di Franco Buffoni

 

[Esce il 5 agosto per Marcos y Marcos, in occasione della discussione alla Camera della proposta di legge Zan contro l’omofobia, Silvia è un anagramma di Franco Buffoni. Ne proponiamo un’anticipazione].

 

Silvia è un anagramma per tre ragioni: la prima meramente testuale

 

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

 

Perché il nome proprio con cui la prima strofa si apre non è che l’anagramma della voce verbale con cui la stessa strofa si chiude.

 

La seconda anagrafica, perché la povera operaia tessile tisica, figlia del cocchiere di casa Leopardi, sulla quale si concentra la pietosa riflessione del contino-poeta, si chiamava in realtà Teresa.

 

La terza perché, nell’esclusione della giovane dalle gioie della vita, Leopardi vede riflessa la propria esclusione, ma non per il suo aspetto fisico – come il neutro accademico eterosessuale italiano ha sempre voluto credere e far credere – bensì per la sua natura di “recchió” in un contesto altamente omofobico.

 

Che cosa significa porre potenzialmente anche quel dato – l’omosessualità – in dialogo con gli altri dati? Significa smetterla di pensare che in poesia gli omosessuali siano esistiti soltanto nel Novecento perché Saba Penna Pasolini e Bellezza l’hanno dichiarato. Mentre su tutti gli altri andrebbe solo stesa e strenuamente difesa una grigia patina di neutro eterosessuale. Grigia quanto i crani e l’animo di tanti accademici. Quanto invece sarebbe importante porre anche quel dato nel novero delle possibilità per Giacomo Leopardi o per Giovanni Pascoli (per esempio), le cui biografie – per come vengono da secoli propinate agli studenti italiani – appaiono incomprensibili, assolutamente irrisolte.

 

Ecco così stagliarsi il Leopardi più segreto, quello non ancora accettato dall’accademia italiana, il Leopardi omosessuale, esule a Napoli per amore, a mantenere – con il mensile che gli passa Monaldo – il bellimbusto eterosessuale Antonio, e a sfogarsi con gli scugnizzi in cambio di “avarissime mance”.

 

Inutile illudersi: ci sarà sempre qualcuno che continuerà a sostenere che le biografie non contano. Se fosse così, se il dato biografico non contasse, perché Benedetto Croce si oppose alla pubblicazione dei Neoplatonici di Luigi Settembrini, un testo che rivelava chiaramente l’orientamento omosessuale di un padre della Patria?

 

E ci sarà sempre qualcuno che, senza avere davvero letto le lettere di Leopardi a Ranieri, continuerà a voler credere che la loro fosse solo un’amicizia, per il semplice fatto che nell’Ottocento quello era il tono “normale” delle lettere tra amici. E citerà le lettere di Engels a Marx, quelle di Nietzsche a Peter Gast, o di Baudelaire a Hugo. Aggiungerà che persino Puccini e Carducci erano molto affettuosi coi loro amici. E continuerà imperterrito a ritenere che Aspasia fosse la Targioni-Tozzetti.

 

Certo, lo sappiamo tutti: le amicizie virili, la camaraderie. Ma, santi numi, ci sarà pure una differenza tra Engels che nel 1867, commentando i primi movimenti di liberazione omosessuale in Germania, scrive a Marx: “Se questi vincono, dovremo andare in giro con le mutande di latta…” (aprendo per altro la via alla lunga serie di capi comunisti omofobi che giunge fino a Togliatti e Che Guevara, Fidel Castro e Putin), e Giacomo che scrive ad Antonio: “Ti ripeto ch’io t’amo quanto si può amare in questa vita, e che ogni giorno, ogni ora ti sospiro.” E ancora: “Tutto il tempo che passo senza di te mi pare, ed è veramente, perduto.” Infine: “Se in tanta mia nullità posso servirti in qualche cosa, comandami”.

 

Qui non si tratta di affermare la genialità di autore in virtù del suo orientamento sessuale, quanto di comprenderne appieno la vicenda umana e artistica alla luce di una restituzione necessaria. Il fatto che un artista non abbia voluto o potuto manifestare esplicitamente la propria omosessualità non può e non deve inibire lo storico che cerca di recuperare il senso più autentico dell’opera e della poetica dell’artista stesso.

 

Un grande poeta deve la sua grandezza anche alle esperienze e al vissuto, ergo anche alla sua affettività, al soddisfacimento o alla repressione dei desideri, alla lotta che è stato costretto ad ingaggiare con la sua contemporaneità.

 

Affermare che qualcuno possa essere un artista prescindendo dalle proprie passioni è una pura astrazione; ma mentre di Verdi o di Puccini le passioni rientrano nei canoni consentiti, quindi sono studiate ed ammesse, nel caso di Leopardi o di Pascoli l’accademia vorrebbe soltanto che si sorvolasse, non avendole essi stessi dichiarate, o avendole dichiarate in modo solo “schermato”.

 

Dopo aver ricordato che la temperatura delle lettere di Leopardi a Ranieri non è assolutamente paragonabile a quella di un carteggio tra amici, altri indizi ci portano a ritenere che non sia stata una relazione d’amore corrisposta, ma un innamoramento a senso unico, che Ranieri seppe sfruttare fino all’ultimo a suo vantaggio. Come giustificare, altrimenti, la distruzione delle proprie lettere a Leopardi da parte di Ranieri? E la sua ansia di cancellare ogni diceria sulla sua “convivenza” con Leopardi?

 

Giacomo, a Napoli, sia nei luoghi deputati al battuage, sia più frequentemente in casa, riceveva ragazzi di vita: scugnizzi per i quali era Zi’ Giacomino. Ranieri usciva, Paolina tollerava, ripuliva, brontolava e Leopardi la odiava. Ma era lui a pagare l’affitto.

 

Come giustificare altrimenti i continui traslochi tra vari quartieri della città se non per fuggire “le dicerie”? Insomma, voler ridurre la relazione tra Leopardi e Ranieri a mera amicizia risponde all’esigenza ipocrita di velare come “squalificante” la realtà sentimentale del recanatese in fuga. Mentre nulla è più tipicamente omosessuale della necessità di fuggire dal borgo natio – dove tutti “sanno” – per rifugiarsi nell’anonimato della grande città.

 

A smentire definitivamente quanti continuano a sostenere che toni e contenuti delle lettere di Leopardi a Ranieri fossero “normali” nelle amicizie virili ottocentesche, è Ranieri stesso, e in modo inequivocabile. Nel Sodalizio infatti, a proposito delle “libertà” che il contino si prendeva per iscritto nei suoi confronti, Ranieri afferma: “Ma, io confesso, che non avrei mai inteso concedergliele”. Quando esce il Sodalizio, nel 1880, Leopardi è ormai un genio italiano riconosciuto universalmente, e il settantaquattrenne senatore del Regno Antonio Ranieri – che quelle lettere ha fatto pubblicare perché gliene venisse imperitura gloria riflessa – ne scrive in questi termini: “Insino da una prima pubblicazione di questa specie, io, tre volte tentai di farne lettura, e tre fui preso dalla febbre”.

 

Ranieri anziano, dichiarando di avere per tre volte tentato di rileggere quelle lettere e di non essere mai riuscito a portarne a termine la lettura, perché preso da febbre, alias vergogna, dimostra chiaramente due cose: la prima che quelle lettere sono esplosivamente lettere d’amore d’un uomo per un uomo; la seconda ch’egli è schiavo dell’omofobia del suo tempo.

 

Curiosamente tre anni dopo, nel 1883, il collega latinista di Pascoli, marchese Niccolò Persichetti di Santa Mustìola, accoglierà all’Aquila – proveniente proprio da Napoli – l’esiliato fautore del nascente movimento omosessuale tedesco Karl-Heinrich Ulrichs, replicando in uno speculare gioco delle parti, e in ottica senile anziché giovanile, un altro ben curioso rapporto di amicizia-protezione-condivisione.

 

 

Indice di “Silvia è un anagramma”

Variante naturale

In che peccai bambina?

Il fattore “O”

Neutro accademico eterosessuale

Persone e atti

L’anomalia italiana

Laicità

Definizioni e antologie

Genesi psichica inspiegabile

Retaggio abramitico

 

Il contino

Quei fonemi

L’innamoramento

Le lettere di Giacomo a Ranieri

Le lettere di Giacomo e Monaldo

Contino Giacomo in biblioteca

Ciò che Leopardi scrisse sull’amore greco

Fanny donna schermo

Carducci su Aspasia e giovinetto

Più di quanto non si convenga a un uomo

O molto invocato

Le solite obiezioni

Ciò che stabilivano i codici

Chiacchiere sul figlio del conte Monaldo

Giovanissimo, bellissimo

Leopardi a Napoli

Evidenze testuali

Sdraiati accanto

Schiller Hofmannsthal Keats

Sanguineti Solmi Ceserani

Chi vuol comprendere e chi no

L’analogia con Schubert

Lettera a Leopardi

Fanciullina e Gobbo fottuto

 

Zvanì

Padri della Patria – Cavour e il Contino

Padri della Patria – Mazzini e Mameli

Giuseppe e Goffredo

Padri della Patria – Luigi Settembrini

Le quattro fasi

Pippo non lo sa

Lo studente e l’ingegnere

I costumi delle popolazioni meridionali

L’azzurra visïon di San Marino

Karl-Heinrich Ulrichs

Dagli scritti di Ulrichs e Pascoli

Allodole

Piazza Ulrichs

Magnus Hirschfeld

Hirschfeld e il cinema

Mario Mieli e Hubert Kennedy

Allodole e legionari

Fidanzate e promesse spose

Gabriele e Giovanni collegiali

Giovanni Pascoli

La Dickinson italiana

Pascoli un grande

Le pastoie del ritmo

Giovannino e il brigante

D’Annunzio gay

 

Eusebio

Montale-Kniaseff

Ignoranza e pregiudizi ministeriali

Codice Rocco

Montale su Gadda e Penna

Sandro Penna

Mentre Montale

La mannaia e le donne

Il volto di Marcello Mastroianni

Il fetido fiore

Montale anziano

Carlo Emilio Gadda

Saba Sereni

Libero De Libero

Montale nonostante

Gadda e Palazzeschi

Biografia sì o no?

Rebora e la parola senza bacio

Diego Valeri e Marino Moretti

Ungaretti Montale e il 33

Eliot contraltare di Montale

Biagio Marin su Montale e Pasolini

Sulla necessità di contrabbandarsi

 

Colpi di coda

Lo stigma da Stefan Zweig a Piero Chiara

Emanuel Carnevali

Cesare Pavese

Pasolini e Byron

Totò Pasolini e De Mauro

Pasolini Olmi Gadda Tondelli

Enzo Siciliano e i ragazzi della Repubblica romana

Carlo Antonia Mario

Mario Mieli

Lo sciagurato rispose

Cantautrici e cantautori d’antan

Quadri e antologie

I colpi di coda della fase uno

47 thoughts on “Silvia è un anagramma

  1. be’, e allora? forse che si va a esplorare o si rivendica qualcosa per una poeta che ama una donna? o si indaga l’amore eterosessuale di altri poeti? al massimo si fanno dei nomi… E quindi, chissenefrega?
    Però no, a qualcosa può servire, che non si almanacchino fantasie sulla tisica fanciulla, il gobbo e la tisica, cose così. Ma sono miserie critiche.

  2. Non è la prima volta che Franco Buffoni rivendica con veemenza l’omosessualità di un autore defunto.
    Sugli argomenti e le pezze d’appoggio, che possono apparire più o meno convincenti, non ho nulla da dire, e che Leopardi fosse omo o etero a me non cambia una virgola – come sapere che era ghiotto di gelati. Ghiotto di gelati o ghiotto di scugnizzi… Quello che al giorno d’oggi sarebbe considerato un bieco pedofilo all’epoca doveva nascondere non tanto la pedofilia quanto l’omosessualità. Così cambiano le scale di valutazione e di perseguibilità. E che al posto di Fanny Targioni Tozzetti ci si debba immaginare tal Antonio Ranieri non cambia i dati del problema. In letteratura mi pare importante il modo dell’amore, non il modo dell’amato.
    Ma l’osservazione che volevo fare è un’altra. L’anziana madre di una mia amica ha avuto un padre che una cinquantina di anni fa si è suicidato. La signora ne ha sofferto molto, sia perché amava il padre, sia per l’ “onta” che, secondo lei e secondo la mentalità dell’epoca, ne ricadeva sulla famiglia. Ora, questa cara anziana signora, dopo il suicidio del padre, vede suicidi ovunque. Basta che qualcuno muoia nel sonno o che non ci siano diretti testimoni delle circostanze della morte, perché lei acquisisca la certezza che il poveretto si è suicidato. E’ chiaro che “allargare” la casistica dei suicidi, farne qualcosa che tocchi più gente possibile la fa stare meglio, allevia il fondo di vergogna che evidentemente continua a provare.
    Ecco, a me Franco Buffoni fa venire in mente quella signora – il furore di voler comprendere possibilmente tutti nella categoria – esattamente come, stando al narratore della Recherche, la prima domanda che viene in mente ai cittadini di Sodoma a proposito di qualcuno che non conoscono è: “Il en est?”

  3. LA CRITICA, IL CRITICO, E IL FIORE DEL DESERTO…
    DETTO CHE “Silvia è un anagramma per tre ragioni”: A) la prima meramente testuale (“Silvia, rimembri ancora/Quel tempo della tua vita mortale,/Quando beltà splendea/Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,/E tu, lieta e pensosa, il limitare/Di gioventù salivi?”), “Perché il nome proprio con cui la prima strofa si apre non è che l’anagramma della voce verbale con cui la stessa strofa si chiude”; B) “La seconda anagrafica, perché la povera operaia tessile tisica, figlia del cocchiere di casa Leopardi, sulla quale si concentra la pietosa riflessione del contino-poeta, si chiamava in realtà Teresa”; C) “La terza perché, nell’ esclusione della giovane dalle gioie della vita, Leopardi vede riflessa la propria esclusione, ma non per il suo aspetto fisico – come il neutro accademico eterosessuale italiano ha sempre voluto credere e far credere – bensì per la sua natura di “recchió” in un contesto altamente omofobico”, E’ DA RICONOSCERE CHE L’ ACCENTO CADE TUTTO E SOLO SULL’ULTIMA DELLE “TRE RAGIONI”. Che dire? Dov’è la critica, dove l’esame e il giudizio del critico, e dove la bilancia? Lo “Sterminator Vesevo” ha distrutto tutto, anche “la ginestra”?

  4. Libro solido e costruttivo, in grado finalmente di avviare un dibattito sempre più necessario: sulla didattica della letteratura e sulla divulgazione della letteratura, sul metodo di ricerca degli studi di genere e sul loro impatto sugli studi letterari, sulla funzione pedagogica della narrazione biografica. Poi è anche un libro divertente, capace di farci sorridere nonostante la pericolosità dei nostri pregiudizi e degli stereotipi con cui siamo cresciuti (soprattutto a scuola). Ne consiglio caldamente la lettura

  5. Io di bieco leggo solo alcuni commenti e questo rafforza la mia idea sull’importanza dell’uscita di questo libro. Nessuno rivendica con veemenza l’omosessualità di nessuno seulement pour parler, mentre per anni, secoli, si è rivendicata in modo ben più veemente e costrittivo l’eterosessualità come unico modello esistente di vita, come sola possibile pulsione dell’eros. Si può parlare di tutto, ma non penso avrebbe senso con chi non ha una bibliografia aggiornata su temi inerenti alla sessualità. Inviterei, dunque, a svecchiare il proprio grigiore e a una lettura attenta e approfondita del libro e dei suoi intenti, prima di parlare di cieco “furore”, quando questo è uno dei libri più lucidi che potessero uscire, pronto a rimettere in discussione tanti assunti e ideologie, che hanno portato a una sballata lettura sociologica della letteratura e della biografia degli scrittori, ma anche della storia dei diritti tout court, in Italia.
    Ho avuto la fortuna di potere leggere questo libro in anteprima, parlo con consapevolezza, infatti uscirà un articolo a riguardo, con ulteriori anticipazioni, su http://www.mediumpoesia.com il 4 agosto, in cui quello che dico sarà più argomentato e evidente.

  6. @ Francesco Ottonello
    Preciso che io non ho dato del “bieco” a nessuno. Mi riferivo semplicemente ai (pre)giudizi delle diverse epoche storiche. E’ un fatto che attualmente la pedofilia non è ben vista – poi al riguardo si può avere l’opinione che si crede.
    Idem con il furore: l’aggettivo “cieco” lo aggiunge lei. Io notavo semplicemente una (innegabile) smania di cooptare illustri defunti e esprimevo qualche perplessità sulla rilevanza critica dell’operazione. Ad esempio mi sfugge la “funzione pedagogica della narrazione biografica” di cui parla Simone Giusti – forse perché ho sempre nutrito scarso interesse per la narrazione biografica.
    Non dubito tuttavia che il libro sia molto interessante e non mancherò di leggere il suo articolo, del cui link la ringrazio.

  7. Il libro sarà senz’altro da leggere, e si possono anche fare letture critiche sull’implicito, sull’elusività, sulla reticenza. Magnifica per esempio la chiarezza con cui Emily Dickinson allude a ciò che resta comunque nel non detto. Il testo che sopra presenta Buffoni invece svela i segreti, compatisce il povero Leopardi costretto a nascondersi, svillaneggia il conformismo di Ranieri.

  8. APPUNTI
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    Leopardi è poeta grande «in virtù del suo orientamento sessuale»? Buffoni sembra negarlo:«Qui non si tratta di affermare la genialità di autore in virtù del suo orientamento sessuale, quanto di comprenderne appieno la vicenda umana e artistica alla luce di una restituzione necessaria. Il fatto che un artista non abbia voluto o potuto manifestare esplicitamente la propria omosessualità non può e non deve inibire lo storico che cerca di recuperare il senso più autentico dell’opera e della poetica dell’artista stesso». Quindi, non lo si può accusare di “determinismo sessuale”. E però, nella stessa frase, lascia intendere (o suggerisce) che « il senso più autentico dell’opera e della poetica dell’artista stesso» vada cercato (soprattutto?) nell’omosessualità. Ci sarebbe, cioè, un « Leopardi più segreto, quello non ancora accettato dall’accademia italiana, il Leopardi omosessuale, esule a Napoli per amore, a mantenere – con il mensile che gli passa Monaldo – il bellimbusto eterosessuale Antonio, e a sfogarsi con gli scugnizzi in cambio di “avarissime mance”».
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    Prendiamo sul serio la sua tesi e facciamoci un po’ di domande. Vuol forse dire che i lettori – lasciamo perdere gli accademici – che finora non hanno saputo o non hanno dato peso all’omosessualità (vera o presunta o da dimostrare) di Leopardi, non hanno capito nulla della sua poesia? La conoscenza di essa è indispensabile per la comprensione della poesia di Leopardi (come nell’esempio di una poesia analizzata da Fortini [1])? O l’aumenta in modo notevole? Venire a sapere che Aspasia non era Targioni Tozzetti sarà eccitante per gli appassionati di biografie ma un lettore di poesia resterà sconvolto dalla rivelazione e vedrà altrimenti la poesia di Leopardi?
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    Ammettiamo – sempre per ragionare – che l’omosessualità di Leopardi (vera o presunta o da dimostrare) sia stata centrale nella sua vita. Lo è stata – altrettanto e automaticamente – per la sua opera e, in particolare, per la sua poesia? E, per mantenere le proporzioni: quanto lo furono le condizioni storiche dell’Italia di quel tempo o quanto l’idea di mondo che egli si costruì? Insomma, quanto essa verrebbe a pesare rispetto ai tanti altri fattori che produssero quella sua poesia?
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    Quanto al rapporto biografia- poesia. Tra i due estremi (poesia ridotta a biografia e testo senza più legami con biografia e storia) ci sono i singoli casi concreti dei poeti. Quale fu quello di Leopardi? E – più in generale – davvero una poesia o un’opera arrivata fino a noi da secoli oscuri, magari di un autore anonimo e della cui vita nulla o quasi conosciamo, non ci dirà nulla fino a quando non sapremo la sua biografia (magari nei dettagli)?
    +
    [1]

    «Io vorrei prendere l’esempio di una brevissima poesia di Brecht che ha anch’essa un’epigrafe. “Qui giace/ Karl Liebknecht/ che combatté contro la guerra. Quando fu assassinato/ la nostra città c’era ancora”. Si noti che di fronte a un testo come questo viene a mancare quasi del tutto l’idea corrente che la poesia sia intraducibile perché il baricentro, il peso di questi versi non è interno ai versi stessi, è esterno: consiste nel sapere dei destinatari, dei lettori. Per esempio se i lettori non sanno che questo Liebknecht è un rivoluzionario socialista tedesco che è stato ucciso da militari della destra nazionalista tedesca alla fine del 1918, insieme a Rosa Luxemburg; e se non sanno che “la nostra città” di cui si parla è Berlino e che la distruzione di questa città nella seconda guerra mondiale è avvenuta ventisette anni dopo la morte di Liebknecht, questa poesia ci diventa incomprensibile. Tutte le nozioni storiche, morali e politiche che premono intorno a quelle quindici parole – “Qui giace Karl Liebknecht che combatté contro la Guerra, quando fu assassinato la nostra città c’era ancora” – premono intorno a queste parole non diversamente da quanto faccia per esempio la teologia intorno alla poesia cristiana o la mitologia classica per poter capire il canto di Ulisse di Dante. La “guerra” che ha distrutto la “nostra città” di cui si parla nella poesia non è quella contro cui si batté Liebknecht però il suo assassinio è stato un passo verso quella distruzione; ma questa non sarebbe ancora una poesia, la si avverte, anzi essa diventa una poesia, se si capisce che il rapporto di causa e di effetto per la morte del dirigente rivoluzionario e pacifista e la distruzione di un’intera capitale crea un personaggio, non quello dell’assassinato, il personaggio di colui che parla. Quest’ultimo passa da un pensiero all’altro, “qui giace Liebkneicht che combatté contro la guerra – pausa – quando fu assassinato la nostra città c’era ancora”: c’è lo stupore e la tristezza di questa scoperta e di questa connessione tra epoche diverse. Chi parla non è l’autore Brecht, è un suo personaggio, il visitatore della tomba, il berlinese che fra sé e sé ripercorre sinteticamente un cinquantennio di storia. È questa la forza poetica dell’epigrafe. » ( Da Franco Fortini, Che cos’è la poesia?, RAI Educational 8/5/1993)

  9. @Elena Grammann
    Non mi riferivo personalmente a Lei, tuttavia mi è sembrato totalmente fuori luogo il parallelismo tra la “signora dei suicidi” e Franco Buffoni, sinceramente. Per questo, lecitamente, penso che il commento sia stato bieco, ovvero storto, per nulla centrato, non Lei (nemmeno La conosco). Per altro, non è vero, che non cambia niente in un testo il modo (ovvero il gender) dell’amato. Ho prodotto anche un articolo scientifico sulle tradizioni di poesia omoerotica, il discorso è molto più complesso. La criptazione del genere dell’amato è presente in molta letteratura, per non parlare dell’autocensura e omobifobia interiorizzata, che è un portato storico, che è folle non considerare (non il contrario). Perché se non cambiasse nulla, per secoli sono stati falsificati i sonetti di Michelangelo dedicati a un uomo, rendendo i testi sconclusionati e ridicoli? Come si spiega l’invito di Shakespeare al fair youth alla riproduzione (sonnet X), se si maschera come si è fatto a lungo la pulsione dell’Io poetico verso il Tu a cui si rivolge la poesia?
    Non è più accettabile da tempo il pensare che esista a priori un’istanza poetica generica e neutra a livello di Gender, staccata dunque dal periodo storico, dalla provenienza geografica, dalla condizione socio-economica e dunque anche dal genere e orientamento di chi scrive. Ciò non significa trovare simili o diversi, ma esplorare con vaglio critico, squarciare muri di ipocrisia e di manipolazioni (i casi di Michelangelo e Shakespeare sono solo i più esemplari, viva la filologia!).

  10. Penso che per capire e apprezzare a pieno questo libro, bisogna partire dalla “motivazione prima” che ha indotto Buffoni a scriverlo. E credo che essa vada ben al di là di cosa facesse Leopardi nel tempo libero. La ragione predominante è l’indignazione verso il tipo di vita che è toccata in sorte agli omosessuali per secoli, quella di poter essere solo “gay velati”, quando non “gay negati” e perseguitati. Su questo si concentra la critica, la ferrea documentazione scientifica, la storia e la geografia del disonore e del pregiudizio. La vicenda di Leopardi, che sta sullo sfondo e fa colonna vertebrale è come un tronco a quali sono attaccati decine di concetti probatori, di ricerche parallele, di dimostrazioni e documentazioni tanto puntuali e necessarie da non lasciare adito a dubbi. Ma Leopardi, che in tutta la sua vita è stato “l’anagramma” di se stesso, è, seppure titanico, un individuo soltanto. Vi è un intero sistema culturale e politico che, nei secoli, ha negato, perseguitato, cercato di “debellare” l’altra faccia dell’umanità che è l’essere gay. E qui viene la parte più istruttiva, perché viene ricostruita, da Buffoni, con sintesi e capacità di comunicare uniche, da un lato la storia “penale” dell’omosessualità, dagli editti degli imperatori romani fino ai capi dei comunisti apertamente omofobi come Togliatti, passando per il Codice Rocco. Questa storia infame (omosessuali vs. istituzioni di ieri e di oggi) andrebbe fatta studiare nelle scuole superiori, come caposaldo di una nuova materia che dovrebbe chiamarsi “educazione al rispetto” di chi è diverso dai nostri stereotipi pseudotelevisivi. Dall’altra parte, c’è una disamina accurata del mondo della cultura, di tutte le sue riserve mentali, di tutti gli ostracismi, palesi o striscianti, presenti nelle varie articolazioni della macchina culturale, dalle Università al mondo del giornalismo. Anche in questo caso, il repertorio è (purtroppo) ampio e parte da Leonardo per arrivare ai casi emblematici del Novecento. Anche in questo caso, il tema portante è il nascondimento, l’essere velati, la necessità per l’uomo di cultura, l’artista, il poeta omosessuali di doversi creare una seconda natura per potersi esprimere, una poetica che li conformasse alla massa del corpo sociale che fa, o vende, o ricicla arte. Dunque una doppia negazione: omosessuale che sei, non ti è permesso di essere libero né in ciò che fai, né in ciò che crei. L’apparato documentale di Buffoni registra semplicemente questo, che anche nelle epoche più culturalmente illuminate, il pregiudizio e il “fastidio” verso gli omosessuali (ancora di più che contro l’omosessualità come concetto) non sono mai venuti meno. Come se l’omosessuale non fosse una persona, ma un’entità da analizzare, con occhio da entomologo, tenendola sempre (ovviamente) sotto controllo. Da qui la sezione delle biografie paradigmatiche di poeti e scrittori “irrimediabilmente” gay, di cui tutti sapevano, ma come in una sorta di congiura del silenzio. Si sa, ma non si dice, né se ne scrive: Pascoli, Saba, Penna, Gadda, solo per citare i più “vistosi” tra gli invisibili. In questo modo Buffoni, da quel grande umanista che è, con la forza delle argomentazioni e il furore della ricostruzione storico-critica, ci consegna un manuale di storia della civiltà e della letteratura, vista dalla parte di chi non ha mai potuto parlare, né tantomeno scriverla. E quindi, la necessità di capovolgerla, questa benedetta storia degli uomini e della letteratura, per leggerla da un’altra angolazione – diventa, come dire, una logica conseguenza di tutto il discorso sin qui impostato. La pietas che c’è in questo libro è il filo rosso che muove l’autore e invita anche noi a muoverci di conseguenza. Perché non basta essere culturalmente avvertiti o vincere un Nobel. Il caso di Montale, anima eletta, che però derideva e ostacolava i suoi colleghi gay, valga per tutte le altre politiche della negazione nell’industria culturale del Novecento. Bisogna poi possedere quella empatia di cui i gay non hanno mai potuto beneficiare. E mi fermo qui, perché non voglio, come oggi usa dire, fare “spoiler”. Silvia è un anagramma è un libro tutto da leggere. E come succede sempre con i libri in prosa e in versi di Buffoni, dopo aver letto, la lezione resta impressa. Qual è nel nostro caso? Che nessuno sia più costretto ad anagrammare il suo nome solo per sopravvivere e poter rubare alle fobie e ai preconcetti della mondialità, una goccia di umanità, di tenerezza, di amore. Tutto qui.

  11. Se ” la ragione predominante” che ha indotto Buffoni a scrivere questo libro è “l’indignazione verso il tipo di vita che è toccata in sorte agli omosessuali per secoli, quella di poter essere solo “gay velati”, quando non “gay negati” e perseguitati” non ho niente da dire, va bene, in effetti al mondo ci sono state un sacco di cose per cui (adesso) ci si indigna.
    A me sembra però che: 1) per indignarsi meglio, l’indignazione si costruisca ostacoli da assaltare e finisca per sfondare delle porte ormai aperte (credo che versioni filologicamente corrette delle poesie di Michelangelo siano da tempo disponibili, e non credo che il famoso sonetto di Shakespeare sia mai stato falsificato) e, 2) i critici omosessuali (e non parlo del solo Buffoni) vedano omosessualità ovunque – infischiandosene, fra l’altro, delle molte sfumature della sessualità, e applicando il loro acume storico a letterati defunti che non possono né confermare né negare.
    E’ possibile che io sia “grigia” (di capelli sicuro), ma se c’è una cosa che non mi interessa, è andare a frugare nelle mutande della gente.

  12. Occorre sdipanare i fili dalla matassa ingarbugliata. 1. Il passato. Di fronte a secoli in cui l’omosessualità maschile era velata e persino perseguitata ( ma ben più crudeli persecuzioni sono toccate quasi sempre alle donne che amavano altre donne) sono apertamente riconosciuti i rapporti omosessuali maschili in altri secoli – quindi in altre culture. Quindi Socrate ha potuto mentre Michelangelo non poteva. Non è l’omosessualità maschile in quanto tale a essere stata mai oscurata ma gli omosessuali in certi periodi. Riferirsi alla necessità di studiare le sofferenze del passato è un argomento che va quanto meno articolato. 2. La separazione tra privato e pubblico (sociale economico e politico) sprofonda con i mercati e gli stati nazionali le donne con gli omosessuali maschi nel privato, insieme con la miseria, i bambini, i selvaggi. 3. Sulla via di riscattare un’altra ( non “l’altra”!) faccia dell’umanità si arriva alla moltiplicazione dei *gender* e delle razze, alla pluralità di differenze che sfocia in un unico globalismo settorializzato e in una politica che ha di mira solo la moltiplicazione dei diritti, quelli civili e non sociali (nonostante le intenzioni di Judith Butler e di Nancy Fraser di collegare differenze, emarginazione ed esclusioni). 4. L’obiettivo forse non sempre consapevole ma certo realmente agito, è quello antifemminile e antifemminista. Le femministe della differenza, in tutto il mondo, sono attaccate da gruppi di donne trans e da gruppi gay. La differenza sessuale infatti non ha rapporti necessari con il desiderio sessuale. Eppure dal secondo si punta troppo di frequente e in troppi luoghi ad attaccare la prima.

  13. ECCE HOMO! Considerazioni inattuali sull’utilità e il danno della storia per la vita…

    = “Qui giace/ Karl Liebknecht [e Rosa Luxemburg ?]/ che combatté[rono] contro la guerra. Quando fu [rono] assassinato [i]/ la nostra città c’era ancora” (B. Brecht) =

    QUALE LEZIONE “nel nostro caso”? Non solo “Silvia è un’anagramma”, ma anche la “Ginestra” lo è! E, allora, non è forse meglio portare la riflessione avanti e chiedersi se e “perché non possiamo non dirci buffoni” – tutti e tutte?!
    L’urlo di Buffoni, a quanto sembra, rinvia a una antropologia zoppa e cieca (misogina e misandrica)?! Se è così benissimo! Si tratta , allora, di prendere atto della nostra storica cecità e zoppia edica (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=406 ), uscire dalla caverna platonica e, finalmente, aprire gli occhi sulla terra di una antropologia che sia davvero una antropologia: “Ecce Homo”!

    PONZIO PILATO «disse loro : “Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa”. Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato disse loro : “«Ecco l’uomo » (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)”. Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro inservienti gridarono : “Crocifiggi ! Crocifiggi !” Disse loro Pilato : “Prendetelo voi e crocifiggetelo ; io non trovo in lui colpa”. Gli risposero gli Ebrei : “Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio” » (Gv. 19, 4-7).

    Che vogliamo fare ? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo “Ecce Homo” e non capire una “H” (acca) e ripetere ancora il “tradizionale” schema andrologico e ginecologico!?! Boh e bah!?!

    FORSE, non è meglio riprendere il filo della critica dell’economia politica della “ragione pura” contro la “carità pomposa” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)?! O no?!

    Federico La Sala

  14. 1) A occhio e croce le tesi di Buffoni valgono quanto le numerose tesi trattate in decine di saggi e di libri sul Dante segreto: Dante omosessuale, Dante eretico cataro, Dante praticante di magia ecc. Cioè niente, perché frutto di impressioni soggettive non appoggiate su un percorso critico storico-filologico adeguato.
    Ciò non vuol dire che, in assoluto, è da escludere che Dante o altri fossero omosessuali, ma vuol dire che non ne abbiamo prove certe e, a essere rigorosi, nemmeno indiziarie, perché tutti gli indizi addotti (e fatti passare ingenuamente e acriticamente come prove) possono, soggettivamente, essere spiegati in diversi altri modi e sono, alla luce della documentazione reale, spiegati meglio in altro modo.
    Del resto non è vero che la prevalente omofobia ha posto sempre e a tutti il bavaglio. Nel corso dei secoli i testi letterari italiani ci parlano, sia pure in genere sempre con disprezzo, di omosessualità in tantissime occasioni. Lo stesso Dante ne parla a proposito del suo maestro Brunetto Latini e si potrebbe mettere insieme un’ampia antologia con i testi “classici” in cui l’omosessualità è emersa.
    Ma il percorso di ricostruzione e comprensione critica delle biografie e dei testi non può basarsi su impressioni soggettive, spesse volte da parte di “militanti” che hanno fatto, dell’omosessualità o dell’ereticità o dell’esotericità una ideologia, e della critica storica e letteraria un’arma ideologica.
    Dunque, da parte di chi vuole sostenere l’omosessualità di Leopardi (platonica, attiva o passiva?) mi aspetto un percorso critico più serio e solido dei giochetti sull’anagramma fra “Silvia” e “salivi”, che è ragione ridicola, come le altre due elencate da Buffoni.
    2) In quanto al rapporto fra biografia e poesia, a mio parere la biografia può illuminare la poesia, ma solo se la poesia, per propria luce, accende quella curiosità che spinge a saperne di più. Una brutta e oscura poesia non diventa bella nemmeno a chiarirne il significato e, viceversa, una bella resta bella, anzi diventa più bella, se se ne chiariscono i significati a prima lettura oscuri. La biografia non muta il giudizio estetico di fondo, ma può permettere al lettore di acquisire qualcosa in più per convalidare e migliorare quel giudizio. In sostanza, l’interesse a conoscere la biografia di un autore nasce dall’interesse già suscitato dalla lettura dell’opera, e di per sé non accresce il valore estetico, ma lo contestualizza meglio. Questo può portare delle variazione in fatto di giudizio estetico perché questo tipo di giudizio non è mai esente da componenti soggettive personali; ma le variazioni saranno tanto minori quanto più il giudizio estetico è basato su una buona preparazione critica e una buona sensibilità culturale.
    Se anche si arrivasse a dimostrare in modo certo che Dante o Leopardi o chiunque altro sia stato un omosessuale, per i lettori esperti non cambia nulla, sul piano estetico. È per i lettori ideologizzanti che può cambiare, poco o molto, il proprio atteggiamento.
    3) Il percorso biografico ha un interesse storico e culturale in senso ampio e molto meno in senso estetico. Può servire a migliorare, nel senso di precisare, anche il giudizio estetico quando lo arricchisce di elementi capaci di aumentarne il coinvolgimento emotivo, sia nel senso della reazione emotiva legata all’interesse culturale, cioè ai contenuti (che è interesse diverso da quello della curiosità erudita), sia in quello della reazione emotiva per la bellezza della forma poetica.
    Ma la ricostruzione biografica ha questa efficacia solo se stabilisce rapporti certi e ravvicinati fra la biografia e l’opera e non si ferma alla narrazione esteriore della vita dell’autore, che può avere interesse di per sé, ma è altra cosa dall’interesse del lettore dell’opera. Il rapporto certo si ha quando dalla biografia emerge il percorso personale, culturale e mentale seguito dall’autore per scrivere quell’opera, quella poesia o quel singolo verso. Questo permette al lettore di leggere l’opera o la poesia anche nel modo stesso in cui l’autore è giunto a pensarla e a scriverla. Questa ricostruzione di nessi fra biografia e opera non può pertanto basarsi su impressioni soggettive ma deve fondarsi su documenti storici e filologici che portino a quella, e solo a quella, spiegazione. Solo in questo caso, quando la spiegazione documentata diventa accettabile da tutti, si può parlare di prova, e non di semplice e opinabilissima ipotesi personale.
    4) Faccio un esempio. Dante, nel canto 33 del Purgatorio, verso 43, scrive: «nel quale un cinquecento diece e cinque». Verso carico di mistero e di simbologia che ha dato origine alle più svariate interpretazioni che, raccolte, formerebbero una biblioteca intera. E per un solo verso! Le diverse interpretazioni variano fra quelle del tutto campate in aria e quelle che permettono di guadagnare qualcosa in termini di effettiva comprensione. Le prime si basano su ipotesi personali, più o meno cervellotiche, le seconde sulla ricostruzione della cultura di Dante, dei libri che ha effettivamente letto, dei testi che gli sono serviti come fonte di ispirazione e come modelli anche per aspetti linguistici e filosofici. In questo modo si è arrivati a dare un senso compiuto al verso e, a mio parere, in maniera difficile da controbattere. Significato compiuto non in senso generico, perché a questo ci erano arrivati anche i primi commentatori, ma nello spiegare parola per parola e nel dire perché “cinquecento”, perché “diece”, perché “cinque”, rintracciando il significato di questi simboli numerologici in testi precedenti e coevi a Dante e in contesti analoghi a quello dantesco. Ci è arrivato in modo più completo ed esauriente Domenico Guerri in un lungo saggio del 1907. Tuttavia questa dotta ed eruditissima spiegazione, come tutte le altre, non cambia il senso complessivo del passo dantesco e il giudizio estetico, tanto è vero che ancora oggi i commentatori, soprattutto nei testi scolastici, commentano il verso in modo generico o addirittura in modo sbagliato, traducendo i tre numeri nel sostantivo “DVX”, perché comunque di un “Duce” si parla. In effetti il lungo saggio di Domenico Guerri è affascinante di per sé come esempio di serrata ed eruditissima ricostruzione del percorso culturale di Dante fino al dettaglio, ma per il lettore della “Commedia”, non interessato ai dettagli eruditi, è del tutto inutile perché non cambia la sua reazione emotiva né il gusto della lettura e il piacere che ne può trarre. È invece interessante per chi vuole leggere Dante anche dal punto di vista di Dante stesso, sforzandosi di pensare come pensava Dante nello scrivere i suoi versi.
    ***
    Diverso mi pare il problema posto da Ennio Abate con l citazione di Fortini.
    5) Il problema che si è posto Fortini in questo commento a una poesia di Brecht è analogo a quello che ai suoi tempi si era posto Ugo Foscolo nel tradurre il “catalogo delle navi”, passo del canto II dell’Iliade. È un passo che suona noioso, quasi solo elenco di nomi, ma, dice Foscolo, ognuno di quei nomi per il lettore dei tempi di Omero evoca paesi, genti, personaggi, con tutto il carico di emozioni legato a questa evocazione. Anche oggi il lettore, per apprezzare quel brano, deve cercare di immedesimarsi con i greci dei tempi omerici, perché solo in questo modo quei versi gli parleranno e gli riveleranno tutto ciò che contengono.
    Anche in questo caso «il baricentro, il peso di questi versi non è interno ai versi stessi, è esterno: consiste nel sapere dei destinatari, dei lettori». Come dice Fortini. Non lo metto in dubbio. Metto invece in dubbio che la poesia che trova il suo baricentro all’esterno sia davvero poesia e non semplice narrazione ed evocazione che non emoziona per la sua forma e il suo contenuto ma per il contenuto che ha il lettore nella sua testa. La narrazione (che sia in versi o in prosa è uguale), ha in questo caso un effetto retorico che sollecita una risposta adeguata non da parte di tutti ma solo da parte di chi condivide gli stessi contenuti che assumono per forza un carattere “identitario” (di cultura, di ideologia, di affinità etnica ecc.). La poesia sta nel particolare punto di vista psicologico e nelle emozioni che lo accompagnano, non nella forma scritta. Ma il rapporto fra poesia come particolare forma scritta e poesia come sentimento del poetico, come sentimento nutrito da particolari emozioni, è tema pieno di equivoci perché, come fa anche Fortini, è investito dei molteplici significati del termine “poesia”. Mi fermo pertanto col dire che la vera, o comunque migliore, poesia è quella il cui baricentro è interno ai versi stessi, per dirla con le parole di Fortini.
    6) La poesia con il baricentro esterno ha bisogno di spiegazione, di cultura appropriata, perché la sua capacità di emozionare sta negli effetti oratori e retorici che trovano nella forma scritta lo stimolo di partenza, ma che si concretizzano e completano nella psicologia del lettore. La poesia con il baricentro all’interno può invece essere autonoma e letta e apprezzata senza bisogno di particolari spiegazioni. E la poesia autonoma per eccellenza è la lirica.
    L’«Infinito» di Leopardi, qualunque cosa si dica dell’autore, qualunque cosa ne sappia il lettore, non muterà in diminuzione o in accrescimento la sua potenza espressiva e poetica, casomai potrà solo meglio spiegare perché ci fa l’effetto che ci fa.

  15. … e comunque l’allusione, la reticenza, i vuoti che chiamano completamento del lettore (che fanno parte della categoria retorica della parabola, dove è l’analogia costruttiva a collegare due diversi exempla) sarebbero un fecondo obiettivo critico nel caso di Leopardi omosessuale, più che isolamento e dolorismo sentimentale.

  16. Una settimana fa è uscito Silvia è un anagramma e da più parti mi si sollecita a rispondere alle critiche.
    Certo, potrei farlo, ma non credo che avrebbe senso quando chi critica dimostra palesemente di non possedere una bibliografia aggiornata sui temi inerenti all’orientamento sessuale e agli studi di genere.
    La triste condizione di molta cultura italiana deriva dal fatto che una numerosa schiera di accademici e letterati rifiuta di mettersi al passo con le ricerche dei loro colleghi operanti nel mondo civile.
    (E che cosa si intenda per mondo civile, è ben spiegato a p 11 di Silvia è un anagramma).
    Ringrazio comunque tutti coloro che hanno commentato e le tremilaquattrocento e più persone che hanno espresso qui il loro apprezzamento.

  17. “Certo, potrei farlo, ma non credo che avrebbe senso quando chi critica dimostra palesemente di non possedere una bibliografia aggiornata sui temi inerenti all’orientamento sessuale e agli studi di genere.”

    Lo faccia, Buffoni, Segua, se è in grado, l’esempio di Fortini:”Bisogna scaldarsi – disse all’incirca – con quello che si ha. Io su molte cose preferisco essere un arretrato, un tonto, perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È giusto che sia così, Non servono le ultime novità. Un buon manuale liceale spesso è sufficiente. In filosofia o punti sullo specialismo o punti sull’ignoranza. I due – il filosofo e il tonto – s’incontrano e vanno a passeggio conversando. ” ( E. A.,Un «filo» tra Milano e Cologno Monzese: Franco Fortini e i “periferici” (Carteggio e appunti 1978 – 1991))

  18. Sono evidentemente duro d’orecchio e di comprendonio e quindi ho bisogno del vostro aiuto: non capisco che cosa c’entri la probabile omosessualità di Leopardi con l’anagramma Silvia / salivi.

  19. Nuovamente e da più parti sollecitato a rispondere alle critiche a “Silvia è un anagramma”, sintetizzo qui il mio pensiero:

    Trent’anni fa, il 17 maggio 1990, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sancì definitivamente che l’omosessualità è una variante naturale dell’umana sessualità. Quindi: nessuna malattia e di conseguenza nessuna cura o terapia riparativa.

    Ne consegue che – non esistendo più un modello unico di orientamento sessuale da darsi a priori – si può finalmente accedere con nuovo sguardo anche alla storia della poesia e della letteratura italiana.

    A tale modello unico, però, buona parte dell’accademia italiana è ancora profondamente legata.

    Per questo in “Silvia è un anagramma” parlo di una persistente patina di “neutro accademico eterosessuale”.

    E io non desidero proprio avere l’impressione di discutere di copernicanesimo col cardinale Bellarmino.

    Ribadisco: la triste condizione di molta cultura italiana deriva dal fatto che una numerosa schiera di accademici e letterati rifiuta di mettersi al passo con le ricerche dei loro colleghi operanti nel mondo civile.

  20. @ Andrea Malaguti

    Non mi pare che il nuovo intervento di Buffoni risponda alla sua domanda – d’altra parte non vorremmo assolutamente costringerlo a discutere di copernicanesimo con defunti cardinali. Tenterò una spiegazione autonoma.
    Intorno agli anni ’70, insegnanti di liceo tolemaici e del tutto incivili ci dicevano peraltro già tranquillamente che la povera Teresa Fattorini non era più che un’identificazione di comodo, priva di ogni fondamento, per l’elemento di una struttura poetica – che era ciò che interessava. E lì, francamente, si fermavano.
    In che senso l’osservazione che “Silvia” è l’anagramma di “salivi” ci permette di andare oltre?
    Ma è ovvio: nel senso che “salivi” suggerisce “salivi in carrozza”; ma la carrozza è guidata dal cocchiere, ed ecco che alla fasulla Silvia e alla fuorviante Teresa si sostituisce magicamente la tessera giusta: non la figlia ma il padre: il cocchiere di casa Leopardi. Come dire l’autista. Le chauffeur.

  21. “ Venerdì 26 maggio 2017 – « Un critico, peraltro raffinatissimo, come Stefano Agosti esaltò i giochi del significante nella poesia sino a suggerire che la bellezza di una celebre poesia di Leopardi dipendeva da rapporti anagrammatici come quello tra “ Silvia “ e “ salivi “. Su ciò non possiamo essere d’accordo. L’estetica intransitiva è cosa del passato. Oggi la letteratura è tornata a essere, per molti di noi, una forma di conoscenza. » (Giovanni Bottiroli, La letteratura, se iniziassimo davvero a studiarla?, in Doppiozero) “.

  22. Sono discorsi complicati, l’equilibrio fra testo e contesto non esiste neppure al momento della creazione, figuriamoci nella posterita’. E’ sempre piu’ il poetico (il messaggio, il contenuto) ad apparire rilevante rispetto alla poesia (il testo, la forma), motivo per cui ogni discorso diviene infine sociale, di rekazione, ossia politico. Questo anche in considerazione del fatto che ne’ le forme chiuse ne’ un quaderno di traduzioni sono richiesti preliminarmente a chi scrive e/o si occupa di poesia, mentre lo sono a chi fa Conservatorio, motivo per cui virtuosi come Frasca e traduttori eccezionali vengono considerati esattamente come poeti prosastici o rigattieri e traduttori stonati o imprecisi. Se la poesia non e’ piu’ talento ed orecchio, ma discorso sociale e di relazione, non interessa piu’ al di fuori della stretta comunita’, perche’ Frasca, Buffoni o Laqualunque pari sono.

  23. Personalmente, anche se non mi occupo più di studi di genere in modo accademico, ritengo sempre importante si alzino più voci rispetto agli autori e alla critica canonica. Che la critica accademica abbia troppo sovente cassato tutto quanto “eccedeva” dal “pensiero dominante” è talmente ovvio da non necessitare alcuna argomentazione (basta conoscere un po’ di cultural studies o postcolonial studies per saperlo). Né alcuno si è mai chiesto, in quanto appunto “dominante”, se davvero fosse importante interrogarsi su Beatrice: del resto diviene impossibile non farlo per chiunque voglia commentare Dante (che il nome sia omen, figurale o meno). Per Proust, ad esempio, è lo stesso: come comprendere criticamente Albertine Simonet se non si è a conoscenza che è anagramma (imperfetto) di Alfred Agostinelli? O come leggere l’Orlando di Woolf senza conoscere la sua liaison con la nobile Vita Sackwille-West? O come interpretare “Le Coup de Grace” di Yourcenar senza sapere che quel “libro che ha su ogni copia il tuo nome” è dettato, anche, dall’incontro con Grace Frick, incontro che chiuderà un’epoca per la scrittrice e che farà di Frick la sua compagna per 42 anni? Analizzare le biografie (dunque anche gli amori degli autori) è un elemento ovvio della critica e della storia della letteratura e lo resta anche (e sottolineo anche) quando l’amore è gay/lesbico. Per mero dovere scientifico. Sondare, ipotizzare, mostrare, discutere, porre in rilievo, non dovrebbe che arricchire il panorama, il confronto e la conoscenza.

  24. Premetto che non ho nulla contro l’arricchimento del panorama, del confronto e della conoscenza, che avviene di norma attraverso la discussione. Premetto anche che l’ambiente accademico, al quale non appartengo, mi è tanto estraneo quanto indifferente – ma non mi pareva che il libro di Buffoni si rivolgesse in primis al mondo accademico.
    Ho qualche difficoltà con l’espressione “comprendere criticamente Albertine Simonet”. A leggerla così, sembrerebbe che Albertine Simonet sia non dico una persona del mondo reale, ma almeno un personaggio a tutto tondo, concepito come autonomo da un romanziere realista, sulla cui psicologia si possono fare più o meno fondate ipotesi – e non, come è il caso, un’immagine proiettata dallo sguardo del Narratore il quale, riguardo a quella immagine, ci dice tutto quello che il lettore ha bisogno di sapere.
    Sapere che dietro Albertine si nasconde, in qualche misura, Alfred, può aiutare a capire certe circostanze “esterne” (es. la libertà un po’ sorprendente di cui godeva una “fanciulla” comunque della buona borghesia), ma non aggiunge nulla alla dinamica dell’amore secondo Proust.
    Aggiungo, io, che se per capire un personaggio è necessario sapere che il suo nome è l’anagramma (perfetto o imperfetto) di – forse non vale nemmeno la pena di perderci del tempo.

  25. “ 23 novembre 1985 – « Comunque l’erotismo, anche se di origine istintuale, ha un suo valore culturale: la poesia, ad esempio, è stata spesso ispirata da impulsi non sessuali ma erotici. “ Che vuol dire? – replica Chiarelli – Anche il gallo canta, cantano gli uccelli e il gatto miagola. Sono « serenate »: noi diamo tanto valore alla poesia, ma questa non è altro che una serenata indiretta, più generalizzata, ecco tutto. Dante scriveva di Beatrice, o Leopardi di Silvia, Petrarca di Laura: serenate messe in poesia. Gratta gratta, è tutta una faccenda ormonale. “ » (Dai giornali) “.

  26. “Ah, correte, gridò: Silvia è sforzata.”

    Torquato Tasso, Aminta, in Il teatro italiano. La tragedia del Cinquecento. Tomo secondo. Einaudi, Torino, 1977 p. 694

  27. Grazie a Buffoni per il link.
    Ho trovato l’intervista molto interessante, molto chiara e molto simpatica (e anche witzig, in sé: impagabile quando all’intervistatore viene la tosse incoercibile).
    L’ ascolto mi ha pure gratificata: a forza di sentirmi rimandare a bibliografie che non conosco mi ero quasi convinta di essere retrograda e vieux jeu. Invece no, sono all’avanguardia: già da tempo felicemente approdata alla fase 4. Forse per questo la ricognizione fra i poeti del passato per vedere quanti ne possiamo arruolare nei ranghi gay mi era sembrata poco interessante.
    Ma se di scelta di campo si tratta (incredibile che siamo ancora lì), allora vai con gli anagrammi.

  28. Ho appena ascoltato l’intervista radio su Silvia è un anagramma, dopo aver scoperto con un po’ di sgomento questa discussione su post di Franco Buffoni. Non ho ancora letto il libro, che però ho comprato subito: mi interessano gli studi di genere, che poi non sono altro che un modo di integrare il tradizionale metodo di contestualizzazione storica tenendo conto di alcuni dei più rilevanti fattori che influiscono sulla disuguaglianza e la discriminazione sociale.

    Mi stupisce che gli studiosi italiani formati allo storicismo, che spesso si vantano di portare uno sguardo benjaminiano sulla storia dei vinti, stentino a capire che si tratta della prosecuzione naturale di quello stesso metodo storico-materialistico, solo con altri mezzi, più aggiornati grazie anche a una sacrosanta modernizzazione della sensibilità che, effettivamente, si è imposta prima all’estero che in Italia. Da questo punto di vista, il discorso di Franco Buffoni non mi sembra così diverso da quello che faceva Virginia Woolf sull’ipotetica sorella di Shakespeare in Una stanza tutta per sé, a sua volta affine a quello di Carlo Dionisotti sui Chierici e laici o di Franco Fortini sulla sorella Paolina. Per fare storia sociale della letteratura si devono ricostruire anche le condizioni della “normalità” sociale e le possibilità concrete – cioè materiali, economiche, giuridiche, di riconoscimento, insomma tutto quello che contribuisce a predeterminare l’autonomia e la felicità degli individui – che si aprivano o chiudevano per autori e autrici in un certo contesto storico: per una certa categoria di persona a quel tempo era possibile mantenersi da sola o doveva dipendere da un mecenate? Poteva sposare chi desiderava? Poteva godere di tempo libero e di uno spazio autonomo in cui esercitare la sua vocazione? Non vedo nulla di riduzionistico in questo procedimento, peraltro già ampiamente applicato in relazione all’omosessualità nel campo della storia dell’arte (riduzionistico sarebbe spiegare un’opera attraverso un unico fattore). Se poi si parla di poesie d’amore, il problema poi trascende la storia sociale della letteratura e tocca direttamente la questione del desiderio e della sua espressione formale. Siamo sicuri che il fatto che dietro Albertine si celasse Agostinelli non tolga nulla alla presunta descrizione “universale” di alcune dinamiche del desiderio? Sì e no… Almeno per me, saperlo rende la questione della storicità dei sentimenti più intrigante e complicata.

    Comunque sia, che i lettori di un sito letterario che ruba il nome a Foucault si scandalizzino tanto, sinceramente, ha qualcosa dell’incredibile.

  29. “Comunque sia, che i lettori di un sito letterario che ruba il nome a Foucault si scandalizzino tanto, sinceramente, ha qualcosa dell’incredibile.” (Carnevali)

    A scandalizzarsi qui pare sia soprattutto lei. Veda che in genere i commentatori e le commentatrici hanno fatto domande e mosso obiezioni che avrebbero potuto avere risposte e dar luogo ad approfondimenti necessari e utili. Visto che volete “sprovincializzarci”, imparatelo a fare senza snobismi.

  30. Ma chi si scandalizza, scusi? A me sembra che si stia semplicemente discutendo dell’interesse letterario di un’informazione. Per lei è rilevante, come qualsiasi altra informazione sull’autore; per qualcuno, che si interessa meno all’autore e più al testo, lo può essere di meno. Non ci vedo nessuno scandalo, al massimo (come suggerisce Buffoni nell’intervista) un’idea di letteratura che andava per la maggiore una quarantina di anni fa – il che, questo mi permetto di dirlo io, non significa che non sia interessante e sostenibile anche ora.
    Buffoni stesso, nell’intervista, dice che il libro ha il senso di una giustizia riparativa nei confronti di persone che hanno subito un torto, piuttosto che di un contributo alla comprensione dei testi. E certo è inteso nel senso, assolutamente condivisibile, di una normalizzazione delle reazioni emotive di fronte alla non univocità del desiderio amoroso.

  31. «Ma chi si scandalizza, scusi?». Ma avete letto i primi commenti a questo post?

    Sono stata allieva di Francesco Orlando e conosco le buone ragioni con cui nella critica che cercava di emanciparsi dal positivismo si separavano biografia e opera. Trovo ancora migliori quelle che si evocano a sostegno della stessa operazione in filosofia: «Aristotele nacque, visse, lavorò e morì», insegnava il massimo sostenitore di questo metodo, Martin Heidegger. A differenza della letteratura, la filosofia è una forma discorsiva che in genere pretende di recidere i legami con l’esperienza (e quindi anche con il «supporto empirico» del pensiero, l’individuo che pensa) per attingere verità universali, mentre molti degli scrittori di cui stiamo parlando, a cominciare da Leopardi e da Proust, esibiscono questo supporto dicendo spesso e volentieri «Io». Questo non vuol dire che l’«Io» poetico coincida con quello biografico, anzi, ma mi si riconoscerà che anche per arrivare a definire e separare il primo bisognerà pur esplorare a fondo il rapporto tra i due. E qui torniamo alla rilevanza dell’omosessualità “empirica” per interpretare la poesia d’amore: è di interpretazione, credo, che stiamo parlando, non di semplice godimento nel recitare dei bei versi .
    Aggiungo poi che, per quanto mi riguarda, persino in filosofia il metodo della grande separazione mi sembra poco interessante, non solo perché mortifica figure come Rousseau e Nietzsche, ma perché nega la storicità delle forme espressive e culturali, e si priva della possibilità di fare un po’ di luce nel mistero per cui la persona che vive e quella che pensa e che scrive sono allo stesso tempo uniche e distinte.

  32. “TAVOLA ROTONDA: questa gloriosa denominazione dei cavalieri di re Artù, fu data ad alcuni, pare molti, gentiluomini della corte prussiana (conte di Eulenburg) che formavano camarilla con sodomia. Denunciatore il giornalista Max Harden (1907); onde il senso osceno della frase; compagnia di ‘uranisti’, ‘omosessual’i. Vizio denominato ‘amicizia’.”
    Alfredo Panzini, Dizionario moderno delle parole che non si trovano negli altri dizionari, Hoepli, Milano, 1935 p. 697

  33. “Ma avete letto i primi commenti a questo post?” ( Carnevali)

    E allora critichi quelli, magari precisando quali. Invece di sparare un: “Comunque sia, che i lettori di un sito letterario che ruba il nome a Foucault si scandalizzino tanto, sinceramente, ha qualcosa dell’incredibile.”

  34. Che densità di Nomi Propri.
    A parte il fatto che nessuno nega la storicità delle forme espressive e culturali, che va di parecchio oltre la biografia dell’autore ed è riconoscibilissima nel testo, la signora Carnevali sull’importanza della biografia può avere l’opinione che vuole, non per questo sarà necessariamente quella giusta – sempre che esista un’opinione giusta e non, più verosimilmente, una discussione.
    In fin dei conti la questione è annosa: Proust contro Sainte-Beuve, no?

  35. Conclusivamente, per quanto mi riguarda: io non sono interessato in alcun modo a ” fare luce ” su alcunché, naturalmente in ambito letterario. Forse è per questo che non ho fatto il professore. Ma, come si sa, nessuno è perfetto. Buona lettura a tutti.

  36. Attendo di avere per le mani il libro, che mi interessa parecchio. Chiedo però direttamente a Franco Buffoni, che non so come raggiungere altrimenti, il perché del titolo. Per favore, mi si corregga se sbaglio: Silvia è l’anagramma di “salivi”, ma è anche, ho sempre pensato, una vita parallela a quella di Giacomo che scrive, perché tanto la tela è faticosa quanto le carte sono sudate. L’unica differenza e che a Silvia viene a mancare la vita e a Giacomo la speranza. Perché Silvia dovrebbe essere solo un anagramma? Che cosa non riesco a capire?

  37. Gentile Malaguti,
    se ascolta l’intervista a RaiRadio3Suite che ho postato qualche giorno fa, e se legge l’articolo di Simone Giusti il cui link appare qui sopra, dovrebbero risultarle più chiare le finalità di un libro di 335 pp, che prende sì le mosse da Leopardi, ma che poi dedica eguale spazio a Pascoli, a Montale e a numerosi altri personaggi otto-novecenteschi. Dando rilievo ai codici (Zanardelli e Rocco) e alle legislazioni dell’Italia pre-unitaria e post-fascista. Serviva un titolo evocativo e facilmente memorizzabile. L’anno scorso per un’operazione simile compiuta sul mondo anglosassone (Byron, Wilde, Auden) scegliemmo Due pub, tre poeti e un desiderio. Quest’anno si è deciso di incentrare il titolo sull’autore più rappresentativo e, tra varie opzioni. questa ci è parsa la più efficace. Incidentalmente le ricordo che titolo e copertina sono scelte di pertinenza dell’editore. Quello che lei scrive, comunque, è assolutamente condivisibile. Aggiungo: Silvia è davvero un anagramma? Sì, lo dice lei stesso. Ma lei aggiunge un’altra domanda: perché Silvia dovrebbe essere solo un anagramma? Che Silvia sia solo un anagramma però il titolo non lo afferma. La lettura del libro le darà anche altri elementi su cui riflettere: per esempio il titolo di un romanzo – Silvio – che Leopardi aveva intenzione di scrivere e che purtroppo rimase solo un progetto. La saluto, ringraziandola per l’attenzione: sarò contento se vorrà inviarmi il suo giudizio di lettura.

  38. Caro Professore, la ringrazio della risposta e dei chiarimenti. Avevo ascoltato l’intervista e quindi avevo chiare le finalità del libro, ma m’era meno chiaro il rapporto del titolo con le finalità stesse. Ora penso d’aver capito meglio. Appena potrò leggere il libro, sarò lieto di farle sapere le mie impressioni.

  39. Dalla rassegna stampa di questi giorni:

    Srf, Guardian:
    Chopin era gay, ma le lettere che scriveva in polacco agli uomini sono state tradotte al femminile
    (Elena Tebano)

    Frédéric Chopin era gay, ma la sua omosessualità è stata a lungo occultata o passata sotto silenzio: sia quando era vivo che in seguito dai suoi biografi. È quanto dimostra il giornalista e musicista Moritz Weber sulla base delle lettere private del compositore polacco, in un’inchiesta radiofonica di due ore andata in onda sull’emittente pubblica svizzera Srf, «Gli uomini di Chopin». Non sarebbe la prima volta che l’orientamento gay o bisessuale di artisti, scrittori e personaggi storici viene omesso: succede da Saffo in poi, soprattutto se sono vissuti (o sono stati raccontati) in epoche in cui l’omosessualità veniva considerata una perversione o una malattia. «Chopin separava deliberatamente ciò che viveva interiormente da ciò che mostrava all’esterno. Prestava molta attenzione al modo in cui appariva al pubblico, un motivo ricorrente nelle sue lettere e una caratteristica che veniva osservata anche da chi gli stava intorno» spiega Weber. «Bisogna conservare il mantello per coprire i sentimenti nascosti» si legge in una lettera del 15 maggio 1830 citata da Srf.

    «Come sempre, porto con me le tue lettere. Come sarà bello per me tirare fuori la tua lettera e assicurarmi che mi ami. E almeno guardare la scrittura e la mano di colui che posso solo amare» scrive Chopin a Tytus Woyciechowski, il 27 marzo 1830. Chopin lo conosceva da quando entrambi erano studenti a Varsavia. Lasciata la Polonia a vent’anni, il compositore mantenne a lungo i contatti con lui. Proprio nel 1830, ricostruisce Weber, Chopin passò due settimane nella fattoria all’avanguardia che Tytus possedeva in Polonia, poi a novembre i due andarono insieme a Vienna. «Ho ricevuto la lettera in cui mi hai detto di baciarti» scriveva Chopin a Tytus un anno prima (il 14 novembre 1829).

    «Chopin ha scritto a questi uomini in polacco. Per molti ricercatori, questa è una barriera che difficilmente può essere superata. Devono dunque far affidamento sulle traduzioni. Tuttavia, molte traduzioni presentano gravi errori. In alcuni luoghi, per esempio, i pronomi maschili polacchi sono tradotti in inglese in pronomi femminili» spiega Weber. È il caso di un passaggio di una lettera a Tytus del 3 ottobre 1829 in cui Chopin scrive: «Ho il mio ideale, che servo fedelmente, e con il quale non parlo da sei mesi, l’ideale che ho sognato per sei mesi, e alla cui memoria è nato l’Adagio del mio concerto, che questa mattina ha ispirato questo valzer che vi mando». Nel volume inglese Lettere polacche di Chopin del 2016 «con il quale non parlo da sei mesi» viene tradotto in «con la quale non parlo da sei mesi», facendo intendere che l’ideale di cui parla Chopin è una donna (secondo Weber si tratta invece dello stesso Tytus, «al quale dedicò le sue Variazioni op. 2 e per il quale compose il Valzer op. 70,3»).

    Il Guardian ha contattato David Frick, ex professore di Yale e traduttore inglese delle lettere di Chopin, il quale ha ammesso che Chopin poteva riferirsi a Tytius Woyciechowski, ma ha negato di aver manipolato intenzionalmente le lettere e ha detto che non c’era nessuna cospirazione dietro alle missive mancanti degli amanti del compositore, che non sono mai state trovate. Certo, Chopin all’epoca aveva tutto l’interesse a non fare sapere che era gay, e quindi non ha mai smentito le voce sulle sue relazioni con le donne (fino a pochi anni fa anche un’intellettuale come Susan Sontag negava anche di fronte all’evidenza di avere relazioni lesbiche).

    Chopin ha avuto anche relazioni con donne? «La maggior parte dei ricercatori è ora d’accordo sul fatto che la tanto descritta“relazione” di Chopin con la scrittrice George Sand non era una storia d’amore in senso convenzionale. Per lui era probabilmente più una sorta di partnership di convenienza» scrive Weber. E Srf aggiunge che «il famoso viaggio invernale nell’allora esotica Maiorca» appare molto diverso da un idillio se si legge come la raccontavano i due protagonisti: «Sand scrive che per lei era una tortura», Chopin dice che è stata «un tormento».

    Weber ha verificato con l’Istituto Chopin di Varsavia (il più rinomato archivio e centro studi polacco sul compositore) la fondatezza delle ricostruzioni che attribuiscono a Chopin altre due relazioni con donne polacche: con la soprano Konstancja Gladkowska e con la sedicenne Maria Wodzinska con cui sarebbe stato fidanzato. «In realtà non abbiamo niente su K. Gładkowska. Con Wodzinska non abbiamo niente» dice a Weber il portavoce dell’Istituto Chopin Aleksander Laskowski. Nonostante questo, la biografia di Chopin del 2018 del musicologo anglo-canadese Alan Walker, che definisce Tytus un «amico intimo» di Chopin afferma che le sue lettere cariche di erotismo indirizzate a uomini erano il prodotto di una “confusione psicologica”, un “colpo di scena mentale”, che ha fatto deviare verso il suo amico il desiderio sessuale «che avrebbe dovuto essere più propriamente indirizzato a Konstancja [Gladkowska]» (ma “più propriamente” in base a cosa? Non è questo avverbio soltanto la manifestazione di un pregiudizio?).

    Chopin infine in Polonia è considerato un monumento nazionale. Ma nel Paese l’omosessualità è apertamente osteggiata: il presidente, Andrzej Duda definisce il movimento per i diritti LGBT una «ideologia peggiore del comunismo». La traduzione corretta delle lettere potrebbe creare qualche imbarazzo all’orgoglio polacco.

    «Le relazioni di Chopin con le donne erano solo voci, basate su note fiorite nelle biografie dei due secoli precedenti. Né l’Istituto Chopin né i suoi biografi sono stati in grado di fornire alcuna prova» conferma Weber. Oltre a Tytus, il giornalista svizzero ha individuato altri uomini con i quali Chopin ebbe legami appassionati, tutti conosciuti da ragazzo quando vivevano negli studentati della città: Jan Matuszynski, studente di medicina, flautista per hobby, che visse dal 1834 al 1836 con Chopin nella Chaussé d’Antin di Parigi. Julian Fontana, pianista e copista, che visse con Chopin alla Chaussée d’Antin dal 1836 al 1838. Antoni Wodzinski, ex combattente per l’indipendenza della Polonia nelle rivolte del novembre 1930. «Chopin aveva già chiesto di me. È diventato ancora più bello. Ci vediamo ogni giorno. La prima sera siamo andati all’opera insieme» scrive a un amico quando si trova a Parigi nell’autunno del 1836. E Chopin scrive a lui: «Credimi, ti penso come penso a Tytus».

  40. Grazie per il richiamo a Chopin. Mi limito ad osservare che – mentre le lettere di Chopin furono deliberatamente falsificate all’atto della pubblicazione, volgendo al femminile nomi e situazioni originariamente declinati al maschile – le lettere di Leopardi a Ranieri non vennero intaccate. Con Leopardi la “negazione” messa in atto fu più subdola e feroce, attraverso un argomento specioso: quello era il “normale” tono delle lettere tra “amici” nel secolo diciannovesimo.

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