Premessa
di Davide Nota
Quando Marcuse pubblica Counterrevolution and Revolt [Controrivoluzione e rivolta], da cui mi pare significativo salvare e inserire nel dibattito attuale il saggio centrale dal titolo “Natura e rivoluzione”, è il 1973 e la stagione apparentemente florida delle utopie di trasformazione sociale degli anni Cinquanta e Sessanta ha già intrapreso la sua parabola discendente. Il modello britannico di assorbimento e integrazione dei canoni estetici della rivolta giovanile allʼinterno dei paradigmi della società dello spettacolo si mostrerà vincente e in grado di cambiare radicalmente segno al discorso politico dei vari Sessantotto: il principio desiderante tradotto in paradigma della deregulation liberista, lo spirito libero in libero mercato e lʼhomo ludens sostitutivo del faber quale nuovo protagonista del grande gioco del dadaismo finanziario. Nel mentre una capillare repressione di vecchio stampo dei movimenti di riforma del lavoro: golpe militari nel sud del mondo e omicidi politici mirati in occidente (negli Stati Uniti unʼintera classe dirigente afroamericana viene fisicamente eliminata e anche qualche democratico troppo democratico non troverà migliore fortuna).
È in questo contesto che lʼautore de Lʼuomo a una dimensione, che morirà sei anni dopo nel 1979, traccia il suo testamento politico, connettendosi al Saggio sulla liberazione del 1969, preannunciando il suo ultimo La dimensione estetica del 1978 e rivolgendosi direttamente allʼuniverso dei college americani, nel cuore di quel mondo liberale, alternativo ai modelli paternalistici e autoritari di impianto sovietico, dove confida di consegnare il proprio testimone.
Questo testimone non poteva che perdersi nel vuoto, difatti non conobbe fortuna né sviluppi ulteriori nellʼepoca alla cui fonte venne deposto. Arriva oggi a noi – sulla battigia di questo naufragio storico – come una lettera in bottiglia da cui è possibile, forse, verificare, correggere o riattivare alcuni dei suoi discorsi interrotti.
Se alcuni approcci culturali, come è naturale che sia, cadranno, la sua tesi sostanziale va invece riletta. La grande questione ecologica con cui si apre il nuovo decennio del secolo pare qui preannunciata quale elemento fondativo di un discorso di liberazione integrale della dimensione umana intesa come organismo unitario, fisico e psichico (corpo e inconscio), dal giogo del lavoro di massa, dal suo paesaggio e dal suo immaginario. La natura di cui si tratta non è un concetto metafisico (la proiezione di una aspettativa di quiete sulla brutalità dei processi biologici), né una pratica dellʼoasi o dellʼabbellimento dellʼinvivibilità dellʼesistenza socializzata quanto, piuttosto, lo spazio esistenziale dellʼinutile, della reintegrazione sensoriale e dellʼavventura estetica come paradigmi di civiltà. La presenza umana in tale spazio come movimento armonico e la collettività come ordito delle libertà individuali agite allʼinterno di tale complessità ambientale (mi pare si prefiguri qui una sorta di modello socialista di new economy, di factory – o, come diremmo oggi in Europa, di imprese individuali e piccole società – autonomo dai due grandi cicli della burocrazia statale e del capitalismo industriale).
Sarebbe interessante sviluppare a margine un pensiero, o un appunto di pensiero, sullʼarchetipo del “nemico” nel nuovo millennio, le cui caratteristiche sono lʼinvisibilità e la non prevedibilità delle sue epifanie traumatiche. Dal kamikaze del 2001 al virus del 2020 questo “angelo del terrore” a ciel sereno, indipendentemente dalla sua manifestazione circostanziale, ha avuto il suo impatto coerente tanto sullʼeconomia quanto sullʼimmaginario del mondo globalizzato indicando il paradigma, apparentemente paradossale, di una decentralizzazione imminente. Pare cioè essere il topos baudelairiano e novecentesco della “folla” a essere messo in discussione dalle crisi atipiche di questo ventennio. E con la “folla” a entrare in crisi è il concetto stesso di “centro” (geopolitico ed economico, ma anche nella comune accezione di centro urbano e residenziale). Lo si nota anche a partire dalle nostre piccole città: il “cadavere” è nel perimetro delle mura storiche, mentre nel mondo dellʼarchitettura si svolge un fitto dibattito sul movimento centrifugo della nuova “residenza”, già in atto da diversi anni ma che il trauma sanitario prevedibilmente amplificherà, dai centri urbani verso le campagne in corso di riabitazione (si faccia attenzione a non interpretare questo discorso con i vecchi presupposti del ceto abbiente abitatore di seconde case: una crescente porzione di nuova generazione vive in affitto in case rurali economiche da cui gestisce, tramite internet, la propria attività di partita iva assediata da un sistema fiscale e previdenziale tarato sul secolo precedente). Appunti a margine, che altri sapranno meglio sviluppare.
Al di là di ogni idealismo la lotta dellʼuomo contro la propria estinzione è carattere ontologico della sua stessa presenza di specie sulla terra. La lotta contro un virus non è, per questo, circostanza straordinaria. Fa riflettere piuttosto la sproporzione tra le capacità tecniche accumulate in ambito industriale e militare nei decenni che ci dividono dal testo di Marcuse e la strutturale incapacità degli Stati odierni di salvaguardare le necessità elementari, economiche e biologiche, dei propri cittadini. La crisi che verrà sarà inevitabilmente la crisi di un modello sociale ma ciò che ne conseguirà resta unʼincognita. La stessa questione ecologica può essere declinata in modi diversi e antitetici, repressivi o libertari, classisti o egualitari, addirittura malthusiani, oppure essere strumentalizzata per una nuova guerra fredda tra Stati Uniti e paesi del Brics. Marcuse sostiene che tale questione vada posta al centro di una nuova teoria della rivoluzione.
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Herbert Marcuse
Natura e rivoluzione
I.
Cʼè una nuova sensibilità, che ha contato molto nella trasformazione radicale dello «stile» dellʼopposizione; in questa sensibilità si riflette al suo meglio il nuovo modello storico della futura rivoluzione. Ho accennato a questo argomento nel Saggio sulla liberazione; qui cercherò di indicare che cosa sia in gioco, e cioè la nuova relazione fra uomo e natura – fra la natura propria e la natura esterna. La radicale trasformazione della natura diventa parte integrante della trasformazione radicale della società. La nuova sensibilità, lungi dallʼessere un mero fenomeno «psicologico» individuale o di gruppo, è il terreno su cui il cambiamento sociale si fa bisogno individuale, lʼelemento che media tra la pratica politica per «cambiare il mondo» e la spinta alla liberazione personale.
Si scopre (o meglio, si riscopre) che la natura è alleata di chi lotta contro le società sfruttatrici in cui la violazione della natura rende più grave la violazione dell’uomo. La scoperta delle forze liberatrici della natura e della loro importanza vitale ai fini della costruzione di una società libera diventa una nuova forza tesa alla trasformazione sociale.
Cosa implica la liberazione della natura intesa come veicolo della liberazione dell’uomo?
Il concetto si riferisce (1) alla natura umana: gli impulsi primari e i sensi dell’uomo, fondamento della sua razionalità e esperienza; (2) alla natura esterna, l’ambiente esistenziale dell’uomo, contro cui l’uomo lotta per formare la sua società. Occorre sottolineare subito che la natura, umana о esterna che sia, è entità storica: la natura che l’uomo incontra è già trasformata dalla società, è soggetta a una razionalità specifica che è divenuta, in misura sempre crescente, tecnologica e strumentale, piegata alle esigenze del capitalismo. E questa razionalità è stata fatta pesare anche sulla natura propria dell’uomo, sui suoi impulsi primari. Pensiamo a due sole delle forme tipiche in cui oggi gli impulsi primari si adattano ai bisogni del sistema: l’aggressività viene indirizzata dalla società mediante l’attribuzione dell’atto aggressivo agli strumenti tecnici, il che lenisce il senso di colpa; la sessualità viene indirizzata dalla società mediante il controllo della desublimazione e l’industria della bellezza stereotipa, il che lenisce il senso di colpa e permette quindi una «legittima» soddisfazione.
La natura è parte, oggetto della storia; perciò «liberazione della natura» significa non il ritorno a uno stadio pretecnologico, ma il progresso nell’uso dei risultati della civiltà tecnologica al fine di liberare uomo e natura dall’abuso distruttivo della scienza e della tecnologia poste al servizio dello sfruttamento. Allora si potranno recuperare, al nuovo livello tecnologico, anche alcuni caratteri perduti del lavoro artigianale.
Nella società attuale la natura stessa, controllata in modo sempre più efficiente, è a sua volta diventata una dimensione del controllo sullʼuomo: longa manus della società e del suo potere. La natura mercificata, inquinata, militarizzata, riduce lʼambiente vitale dellʼuomo non solo in senso ecologico, ma anche in senso propriamente esistenziale. Impedisce la cathexis erotica (e la trasformazione) del suo ambiente; toglie allʼuomo la possibilità di trovarsi nella natura al di là e al di qua dellʼalienazione; gli impedisce anche di riconoscere nella natura un soggetto autonomo – soggetto con cui vivere in un comune universo umano. Il libero accesso alla natura nei divertimenti di massa, sia esso spontaneo o organizzato, non ovvia a queste privazioni: costituisce solo uno sfogo della frustrazione che li limita a rendere più grave la violazione della natura.
La liberazione della natura è recupero delle forze naturali che esaltano la vita, recupero dei caratteri sensuali ed estetici estranei a unʼesistenza sprecata in interminabili prestazioni competitive: caratteri che additano quelli nuovi della libertà. Non ci si deve allora stupire se lo «spirito del capitalismo» respinge o ridicolizza lʼidea della liberazione della natura, e la abbandona allʼimmaginazione poetica. La natura, quando non è lasciata stare e protetta come «riserva», viene aggredita in modo scientifico: esiste nellʼinteresse della dominazione, è cosa sprovvista di valore, materia. Questo concetto di natura è il fondamento storico di una specifica forma sociale. Una società libera può avere fondamento e oggetto molto diversi; lo sviluppo dei concetti scientifici si può fondare su una esperienza della natura come totalità vivente da proteggere e «coltivare»; e la tecnologia potrebbe applicare tale scienza alla ricostruzione dellʼambiente della vita.
Dominio dellʼuomo attraverso il dominio della natura: il concreto legame tra liberazione dell’uomo e liberazione della natura si è manifestato nell’importanza assunta dalla coscienza ecologica nei movimenti tesi alla trasformazione sociale. L’inquinamento dell’aria e dell’acqua, il rumore, l’intrusione dell’industria e del commercio negli aperti spazi naturali hanno il peso fisico dell’asservimento, della reclusione. La lotta contro questi fattori è lotta politica, poiché è evidente la misura in cui la violazione della natura è inseparabile dall’economia del capitalismo. È facile «neutralizzare» la portata politica dell’ecologia e strumentalizzarla per abbellire il sistema, ma bisogna egualmente combattere, cominciando subito, l’inquinamento fisico proprio come bisogna combattere l’inquinamento mentale. Portare l’ecologia al punto che non sia più integrabile nel contesto capitalistico significa innanzi tutto ampliarne la portata entro questo contesto.
Nelle teorie sociali il rapporto tra natura e libertà viene raramente reso esplicito. Anche nel marxismo la natura appare per lo più come oggetto, avversario nella lotta dell’uomo con la natura, campo per lo sviluppo sempre più razionale delle forze produttive. Ma in questa forma la natura appare così quale l’ha fatta il capitalismo: cosa, materia prima per la gestione e lo sfruttamento sempre maggiore di uomini e cose. Questa immagine della natura si accorda con quella di una società libera? La natura è solo una forza produttiva oppure esiste anche «per sé» e quindi anche per l’uomo?
Anche il marxismo tende a minimizzare l’importanza della natura umana nella trasformazione sociale – tendenza in netto contrasto con gli scritti giovanili di Marx. Certo, il socialismo renderebbe diversa la «natura umana» perché gli uomini e le donne, tra loro associati, svilupperebbero e appagherebbero, per la prima volta nella storia, i loro bisogni e le loro facoltà. Ma questo cambiamento sarebbe praticamente un sottoprodotto delle nuove istituzioni socialiste perché il marxismo, che pure sottolinea il valore dello sviluppo della coscienza politica, presta poca attenzione alle radici della liberazione individuale, cioè alle radici dei rapporti sociali in cui gli individui vivono più direttamente e con più profondità il mondo e se stessi: presta poca attenzione alla sensibilità, ai bisogni istintuali.
Nel Saggio sulla liberazione ho sostenuto che se non si verificasse un cambiamento su questo piano, la nuova società farebbe rinascere il vecchio Adamo, e che per costruire una società libera bisogna aver prima cambiato il modo di esperire il mondo, bisogna aver rotto con la sensibilità mutilata. Condizionata e «contenuta» dalla razionalità del sistema, lʼesperienza sensibile impedisce tendenzialmente allʼuomo di cogliere le esperienze, peraltro ben poco familiari, che lasciano intravedere possibilità di liberazione. Lo sviluppo di una sensibilità radicalmente nuova, non conformista, assume una importanza politica fondamentale per la portata senza precedenti del controllo sociale operato dal capitalismo avanzato: controllo che si estende al livello istintuale e fisiologico dellʼesistenza. Livello su cui peraltro agiscono, e che rendono attivo, anche la resistenza e la ribellione.
Parlo di «sensibilità radicalmente nuova» perché voglio sottolineare il ruolo attivo, costitutivo, dei sensi nel plasmare la ragione, nel formare cioè le categorie in base alle quali il mondo è ordinato, vissuto, trasformato. I sensi non sono solo passivi e ricettivi ma operano delle «sintesi» alle quali sottopongono i dati primari dell’esperienza. Queste sintesi non sono solo le pure forme di intuizione (spazio e tempo) che Kant considerava inflessibile fondamento regolatore dei dati sensibili. Vi sono forse anche altre sintesi, molto più concrete e «materiali», che possono costituire un fondamento empirico (cioè storico) dell’esperienza. Il mondo ci si presenta non solo nelle pure forme spaziali e temporali, ma anche, e simultaneamente, come una totalità di caratteri sensibili – oggetto non solo dell’occhio (sinopsi) ma di tutti i sensi (udito, olfatto, tatto, gusto). È questa costituzione qualitativa, elementare, inconscia о piuttosto preconscia del mondo dell’esperienza, è questa stessa esperienza primaria che deve radicalmente mutare se vogliamo che sia radicale e qualitativa la trasformazione sociale.
II.
Temi centrali dei Manoscritti economico-filosofici di Marx sono il potenziale eversivo della sensibilità e la natura intesa come campo della liberazione. Quest’opera è stata molte volte letta e interpretata in modo diverso, ma questi due temi sono stati trascurati. Recentemente ci si è serviti dei Manoscritti per giustificare il concetto di «socialismo umanistico» in opposizione al modello burocratico-autoritario sovietico; l’opera ha così dato forza e slancio alla lotta contro lo stalinismo e il poststalinismo. Io credo che questi scritti, nonostante il carattere «prescientifico» e la forte influenza del naturalismo filosofico feuerbachiano, sostengano l’idea più radicale e completa di socialismo, e che proprio grazie ad essi la «natura» trovi il suo posto nella teoria della rivoluzione.
Riassumo brevemente le linee essenziali dei Manoscritti: Marx dice che caratteristica del socialismo è la «completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane», che solo in questa emancipazione consiste la «trascendenza della proprietà privata». Ciò significa lʼemergere di un nuovo tipo di uomo, diverso, per natura e fisiologia, dal soggetto umano della società classista: «i sensi dellʼuomo sociale sono altri da quelli dellʼuomo asociale».
Lʼemancipazione dei sensi implica che, nella ricostruzione della società, i sensi divengano «pratici», che generino nuovi rapporti (socialisti) tra uomo e uomo, tra uomo e cose, tra uomo e natura. I sensi, liberati dalla razionalità dello sfruttamento, diventano anche «sorgenti» di una nuova razionalità (socialista). Emancipati, i sensi respingerebbero la razionalità strumentale del capitalismo mentre ne conserverebbero e svilupperebbero i risultati. Due sono le vie per raggiungere questo obiettivo: la prima negativa, poiché lʼIo, lʼaltro e il mondo degli oggetti non sarebbero più vissuti nel contesto dellʼappropriazione aggressiva, della competizione e del possesso difensivo; lʼaltra positiva, attraverso la «appropriazione umana della natura», cioè attraverso la trasformazione della natura in ambiente (mezzo) a misura dellʼuomo in quanto «essere della sua specie», libero di sviluppare le facoltà specificatamente umane, creative ed estetiche.
«È soltanto per la dispiegata ricchezza oggettiva dellʼente umano che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio per la bellezza della forma, in breve le fruizioni umane, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali, e sono in parte sviluppati e in parte prodotti.» I sensi emancipati guiderebbero, unitamente alla scienza naturale su essi fondata, la «appropriazione umana» della natura. Allora la natura avrebbe «perduto la sua pura utilità», apparirebbe non come semplice sostanza, materia organica о inorganica, ma come forza vitale autonoma, soggetto-oggetto; essenza comune all’uomo e alla natura è la lotta per la vita. L’uomo formerebbe allora un oggetto vivente e i suoi sensi si rapporterebbero «alla cosa per amore della cosa…». Ma ciò può accadere solo nella misura in cui la cosa stessa è Verhalten umano, oggettivato: oggettivazione dei rapporti umani, e quindi essa stessa umanamente rapportata all’uomo.
Questa concezione, straordinaria per mancanza di scientificità e per il carattere metafisico, adombra la teoria materialistica matura: considera il mondo delle cose lavoro umano oggettivato, formato dal lavoro umano. L’attività umana creatrice, in quanto produce l’ambiente naturale e tecnico proprio di una società accaparratrice e repressiva, produce anche una natura disumanizzata; per cui una profonda trasformazione sociale comporterebbe una profonda trasformazione della natura.
Si trasformerà anche la scienza della natura? L’idea della natura come manifestazione di soggettività pare inseparabile dalla teleologia, e la scienza occidentale da tempo la considera tabù. L’idea della natura come oggetto autonomo si è per contro inserita tanto bene nell’universo dello sfruttamento capitalistico che il tabù non ha mai potuto essere toccato: il dominio sempre maggiore e sempre più vantaggioso ottenuto grazie a questo tabù sulla natura pareva giustificarlo in tutto e per tutto.
Ma è vero che l’ammissione della soggettività della natura è concetto metafisico e teleologico incompatibile con la oggettività scientifica? Prendiamo l’affermazione di Jacques Monod sul significato dell’oggettività nella scienza:
Ho cercato di dimostrare… che l’atteggiamento scientifico implica ciò che definisco il postulato di oggettività, vale a dire il postulato fondamentale secondo cui nell’universo non vi è alcun piano, nessuna intenzione.
L’idea della liberazione della natura non implica che vi sia piano о intenzione nell’universo; la liberazione è il piano, l’intenzione possibile degli esseri umani costretti a pesare sulla natura. L’idea implica tuttavia che la natura sia suscettibile di una tale impresa e che nella natura vi siano forze distorte e soffocate, forze che potrebbero appoggiare e rendere più felice la liberazione dell’uomo. Questa capacità della natura la possiamo chiamare «caso» о «cieca libertà»; essa può rendere significativo lo sforzo umano di riscattare questa cecità, di aiutare la natura, come dice Adorno, ad «aprire gli occhi», aiutarla «sulla povera terra a diventare ciò che forse vorrebbe essere».
La soggettività della natura al di fuori di ogni teleologia, «piano» о «intenzione», è un concetto che si accorda con la kantiana finalità senza fine. I concetti più avanzati della Critica del Giudizio non sono ancora stati studiati nella loro portata veramente rivoluzionaria. La forma estetica dell’arte ha come suo correlato, о piuttosto desideratum, la forma estetica della natura (das Naturschöne). L’idea della bellezza è della natura come dell’arte: questa non è una semplice analogia о un’idea umana imposta alla natura; è invece l’intuizione che la forma estetica, emblema di libertà, è un modo (o momento?) dell’esistenza tanto dell’universo umano come di quello naturale, è una qualità oggettiva. Così Kant attribuisce la bellezza naturale «alla natura e al suo potere di produrre liberamente senza alcuno scopo particolare secondo le leggi chimiche…».
Per la concezione marxiana, la natura è un universo che diviene mezzo congeniale alla gratificazione dell’uomo nella misura in cui le forze e le caratteristiche produttive di piacere, proprie della natura, vengono ritrovate e liberate. In netto contrasto con lo sfruttamento capitalistico, la «appropriazione umana» della natura sarebbe non violenta, non distruttiva, tesa alle qualità vitali, sensibili e estetiche inerenti alla natura stessa la quale, così trasformata e «umanizzata», risponderebbe al tendere dell’uomo verso la propria realizzazione, anzi questa non sarebbe possibile senza quella. Le cose hanno una loro «inerente misura» (inhärentes Mass): questa misura è dentro di loro, è la loro potenzialità, che solo l’uomo può liberare, liberando in tal modo la propria. L’uomo è il solo essere che può formare cose «anche secondo le leggi della bellezza».
Estetica della liberazione, bellezza come «forma» della libertà: sembra che Marx abbia voluto evitare questa concezione antropomorfica e idealistica. Ma questo concetto apparentemente idealistico non è forse l’allargamento della base materialistica? Infatti «l’uomo è direttamente ente naturale… un ente corporeo, vivente, reale, sensibile, oggettivo» che ha «oggetti reali, sensibili» come oggetti della sua vita. E i suoi sensi («come organi che sono immediatamente nella loro forma organi comuni») sono attivi, pratici nella «appropriazione» del mondo oggettivo: esprimono l’esistenza sociale dell’uomo, la sua «oggettivizzazione». Non è più «naturalismo» feuerbachiano, è piuttosto l’estensione del materialismo storico a una dimensione destinata ad avere grande importanza per la liberazione dell’uomo.
L’idea della liberazione della natura attraverso la «appropriazione umana» ha tuttavia un preciso limite. Senza dubbio la dimensione estetica è vitale per la libertà, senza dubbio essa respinge la violenza, la crudeltà, la brutalità e per questa ragione diventerà carattere essenziale di una società libera, non nell’ambito separato della «cultura superiore» ma quale forza propulsiva, movente alla costruzione di tale società. Ma ci sono fatti semplici, difficili e forse impossibili da superare, che generano lo scetticismo: potrà mai la appropriazione umana della natura arrivare a eliminare la violenza, la crudeltà, la brutalità del quotidiano sacrificio della vita animale che serve alla riproduzione materiale del genere umano? Parlare di trattare la natura «nel suo interesse» suona bene, ma non è certamente interesse dell’animale venir mangiato, né probabilmente lo è delle piante. L’idea di porre fine a questa guerra e di instaurare una pace perfetta nel mondo animale appartiene al mito orfico, non certo a una concepibile realtà storica. Di fronte alle sofferenze inflitte dall’uomo all’uomo, la campagna in favore del vegetarianismo universale о dei cibi sintetici appare enormemente «prematura»; date le condizioni del mondo, bisogna dare priorità alla solidarietà umana tra esseri umani. Eppure non possiamo immaginare una società libera che non coordini gli sforzi, sotto l’«idea regolativa di ragione», per ridurre conseguentemente le sofferenze che l’uomo infligge al mondo animale.
Nel concetto marxiano dell’appropriazione umana della natura c’è un residuo di ubris della dominazione: la «appropriazione», per quanto umana, resta appropriazione di un oggetto (vivente) da parte di un soggetto. Si offende ciò che è essenzialmente altro dal soggetto che si appropria, e che esiste in proprio come oggetto autonomo, cioè come soggetto! Esso può essere ostile all’uomo, e allora il rapporto è di lotta; ma la lotta può anche aver termine e lasciar posto alla pace, alla tranquillità, alla realizzazione. In questo caso il rapporto di non sfruttamento sarebbe non l’appropriazione ma il suo contrario: cedimento, permissività, accettazione… Il cedimento urta contro l’impenetrabile resistenza della materia; la natura non è manifestazione dello spirito, ne è piuttosto il limite fondamentale.
III.
Il concetto storico della natura come dimensione della trasformazione sociale, anche se non ha implicazioni teleologiche e non attribuisce nessun «piano» alla natura, la concepisce però come soggetto-oggetto, come cosmos con potenzialità, necessità e possibilità proprie. E queste potenzialità possono essere, non solo perché hanno una funzione priva di valore nella teoria e nella pratica, ma anche perché sono portatrici di valori oggettivi che traspaiono da espressioni come «violazione della natura» e «distruzione della natura». Parlare di violazione e di distruzione significa dire che l’azione dell’uomo contro la natura, il rapporto dell’uomo con la natura, offende certi caratteri oggettivi della natura, essenziali all’arricchimento e alla realizzazione della vita. Per queste ragioni oggettive la liberazione delle facoltà umane è legata alla liberazione della natura, e alla natura si può attribuire una verità in senso non solo matematico ma anche esistenziale. L’emancipazione dell’uomo comporta il riconoscimento di questa verità nelle cose, nella natura. La concezione marxiana recupera l’antica teoria della conoscenza come ricordo: «scienza» come riscoperta delle vere Forme delle cose, distorte e negate dalla realtà costituita: eterno nucleo materialistico dell’idealismo. Il termine «idea» che definisce tali Forme non è una «mera» idea, è piuttosto una immagine che illumina ciò che v’è di falso, di distorto nel modo in cui le cose sono «date», ciò che di esse si perde nella normale percezione che se ne ha, nella mutilazione dell’esperienza che è opera della società.
Il ricordare non è dunque reminiscenza di un’età aurea (mai esistita), dell’innocenza infantile, dell’uomo primitivo, ecc. In quanto facoltà epistemologica, il ricordare è piuttosto sintesi, riconnessione delle briciole e dei frammenti rintracciabili nella distorta umanità e nella distorta natura. La riconnessione di questo materiale è diventata dominio dell’immaginazione, e le società repressive l’hanno ufficialmente lasciata all’arte, definendola «verità poetica» – verità solo poetica e quindi non in grado di trasformare effettivamente la società. Queste immagini possiamo chiamarle «idee innate» perché non possono assolutamente presentarsi nella esperienza immediata permessa dalle società repressive, ma in realtà costituiscono una soglia dell’esperienza, al di là della quale le forme immediatamente date delle cose appaiono «negative», negazione delle possibilità che hanno in sé, negazione della loro verità. «Innate» quindi nellʼuomo inteso come essere storico; esse stesse storiche perché sempre e dovunque le possibilità di liberazione sono possibilità storiche. L’immaginazione, in quanto conoscenza, è tesa in modo insolubile tra l’idea e la realtà, tra ciò che è in potenza e ciò che è in atto. Ecco il nucleo idealistico del materialismo dialettico: la trascendenza della libertà rispetto alle forme date. Anche in questo senso la teoria marxiana è l’erede storico dell’idealismo dialettico.
La libertà diventa così «concetto regolativo della ragione», punto di riferimento per chi voglia cambiare la realtà secondo lʼ«idea» (o potenzialità) della realtà stessa, per chi voglia rendere la realtà libera per la sua verità. Il materialismo dialettico concepisce la libertà come trascendenza storica e empirica, come forza tesa alla trasformazione sociale, che anche nella società socialista trascende la forma immediata – non perché tenda a una maggior produzione, al Cielo о al Paradiso, ma perché tende a una lotta sempre più pacifica e gioiosa contro l’inesorabile resistenza della società e della natura. Questo è il nocciolo filosofico della teoria della rivoluzione permanente.
Forza siffatta, la libertà è radicata negli impulsi primari degli uomini e delle donne, è il bisogno vitale di esaltare gli istinti di vita. Bisogna però che i sensi siano capaci di esperire non solo i caratteri «dati» ma anche i caratteri «nascosti» delle cose che possono concorrere al miglioramento della vita. La definizione radicalmente nuova della sensibilità che ne sottolinea il carattere pratico desublima l’idea della libertà senza abbandonarne il contenuto trascendente: i sensi sono il fondamento non solo per la costituzione epistemologica della realtà, ma anche per la sua trasformazione, per il suo rovesciamento ai fini della liberazione.
La libertà umana è dunque radicata nella sensibilità umana: i sensi non si limitano a «recepire» quanto si dà loro, così come appare, essi non «delegano» a un’altra facoltà (l’intelletto) la elaborazione del dato, ma scoprono о possono scoprire da soli, nella loro «pratica», nuove (e più gratificanti) possibilità e capacità, forme e qualità delle cose, e possono affrettarne e guidarne la realizzazione. L’emancipazione dei sensi farebbe della libertà ciò che essa non è ancora, un bisogno sensibile, un obiettivo degli istinti di vita (Eros).
In una società basata sul lavoro alienato la sensibilità umana è ottusa: le cose vengono percepite solo nelle forme e per le funzioni in cui sono date, fatte, usate dalla società costituita e se ne percepiscono solo le possibilità di trasformazione definite dalla società costituita stessa e ad essa limitate. La società costituita viene dunque riprodotta non solo nello spirito e nella coscienza degli uomini, ma anche nei loro sensi; nessun convincimento, teoria о ragionamento può spezzare questa prigione, a meno che la sensibilità fissata e pietrificata degli individui non venga «sciolta», aperta a una nuova dimensione storica, fino a che si spezzi la conoscenza oppressiva del mondo degli oggetti dato – si pezzi in una seconda alienazione: alienazione dalla società alienata.
Oggi, nella rivolta contro la società dei consumi, la sensibilità si sforza di diventare «pratica», veicolo di una ricostruzione radicale, di nuovi modi di vita. La sensibilità è diventata una forza nella lotta politica per la liberazione. E questo significa che l’emancipazione individuale dei sensi è concepita come l’inizio, о addirittura il fondamento, della liberazione universale e che la società libera deve mettere radici nei nuovi bisogni istintuali. Come è possibile? Come può lʼ«umanità», la solidarietà umana come «universale concreto» (e non come valore astratto), come forza reale, come «prassi», trarre origine dalla sensibilità individuale, e come può la libertà oggettiva trarre origine dalle facoltà più soggettive dell’uomo?
Siamo di fronte alla dialettica dell’universale e del particolare; come può l’umana sensibilità, che è principium individuationis, generare anche un principio di universalizzazione?
Vediamo come è stato filosoficamente impostato questo problema dall’idealismo tedesco, origine intellettuale della concezione marxiana. Kant: un sensorium universale (pure forme dell’intuizione) costituisce l’unica struttura unificata dell’esperienza sensibile e così giustifica le categorie universali dell’intelletto. Hegel: la riflessione sul contenuto e sul modo della mia certezza sensibile immediata rivela il «Noi» nell’«Io» dell’intuizione e della percezione. Quando la coscienza ancora irriflessa raggiunge il punto in cui diventa conscia di sé e del proprio rapporto con gli oggetti, in cui ha esperito un mondo «trans-sensibile» «dietro» l’apparenza sensibile delle cose, scopre che anche noi siamo dietro il velo dell’apparenza. E questo «noi» si svela come realtà sociale nella lotta tra Servo e Padrone per il «mutuo riconoscimento».
Questa è la svolta sul cammino che conduce dallo sforzo di Kant per riconciliare uomo e natura, libertà e necessità, universale e particolare alla soluzione materialistica di Marx. La Fenomenologia di Hegel rompe con la concezione trascendentale di Kant: la storia e la società entrano nella teoria della conoscenza (e nella struttura stessa della conoscenza) e si sbarazzano della purezza dell’a priori: l’idea di libertà comincia a materializzarsi. Ma uno studio meno superficiale dimostra che la stessa tendenza era già presente nella filosofia di Kant, in tutto lo sviluppo dalla Prima alla Terza Critica:
(1) Nella Prima Critica la libertà del soggetto è presente solo nella sintesi epistemologica dei dati sensibili; è relegata nelle pure sintesi dell’Io trascendentale: è il potere grazie al quale lʼa priori costituisce il mondo oggettivo della esperienza; conoscenza teoretica.
(2) Nella Seconda Critica si raggiunge l’ambito della prassi postulando l’autonomia della persona morale, il suo potere di dare origine a una causalità senza spezzare la causalità universale che governa la natura: la necessità. Ciò a prezzo della sottomissione della sensibilità all’imperativo categorico della ragione. Resta oscura la relazione tra libertà umana e necessità naturale.
(3) Nella Terza Critica uomo e natura sono uniti nella dimensione estetica, viene ridotta la rigida «alterità» della natura e la Bellezza appare come «simbolo di moralità». Il problema dell’unione dell’ambito della libertà e dell’ambito della necessità è risolto non dando il predominio alla natura, né piegandola agli scopi dell’uomo, ma assegnandole una finalità ideale «sua propria: una finalità senza fine».
Ma solo la concezione marxiana, che pur conserva l’elemento critico e trascendente dell’idealismo, scopre il terreno materiale e storico su cui conciliare libertà umana e necessità naturale, libertà soggettiva e oggettiva. Ma è una unione che presuppone la liberazione, la prassi rivoluzionaria che abolirà le istituzioni del capitalismo e le sostituirà con istituzioni e rapporti socialisti. In questa transizione l’emancipazione della coscienza deve essere accompagnata dalla emancipazione dei sensi in modo da coinvolgere la totalità dell’esistenza umana. Gli individui stessi devono cambiare i propri istinti e la propria sensibilità se liberamente associati vogliono costruire una società qualitativamente diversa. Ma perché sottolineiamo i bisogni estetici?
IV.
Non è certo incidentalmente о in un attimo di esaltazione che Marx afferma che la formazione del mondo oggettivo «secondo le leggi della bellezza» è un aspetto della libera pratica umana. I caratteri estetici sono essenzialmente non violenti, non dispotici (riprenderò questo tema nel terzo capitolo), ma nel regno delle arti, nella repressiva limitazione del termine «estetico» alla sola «cultura superiore» sublimata, questi caratteri sono separati dalla realtà sociale e dalla pratica in quanto tale. La rivoluzione eliminerebbe questa repressione e recupererebbe i bisogni estetici come forza eversiva in grado di contrastare l’aggressività dominante che ha plasmato l’universo sociale e naturale. Per arrivare alla libertà bisogna saper essere «recettivi», «passivi»: bisogna saper vedere le cose per quel che sono, saper cogliere la gioia in esse racchiusa, l’energia erotica della natura – energia che attende di essere liberata; anche la natura aspetta la rivoluzione! Questa recettività è essa stessa terreno di creatività e si oppone non alla produttività, ma alla produttività distruttiva.
La distruttività è stata il carattere sempre più rilevante della dominazione maschile: poiché il «principio maschile» è stato la forza dominante spirituale e fisica, la società libera ne sarebbe la «negazione determinata», sarebbe cioè una società femminile, ma non nel senso di un qualsiasi matriarcato: l’immagine della donna come madre è essa stessa repressiva; trasforma un fatto biologico in valore etico e culturale a sostegno e giustificazione della sua repressione sociale. Quel che interessa è che l’Eros si imponga all’aggressività, negli uomini come nelle donne: il che significa, in una civiltà dominata dai maschi, «femminilizzazione» del maschio. Ciò sarebbe espressione della radicale trasformazione della struttura istintuale, dell’indebolimento della aggressività primaria che, mediante una combinazione di fattori biologici e sociali, ha retto la cultura patriarcale.
In questo ambito il Women’s Liberation Movement diviene una forza positiva ai fini della trasformazione sociale ma solo nella misura in cui trascende la sfera dei bisogni e delle prestazioni aggressive, l’intera organizzazione sociale e la divisione dei ruoli. In altre parole, il movimento di liberazione della donna assume un vero valore sovvertitore nella misura in cui mira non solo all’eguaglianza nellʼambito del lavoro e della scala di valori della società costituita (che sarebbe eguaglianza nella disumanizzazione), ma a una trasformazione della struttura stessa (ne sono presupposti le istanze fondamentali di eguale trattamento sul lavoro e di affrancamento dal lavoro domestico e familiare a tempo pieno). Nella struttura attuale, né gli uomini né le donne sono liberi, ma la disumanizzazione può essere più grave negli uomini perché essi non sono condizionati solo dalla catena di montaggio e dalla linea di assemblaggio, ma anche dai valori e dall’«etica» del «mondo degli affari».
Eppure la liberazione delle donne sarebbe più radicale perché la repressione che hanno subito è stata costantemente rafforzata dall’uso sociale della loro costituzione biologica: il mettere al mondo figli e l’essere madre sono stati considerati non solo la loro funzione naturale, ma la realizzazione della loro «natura» – e lo stesso è accaduto per l’essere moglie, poiché la riproduzione della specie si verifica nellʼambito della famiglia patriarcale monogama. Al di fuori di questo contesto la donna è ancora prevalentemente considerata oggetto di divertimento о di temporaneo sfogo dell’energia sessuale non consumata nel matrimonio.
Per la teoria marxiana lo sfruttamento sessuale è lo sfruttamento primario, originario, e il Women’s Liberation Movement si batte appunto contro la riduzione della donna a «oggetto sessuale». Ma è difficile vincere la sensazione che anche caratteri repressivi tipici della organizzazione sociale borghese-capitalistica entrino in questa lotta. L’immagine della donna come oggetto sessuale, infatti, e il suo valore di scambio sul mercato svalutano le altre immagini repressive della donna come moglie e come madre, le due immagini che sono state fondamentali nella ideologia borghese di un periodo ormai superato dello sviluppo capitalistico, il periodo in cui nella dinamica dell’economia era ancora imperante lʼ«ascetismo quacquero». L’immagine attuale della donna come oggetto sessuale costituisce una desublimazione della moralità borghese ed è caratteristica di uno «stadio più avanzato» dello sviluppo capitalistico. Anche in questo caso assistiamo all’universalizzarsi della mercificazione che arriva a invadere ambiti in precedenza santificati e protetti. Il corpo (femminile), così come è concepito e plasticamente idealizzato da «Playboy», diviene una merce desiderabile con alto valore di scambio. Disgregazione della moralità borghese, forse, ma cui bono? Certo, questa nuova immagine del corpo promuove le vendite; la bellezza stereotipa è fasulla; ma sono fattori stimolanti di bisogni estetico-sensuali che, sviluppandosi, non possono non diventare incompatibili con il corpo in quanto strumento del lavoro alienato. Anche il corpo maschile è reso oggetto della creazione di immagini sessuali – anche esse plasticizzate e deodorate… «puro» valore di scambio. Dopo la secolarizzazione della religione, dopo la trasformazione dell’etica nella ipocrisia orwelliana, siamo giunti alla «socializzazione» del corpo come oggetto sessuale: è forse uno degli ultimi passi decisivi verso il compimento della società di scambio, compimento che è inizio della fine?
Eppure la pubblicità che ha il corpo come oggetto (attualmente il corpo femminile) è disumanizzante, tanto più che è diretta al maschio dominatore in quanto soggetto aggressivo per il quale la femmina è lì da prendere, da metter sotto. È nella natura dei rapporti sessuali che maschio e femmina siano entrambi contemporaneamente soggetto e oggetto; che in entrambi si fonda l’energia erotica con quella aggressiva. Il surplus di aggressività che è nel maschio deriva dal condizionamento sociale, esattamente come il surplus di passività che è nella donna. Ma al di là dei fattori sociali che determinano l’aggressività maschile e la recettività femminile, esiste un contrasto naturale: è la donna che «incorpora», nel senso letterale del termine, la promessa di pace, di gioia, di fine della violenza. La tenerezza, la recettività, la sensualità sono diventati caratteri (o caratteri mutilati) del suo corpo, della sua umanità (repressa). Certo, questi caratteri femminili possono essere stati determinati dallo sviluppo del capitalismo: è un processo realmente dialettico. La riduzione delle concrete facoltà individuali a forza lavoro astratta ha stabilito una astratta eguaglianza (di fronte alla macchina) tra uomo e donna; ma le donne sono state impiegate meno degli uomini nel processo materiale di produzione e quindi nei loro riguardi il processo di astrazione è stato meno completo. Esse sono state invece pienamente impiegate nella vita domestica, nella famiglia, intesa come ambito di realizzazione dell’individuo borghese, ambito isolato dal processo produttivo il che ha contribuito alla mutilazione della donna. Eppure questo isolamento (separazione) dal mondo del lavoro alienato del capitalismo ha permesso alle donne di sottrarsi in parte alla brutalizzazione del Principio di Prestazione, di restare più vicine alla propria sensibilità, di rimanere più umane dell’uomo. Il fatto che questa immagine (e realtà) della donna sia stata determinata da una società aggressiva e dominata dai maschi non significa che debba essere respinta e che la liberazione della donna debba andare oltre la «natura» femminile. La livellazione di maschi e femmine sarebbe un fatto regressivo, sarebbe una nuova forma di accettazione, da parte della donna, di un principio maschile. Anche in questo caso il processo storico è dialettico: la società patriarcale ha creato una immagine femminile, una controforza femminile che può diventare uno dei suoi affossatori. Anche in questo senso la donna mantiene la promessa di liberazione. È la donna che, nel quadro di Delacroix, reggendo la bandiera della rivoluzione guida il popolo sulle barricate. Non indossa uniforme, ha i seni nudi e il suo bel volto non mostra tracce di violenza. Ma ha in mano un fucile: perché la violenza abbia termine bisogna ancora combattere…
Tratto da Herbert Marcuse, Controrivoluzione e rivolta (traduzione di Silvia Giacomini, Mondadori 1973; prima edizione americana 1973)