a cura di Franca Mancinelli

 

[Seconda puntata della rubrica Punti luce, a cura di Franca Mancinelli, che ha chiesto a scrittori e scrittrici di scegliere un’immagine o un suo dettaglio, e di raccontare, nel modo più libero e aperto, questo incontro. Dopo Fabio Pusterla con Luca Mengoni, oggi Antonella Anedda dialoga con Sophie Calle].

 

Antonella Anedda

Cacciatrici

 

Sophie Calle è, per parafrasare il titolo di Charles Simic su Joseph Cornell, una cacciatrice di immagini, ma anche di parole. Le sue opere escono dall’ambiente protetto dell’arte e della scrittura, delle gallerie e dei circoli letterari. Mettersi a caccia di immagini, implica uscire fuori dalla tana di noi stesse, di noi stessi, per affrontare anche quello che ci atterrisce. Il coraggio non esclude lo spavento, ma può farne una materia su cui agire declinandolo nello spazio del quadro, della performance, della pagina scritta. L’operazione è una dislocazione dello sguardo che nasce da una riflessione sulla perdita, un esercizio di spossessamento che porta in una terra dove l’io si affievolisce e sono le vite degli altri a contare.

 

Nel 1978 Sophie Calle chiede a degli sconosciuti di dormire nel proprio letto, poi li fotografa e scrive testi su queste foto. Il corpo lascia una traccia, un avvallamento nel letto, un odore – ottimo per un cacciatore – un rimpianto. Si piange quell’assenza, si rimpiange, fiutandolo, un calore. È il primo lavoro di Calle e l’inizio di un percorso artistico senza recinti e con molte libertà, molti rischi, molta ironia che culmina nel suo lavoro più noto e più spettacolare: l’installazione presentata a Venezia nel 2005, Prenez soin de vous. Tutto partiva da questa frase – che non può non suonare ironicamente crudele – con cui il partner dell’artista decideva di chiudere, per lettera, la loro relazione. Un dolore, certo, ma molto comune. La risposta di Calle è stata di trasformare questo abbandono in una grande riflessione sul tradurre, affidando e facendo leggere e analizzare la lettera a donne diverse. Ogni lettura, ogni intonazione traduceva in modo diverso la perdita, la sofferenza, la rabbia, ma anche il sarcasmo. Le donne erano diverse, per età, cultura, professione. Alcune erano note, altre no. Alcune, come l’avvocato, analizzavano il testo secondo la legge inserendo delle glosse quasi bizantine. Altre, come le attrici Kate Winslet e Luciana Litizzetto interpretavano rispettivamente in modo tragico e comico la lettera. Ognuna leggendo traduceva il proprio rapporto con l’assenza e la separazione, lo rileggeva. Rileggere, ripetere: si chiede ancora ri-petendo ma anche, si accetta che rilettura e ripetizione lascino cadere qualcosa, perdano lungo il loro tragitto, diventino altro. Questa decelerazione, questo depotenziamento del pathos determina un distacco dall’io. Nella ripetizione si insinuano la lentezza, la stanchezza. Un’ombra di salute, un’ombra di salvezza. Per tradurre ci vuole distacco. Bisogna attraversare, riattraversare il testo – in questo caso il dolore che sta dentro il testo. – Questa equazione: ripetizione = rallentamento del dolore, era stata al centro anche di un precedente lavoro di Calle intitolato: Douleur Exquise. Esquisite pain è un termine medico che indica un dolore insopportabile, atroce in una determinata parte del corpo. Anche questa volta il tema è quello di un abbandono, anzi di un doppio abbandono, e uno di questi addii è reso irrevocabile dalla morte. Una delle immagini di quest’opera in cui scrittura, oralità e foto sono davvero inseparabili rappresenta Sophie inginocchiata con un kimono dietro una porta scorrevole di carta di riso. La stanza è vuota, la posa è quella del samurai o della gheisha, assolutamente composta: la carne imbavagliata nella veste scura, le mani intrecciate in grembo. La linea delle frasi coincide con la linea delle labbra assottigliate, quasi stirate sul viso che è invece allungato dalla pena, completamente invaso dal vuoto, e terreo. Davanti alla sua figura compare la scritta UNHAPPINESS. È la ritualizzazione della propria infelicità ma dietro questa immagine, davanti a questo testo che esibisce e dà un nome alla pena, c’è una storia. A Nuova Delhi, nell’albergo in cui avrebbe dovuto incontrare l’uomo che amava, Calle riceve invece da lui una telefonata di rottura. Sempre telefonicamente le viene comunicata la notizia della morte del padre: un doppio dolore, insopportabile, rovente. Una delle foto di Douleur Exquise è quella del telefono – rosso –, filo che trasmette la voce di chi abbandona all’orecchio di chi viene abbandonato ma anche voce che comunica un abbandono ancora più definitivo da parte di qualcuno con cui non si potrà mai più parlare. È a questo punto che Calle decide, per i restanti giorni del viaggio, di chiedere alle persone che incontra di raccontare il momento peggiore della loro vita. Il dolore è durato cinque ore e un quarto, dice una donna alla quale l’ostetrica aveva detto che probabilmente il bambino sarebbe nato morto perché con lo stetoscopio non sentiva più il cuore. Cinque ore e un quarto di travaglio totale di assoluta disperazione. Finalmente il bambino nasce, è vivo. Ho lanciato uno sguardo assassino allo stetoscopio, aggiunge la donna e a fianco della pagina con la sua storia compare la foto, scura, funebre di uno stetoscopio arrotolato come un budello. Calle scopre ascoltando che più è attenta agli altri meno è attenta a se stessa. In qualche modo realizza l’affermazione di Jenny Holzer quando dice: “più invecchio più sono interessata agli altri”, ma anche di Simone Weil: “chaque fois qu’on fait attention on detruit du mal en soi.” L’attenzione al mondo ci distrae dalla nostra limitatezza. Ogni storia raccontata era fitta di dettagli legati a quel momento doloroso, ogni storia insegna l’arte del perdere. Il viaggio negli altri ridimensiona e scioglie la propria sofferenza. L’immagine che Calle costruisce per Douleur Exquise intreccia ordine del rito e abbandono al dolore, disordine interiore e disciplina del soffrire. Calle tratta l’autobiografia in modo rivoluzionario, partendo da una posizione di apparente narcisismo, ma raccontando se stessa si distacca da un io ormai passato. Ironia, nessun sentimentalismo, una grande curiosità. Il risultato non è la freddezza: chi vede i suoi lavori percepisce il suo dolore, la sua solitudine, perfino la sua confusione, ma allo stesso tempo ammira la forma che riesce a dare a questi stati d’animo e impara. In La Filature, Calle aveva chiesto alla madre di assoldare un detective per seguirla e fotografarla: lo scopo era “certificare” una realtà, un’identità di cui è lecito dubitare. A sua volta Calle ha seguito l’uomo che l’aveva seguita. Cacciatori. L’identità è fragile, provvisoria. È una riflessione sulla poesia, su chi sia io e chi sia tu. Su questa linea si dispone Suite venitienne. A Parigi Calle aveva conosciuto un uomo e aveva deciso di seguirlo fino a Venezia. Dopo aver scoperto il suo albergo chiede a una donna che abitava di fronte di poter fotografare questo quasi-sconosciuto diventato proiezione di tutti gli amanti possibili. Chi di noi non lo ha fatto o almeno pensato? Perlustrare i luoghi di chi amiamo, mangiare dove ha mangiato, calpestare la strada che ha percorso. Un’appropriazione, non esente da violenza, ma mitigata in questo caso dal fatto che l’uomo in questione era e resta sconosciuto. Vivere le vite degli altri, scrivere le vite degli altri. Calle non ha perso occasione per ribadire il ruolo preponderante della sua scrittura rispetto alle sue immagini precisando che le interessa non solo l’opera appesa al muro, ma il muro stesso come superficie in grado di accogliere un testo. Questa superficie, questo tipo di superficie la costringe a creare frasi brevi, efficaci, lapidarie, come in Les Tombes: tombe senza nome fotografate in un cimitero americano di Bolinas, un piccolo centro a pochi chilometri da San Francisco e designate solo dal loro ruolo all’interno della famiglia: mother, father, son. Più che riflettere sulla morte, Calle lavora sulla sua rappresentazione, sul suo spettro. All’assenza di nome proprio si contrappone la presenza di un corpo vero nella tomba. La fotografia fa da tramite tra vita di chi guarda e la realtà di queste morti. La genericità degli epiteti: padre, madre, figlio amplifica la nostra capacità di immedesimazione, ci raggela con la sua universalità.

 

Petite notione autobiographique

 

Sophie Calle è stata una fonte di ispirazione per La vita dei dettagli, soprattutto per quanto riguarda l’ultima sezione intitolata Perdere. Ho ritagliato alcuni dettagli relativi a due persone: una morta, una lontana, ho colorato la loro assenza. Il collage non è solo colla, ma forbici, lame. In un primo tempo avevo pensato al sangue, al rosso, poi ho deciso per un altro colore: terra bruciata che ricorda il sangue raggrumato e rimanda al fare terra bruciata. Quando si dà una concretezza alla perdita, quando la si sistema la si trasforma in una tavola alla quale tutti possono mangiare e in fondo non si è più padroni di nulla. Non è più una questione privata. Ci sono ritagli, resti, trattati quasi chirurgicamente, deposti sul foglio come in una mappa. Ho immaginato e voluto una visione dall’alto, quasi aerea. Sotto quello sguardo le cose, le tragedie non solo rimpicciolivano ma si confondevano, l’assenza con la morte, il tempo dell’una, lo spazio dell’altra. Anche i luoghi perdevano i confini e chi non sarebbe più tornato si perdeva in chi se ne stava andando. Mi interessava che facessero i conti con la distanza, con la distesa del tempo (per la morte) e dello spazio (per la lontananza). Nel collage ci sono anche tracce di lettere scritte a mano. Nulla di strano anche questa volta, chi almeno nella nostra generazione non è stato toccato dalla calligrafia della persona amata? L’inchiostro sul foglio, quell’incontro con il bianco, l’inclinarsi o meno dell’alfabeto. In un lavoro che poi non è stato incluso nel libro ho ricopiato, ricalcato quelle scritture, la carta carbone resisteva per una, due copie e poi diventava sempre più pallida fino a scomparire e questa perdita faceva parte del processo di allontanamento proprio come le storie che Calle si era fatta raccontare da quelli che incontrava.

 

 

Elizabeth Bishop: “Poetry is a controlled panic.”

 

C’è un elemento ritmico e rituale che non smette di dialogare con la perdita. Sophie Calle ammette che il suo lavoro mette in scena le sue paure, la sua timidezza. Il rischio fa parte del gioco come quando nel 1989, mettendosi letteralmente nelle loro mani, ha chiesto ad alcuni abitanti del Bronks di portarla a vedere un qualsiasi posto del quartiere. Per quanto discutibile, questa operazione implicava fiducia e allo stesso tempo controllo della paura.

 

Una delle paure più profonde di Sophie Calle è la cecità, anche se non è legata a nessun evento o memoria particolari. Penso alle riflessioni di Bishop intorno alla “Parabola del cieco” di Breughel, contemplata nel 1938 e relative alla precarietà della visione. La visione del quadro è accompagnata nei taccuini da una nota che potrebbe essere stata scritta da Calle e che scavalca ironicamente il tema della cecità morale di Breughel: “Mrs G’s old mother”, scrive Bishop, “who has had two strokes is senile and almost blind – when she started going blind she kept complaining how foggy it was all the time. Mrs G and I’d agree with her because I wanted her to think we all see the same.” Tutti vediamo nebbie.

 

Sea / to see (I am at the sea)

 

In La dernière image, Calle ha chiesto a un gruppo di persone diventate cieche di descrivere la loro ultima immagine, lei avrebbe poi provveduto a fotografarla. Un’ekfrasis dal buio. L’ultima immagine si spostava dalla memoria, si staccava dal vuoto e si concretizzava per sempre: l’assenza diventava presenza. Cosa succederebbe se diventassimo improvvisamente ciechi? La nostra memoria sarebbe affollata di ultimi sguardi, di dettagli. Quando ci avviciniamo a un’opera, un dettaglio piuttosto che un altro ci colpisce: non trasgrediamo solo la distanza ragionevole ma tutto lo sguardo. Diventiamo ciechi e da quel buio lasciamo che affiori l’unica, l’ultima cosa. Un anno dopo La dernière image si rovescia in un lavoro sulla prima immagine, o meglio sulla prima volta che qualcuno vede qualcosa. E questa cosa è il mare.

 

“À Istanbul, une ville entourée par la mer, j’ai rencontré des gens qui ne l’avaient jamais vue. J’ai filmé leur première fois”

Prima di confluire nel libro, La dernière image. La première image, la mostra si chiamava semplicemente: VOIR LA MER – SEE THE SEA

 

Ascoltiamo i suoni di queste due frasi: il rotolio –delle onde? – del francese, la distensione nel sibilo – dell’acqua? – nell’inglese. Voir la mer see the sea. C’era gente a Istanbul che non aveva visto il mare nonostante vivesse in una città circondata dal mare. Ha quindi chiesto a 15 persone di tutte le età – dai quindici agli ottanta – di coprirsi prima gli occhi, poi di guardare il mare quanto a lungo desideravano e infine di voltarsi verso l’obbiettivo con gli occhi pieni di mare, ancora pieni di mare.

 

“I went with each person individually”, spiega Calle, “such as this man in his 30s. Before we arrived I made him cover his eyes. Once we were safely by the sea, I instructed him to take away his hands and look at it. Then, when he was ready – for some it was five minutes and for others 15 – he had to turn to me and let me look at those eyes that had just seen the sea.”

 

La fotografia ferma questo momento, mentre il video testimonia tutto il processo inclusa la reazione del viso quando la persona si volta. Le immagini stavolta non hanno testo, solo una breve spiegazione. Questo rende tutto, sottolinea Calle, silenzioso: “This was my first ever “silent” work.”

 

Fine della caccia. Il mare assorbe le parole.

 

[Immagine: Sophie Calle, Lettera].

1 thought on “Punti luce /2: Antonella Anedda e Sophie Calle

  1. Grazie. Ammiro entrambe le artiste che con grande professionalità lavorano, come me, su immagini e parole.

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