempre, caschi il mondo, l’imperativo categorico? Com’è possibile che il valido esegeta dell’Etica nicomachea non sia capace di tenersi un amico per più di tre settimane? […] È tempo di tornare a casa. Sapere e scienza, direbbe lo zio Max, sono una vocazione se e quando si intrecciano con la vita, non quando sono un semplice mestiere o, ancora peggio, una carriera. Per questo le marionette di Totò, Bellah e Pasolini, con la faccia verde, bianca o rossa, rimangono interessanti. Molto più delle loro idee, che saranno comunque antiquate tra dieci, venti, cinquant’anni, ci preme la sofferta eppur gioiosa posizione dei due (dei tre?) davanti alla tensione tra verità e vita. Ma, si diceva, possiamo solo guardarli da lontano, senza sperare che le parole possano mai cogliere ciò che di vero, e forse anche di buono, c’era o ci sarà” (M. Bortolini, “Intellettuali e verità. Una variazione su Robert N. Bellah e Pier Paolo Pasolini”, Le parole e le cose, 27.07.2020: http://www.leparoleelecose.it/?p=38927)

    Federico La Sala

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