di Giacomo Mormino
È almeno dal 1976, l’anno del corso tenuto da Michel Foucault al Collège de France su guerra di razze e razzismo di stato, che il culto mortuale del dodicennio nero tedesco viene collegato a una più lunga vicenda storica che lega vita biologica di una popolazione alla guerra e alla messa a morte delle minoranze razziali. All’interno di quel corso, il filosofo francese chiarì come la principale novità della vicenda nazista consisté nell’aver sviluppato in maniera parossistica i meccanismi di potere instauratisi a partire dal XVIII secolo integrando in uno stesso, mortifero dispositivo – finalizzato alla prevenzione della vita del popolo tedesco – diritto sovrano di uccidere e meccanismi di bio-potere. Operando una strettissima cesura tra questi due momenti, il codice politico nazista puntò a rigenerare la vita della razza tedesca attraverso l’uccisione di massa delle razze considerate ‘inferiori’ e l’esposizione al rischio della morte della propria razza – in una concezione per cui la vita si vivifica solo nell’istante della sua sovrana esposizione di fronte la morte (quella propria, più spesso quella altrui).
Integrando (e in qualche modo correggendo) le riflessioni foucaultiane con spunti filosofici provenienti da Paul Virilio e Jean Baudrillard, qualche anno dopo Gilles Deleuze e Félix Guattari spiegarono come il proprium del nazismo stesse proprio nel processo di autonomizzazione della sua macchina da guerra statale: ovvero nello scatenamento di una macchina da guerra che, invece di restare confinata ad episodio di politica estera, dimorasse al centro dell’architettura politica dello Stato come l’elemento innervante l’intera vita associata. Fondando il regime su una macchina da guerra che aveva come oggetto una guerra slegata da qualsiasi obiettivo politico o economico, i nazisti fin dall’inizio annunciarono alla Germania “a un tempo nozze e morte… E le folle applaudivano, non perché non capivano, ma perché volevano questa morte che passava per quella degli altri” (Millepiani).
Sulla scorta di queste due matrici concettuali (ma si potrebbe aggiungere all’archivio d’ispirazione dell’autore i lavori sulla struttura politica nazista di Franz Neumann o quelli di letteratura di Jonathan Littell e Winfried Georg Sebald) si inserisce l’ultimo libro di Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e Macchina da Guerra (Orthotes, 2019) nella cui introduzione si chiarisce come al cuore della politica nazista dimorasse sì una macchina da guerra assoluta, sciolta cioè da qualsiasi obiettivo, il cui trascendentale però non riposava nella conservazione della vita (quella del popolo tedesco) ma «nell’esaltazione della morte come il suolo di cui impossessarsi» (p. 8). Se è esistita, infatti, una specificità della catastrofe nazista, questa non va ricercata nella natura di “biologia applicata” del regime (come pur venne definita da Rudolf Hess) né nella costruzione di una nazione sul modello di un ospedale al cui capo stava Hitler “il grande medico tedesco” (come nel fortunato manuale di Igiene razziale) che si occupava di curare il corpo politico della nazione attraverso l’uccisione del virus giudaico. Il discorso razzista infatti, sostiene Tuppini, lungi dall’aver avuto soltanto carattere medico-biologico, ha avuto un significato emotivo ed etico diffusosi per merito di alfieri che, prima ancora della gabbanella del medico, indossarono i chitoni degli aedi, di nuovi cantori che inventarono «modelli di soggettivazione che rispondono alla paura della fine» (p. 9).
È, allora, a questa singolare educazione sentimentale, antropologica ed estetica tutta rivolta verso la morte, che conviene gettar luce per non lasciare aduggiare il profilo antropologico di quell’eroe nordico che il nazismo ha voluto plasmare: quell’eroe che vuole decidere e produrre una morte a sua propria misura, una morte autentica perché capace di testimoniare il passaggio di un potere pressoché assoluto – “il potere di scegliere e padroneggiare ciò che di solito non si lascia né scegliere né padroneggiare” (p. 14)
Prima di essere cantata, osannata e ricercata alla propria maniera, la morte resta però anzitutto per i nazisti una presenza che aleggia sulla forma di vita tedesca. Una minaccia che assume il volto dell’ebreo, del proletario, della donna: di tutti quei tipi antropologici che vengono percepiti come metamorfici, instabili, fluidi, an-egoici, capaci di disgregare ciò che è stabile, rendendo promiscuo ciò che per natura si pensava esser solido. Razze fusionali, manchevoli di qualsiasi elemento distintivo, incapaci di alzare steccati sicuri tra il sé e il mondo. La voracità femminea che si concatena cogli altri corpi per farsene invadere e mescolarsi, il proletariato melmoso che si compatta per cambiare le sorti del mondo, l’ebreo paria che rifiuta quell’unico ancoraggio terragno utile all’orientamento, sono rappresentazioni diverse della stessa immagine ambigua, abietta, mezzana di un essere aperto, quindi indeciso e schiavo delle infinite sollecitazioni del mondo.
Com’è noto, la forma storico-politica che la Germania nazista trovò affinché la vicinanza con simili forme di abiezione non deturpasse il corpo della nazione fu la dominazione e la sistematica distruzione delle razze inferiori; tuttavia questa separazione dal corpo dell’altro marciò, spiega Tuppini, parallelamente alla trasformazione del corpo del popolo stesso. Temendo il pullulare di sensazioni incontrollabili del mondo, il nazista si costruì difatti un «corpo corazza» in grado di cementare un Io che tenesse lontano le aggressioni interne ed esterne che potessero bucare la sua corteccia e mettere in discussione il suo statuto di individuo autonomo e separato. Non solo il corpo della nazione, ma anche il corpo in generale doveva partecipare dell’impresa: anche «la fronte, il naso, gli occhi, la bocca, il mento diventano portatori di una volontà, di un indirizzo di pensiero» (p. 62), testimonianza diretta della superiorità della razza.
Il nazista comincia ad auscultare la sua epidermide alla ricerca di qualsiasi segno di compromissione, debolezza, confusione con l’ambiente esterno; viene ossessionato dalla purezza di quelle parti del corpo liminari, più esposte ai segni recati dall’ambiente esterno – le mura della sua corazza-fortezza –, oltre che dagli orifizi che possono introdurre elementi esterni – i pontili di questa corazza. I gerarchi si lasciano suggestionare in particolare dai nasi, la cui funzione non è solo quella di organizzare gli elementi del viso ma, visti di lato, anche quella di delineare il profilo dell’uomo isolandolo dal brulicare dell’ambiente circostante. Vanno alla ricerca del naso greco – che è una linea perfettamente retta tra fronte e bocca – l’unico in grado secondo loro di stagliare una sagoma netta dell’uomo: «la linea dritta fronte-naso taglia via il volto dallo sfondo su cui viene percepito, lo isola, è il segno della separatezza tra l’uomo e l’ambiente, tra l’umanità greca e gli orientali» (p. 65). Al contrario, un naso camuso o aquilino o curvo è frutto di una natura deficitaria perché compromessa, indecisa, non dominatrice dell’esterno.
Lo stesso vale per il colorito della pelle, il più sottoposto alle bizze incontrollabili delle variazioni dell’anima: il rossore dell’innamorato o la bile dello stizzoso. L’uomo nordico sa che la bianchezza rende la sua pelle «una pagina sul quale la minima pulsazione delle arterie incide un segno emotivo» (p. 69) e per questo fa della sua bianchezza il tratto distintivo del suo candore (al contrario, si noti, il corpo ebraico è portatore di tutte le malattie che devastano l’epidermide: la lebbra, la sifilide, la scabbia), ma anche il segno della sua umanità vulnerabile, quindi ancor di più necessitante di una corazza protettiva. «L’opera di selezione e l’educazione fisica devono trasformare il suo corpo in un segno adeguato alla volontà di forma che è tratto determinante della sua anima… per questa ragione il bianco della pelle deve diventare il bianco della pietra» (p. 69). Nettezza del profilo e candore della pelle assicurano il corpo corazza da qualsiasi metamorfosi con il mondo.
Ciò che però la corazza tiene a fatica sepolto dentro il suo metallo è l’insieme inesauribile e irrequieto di affetti che legano il nazista agli altri e al mondo, compreso il mondo della sua razza. Tali affetti, ancora galleggianti sotto la seconda epidermide corazzata, se non adeguatamente diretti e organizzati rischiano di trascinare l’Io lontano dalla Nazione, dalla Razza, risucchiato dal buco nero in se stesso. Il nazismo che inizialmente fa breccia tra i più irrequieti di inizio secolo – i Wandervogel, i reduci, gli insoddisfatti del tempo – si impegna allora a dare sfogo esterno a questo nichilismo, offrendo allo scopo la propria macchina da guerra pura. Una selva di organismi – tra Partito, centinaia di commissioni, amministratori e ministeri – si presta all’opera di mobilitazione delle monadi corazzate che compongono la Volkskraft. Così il metallo della corazza apre i suoi valichi e rinuncia «alla propria condizione anestetica solo a condizione di scontrarsi con un metallo più duro, capace di schiantarlo» (p. 137). Il nazismo smette di inseguire la redenzione nella vita della nazione e si mette alla ricerca dell’apocalisse senza rivelazione, la ricerca di una caduta senza atterraggio possibile. Le alte rovine dei suoi monumenti abbandonati durante la guerra saranno così per i suoi architetti il vessillo con il quale il suicidio nazista glorificherà il suo successo.
I nazisti preparano in questo modo una guerra che non avrà più nulla del duello su vasta scala, l’Halbding di cui parla Clausewitz: quella cosa a metà tra la guerra pura e la guerra continuamente rintuzzata da una politica che ne commisura impegni e sforzi a seconda degli obiettivi da raggiungere. La macchina da guerra nazista sarà linea di fuga impazzita e suicida, uscita da un corpo rigidamente immunizzato dalla corazza: guerra lampo che assume la forma di una battuta di caccia su scala globale.
Heinz Guderian, il famoso generale nazista, definirà non a caso così la strategia militare: Keil und Kessel, dove Keil sta per cuneo, chiglia e Kessel (“trappola”) rimanda al Kesselring, che è la tecnica di caccia che consiste nel chiudere un anello intorno alla preda per stanarla e catturarla. La stranezza del nome, tuttavia, non ci dice solo della trasformazione della guerra in guerra di movimento, dell’incursione e dell’inseguimento preferito allo scontro aperto e frontale, dell’attacco notturno a sorpresa, come pur spiega bene Tuppini. La guerra come più alta forma di attività cinegetica non è solo una delle prime figure con cui la guerra si dà (così Aristotele nella Politica diceva che l’arte della caccia fa parte dell’arte della guerra nella misura in si utilizza «sia contro gli animali selvatici sia contro gli uomini che, nati per essere comandati, non si adeguano, perché questa guerra è giusta per natura physei dikaion touton polemon)» ma anche uno dei suoi esiti più estremi: è il momento in cui il nemico viene abbassato ad animale e il cacciatore, nel mettersi sulle tracce dell’animale, nello studiare i suoi spostamenti, si inabissa anch’esso in territorio bestiale. Così, nel suo infinito braccare e nel suo eterno rilanciare, il cacciatore più che inseguire la selvaggina scopre il torso nudo della sua persona – nel caso nazista, quella pulsione di morte indefinita e suicida che dapprima sepolta dietro la corazza tracima ora per tutto il globo.
Tale arte venatoria troverà riscontro nella furia auto-distruttiva della Panzerwaffe che penetra in territorio nemico senza alcuna precauzione strategica, nei manuali in uso della Wehrmacht che non sistematizzano un piano strategico ma lasciano ampio spazio all’improvvisazione sul campo, nel piano di un Weltblitzkrieg che allunga fino all’Afghanistan e poi all’India la guerra che deve far cadere l’Inghilterra, nel far passare – nelle parole di Hitler – “la strada che porta a Londra da Mosca”, cioè nell’aprire la caccia a territori sempre più vasti, rilanciando continuamente l’orizzonte ultimo cui giungere.
La novità di questo libro risiede dunque nel riaprire il cantiere filosofico sul nazismo da una prospettiva che dismette interamente il, pur fondamentale, paradigma biopolitico con cui il lettore contemporaneo di filosofia interpreta ormai la vicenda del nazismo. Analizzandolo su più piani contemporaneamente – antropologico, politico, architettonico, militare –, Tuppini scopre del fascismo tedesco il suo tratto distintivo ma anche il suo terribile arcano: quell’ebollizione molecolare che trova la propria realizzazione in un movimento di fuga suicidario. Scagliata come un proiettile a tutta velocità, la pulsione dapprima racchiusa all’interno della corazza annienta anzitutto la vita altrui poi, nel suo avanzare, si disfa della sua seconda epidermide facendo collassare il mondo attorno a sé, nel movimento della sua autodistruzione. La terribile illusione nazista fu allora quella di potersi insignorire non della propria vita ma della propria morte, sopravvivendo un istante di più a essa, congelandola in un ultimo sguardo. «Inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio», scriveva Calvino…
Elias Canetti aveva già scoperto e spiegato tutto questo. Non mi pare che venga ricordato.