di Xenia Chiaramonte
Si può dire, oggi, che una cosa è contro natura, come se ci fosse del semplice e condiviso buon senso a consentire quella che prenderebbe dunque la forma di una pura constatazione. Il buon senso, d’altronde, costituisce una qualità di cui ognuno è dotato, scriveva Cartesio nelle prime battute del suo Metodo, e così chiunque oggi può permettersi di affermare che una cosa è naturale o non lo è, rispetta le inviolabili leggi di natura o le infrange; come a dire che tale o tal altra cosa è consentita da una imprecisata, ma indubbiamente superiore, volontà, oppure la sovverte. Ma da quand’è che alla natura è stato assegnato questo potere venerabile? E, prima, cosa ne era della natura?
Alla prima domanda risponde il secondo saggio de L’istituzione della natura (a cura e con un saggio di M. Spanò, Quodlibet, 2020), a firma di Jacques Chiffoleau, medievista di chiara fama, che ci regala un affresco della storia della natura medievale non privo d’ironia; al secondo quesito risponde il primo saggio, di Yan Thomas, romanista talmente straordinario da smontare, con uno scritto del 1987, basato su una selezione della casuistica romana classica, il moralizzante discorso corrente sulla natura.
L’invito implicito contenuto in questo prezioso libro è: iniziamo col domandarci quale sia la storia della natura, provando a non farci illudere dall’incanto che, per il creato, permeava l’età medievale (arrivando sino a noi); al contrario, è opportuno sostare sulla strumentalità della natura per la nascita di certe istituzioni e forme giuridiche. In tempi fortunatamente inclini a nuove riflessioni nel segno dell’ecologia, vale la pena di riflettere sul legato giuridico e storico in merito al concetto di natura. Questo testo riesce a condurre magistralmente tale complessa operazione, portando una ventata d’aria fresca in un panorama intriso di falsi truismi.
È nella legislazione giustinianea che prendono corpo dei crimini cosiddetti contro natura, innanzitutto omosessualità e incesto. La natura diventa legge morale e universale, costituendo per il diritto un limite esterno, fino a quel momento sconosciuto ai giuristi romani. La natura, creazione divina, cambia radicalmente di segno, assurgendo a Legge.
Dal secolo XI – ci racconta Jacques Chiffoleau – il crimine contro natura si lega all’eresia e alla sodomia. La natura prende forma a partire dal partage fra sessualità opportune e sessualità inadeguate e improduttive. Il discorso sulla natura non avrebbe potuto stabilirsi, se non ci fosse stata una sorta di questione omosessuale a “insorgere” a suo vantaggio – con buona pace di Foucault e dell’ipotetica nascita dell’omosessualità solo con l’800[1]. La natura e i limiti da questa posti hanno contribuito, in modo determinante, a un ordine del discorso “naturale”, che, fra le molte eco sparse per i secoli, giunge sino ai nostri giorni col discorso berlinese di Joseph Ratzinger e il suo richiamo al “linguaggio della natura” come ragione oggettiva, natura naturata da natura naturans.[2]
Inoltre, come sottolinea Chiffoleau, c’è un’altra formazione istituzionale cardinale, cui il discorso sulla natura serve: la sovranità. La natura è dipinta come onnipotente, padrona e signora del mondo, sino alla declinazione che ne offre Alano di Lilla: il crimine contro natura per eccellenza, ossia la sodomia, diviene lesione della maestà della Natura, si potrebbe dire un crimen leasae majestatis Naturae. La congiunzione della maestà con la natura, così posta, appare nuova nei tratti e nelle potenzialità, stabilendo l’innesto fra concezione della natura e forme del potere. E c’è di più: non pare casuale il fatto che, nel medesimo periodo storico, si formi e perfezioni la tecnica inquisitoria, volta a scovare tramite confessioni estorte a suon di indicibili torture, la verità nascosta nell’animo dei malcapitati, eretici, sodomiti, “streghe”… Proprio la “caccia alle streghe, presentata innanzitutto come una difesa della maestà umana e divina” – sottolinea Chiffoleau – “contribuisce in maniera potente, credo, all’istituzione della sovranità moderna” (Chiffoleau, p. 92).
Chiediamoci adesso, allora, che cosa era la natura prima di costituire una soglia invalicabile (quanto opinabile) per la tecnica giuridica? Nel diritto romano pagano la natura certamente esisteva, ma mai essa era concepita in posizione conflittuale rispetto alle opzioni giuridiche, nella veste di fonte del diritto o di norma ultima e vincolante. Solo le leggi e i costumi della città erano, per i romani, fonti del diritto. Ecco che, allora, proprio andando à rebours si può cogliere l’eccezionalità dell’esperienza romana, e si può intuire il senso dello scavo genealogico.
Yan Thomas mostra il farsi della natura attraverso le operazioni concrete della casuistica giurisprudenziale, capace di giungere all’acme di un illusionismo giuridico a oggi senza pari. Il laboratorio giuridico romano è stato così sovversivo rispetto al fatto, da istituire esso stesso, attraverso giochi da mentalisti, la natura stessa, di volta in volta potenziandone gli effetti o annullandone le condizioni, più volte e a più riprese.
Ciò che, sintetizzato così, potrebbe suonare bizzarro o di difficile comprensione, merita di essere chiarito attraverso il ricorso alle procedure giudiziarie che, caso per caso, hanno offerto all’officina romana l’occasione di costruire una raffinata teoria pratica. Yan Thomas è un maestro senza eguali nel non scindere mai l’“empiria” (il caso concreto) dalla teoria (quanto se ne ricavi di generale e astratto), e fornisce esplicitamente questa essenziale indicazione di metodo: “è necessario a questo punto abbandonare le proposizioni troppo generali […]. C’è molto di più da scoprire nelle combinazioni giuridiche al servizio delle quali, nella casuistica, la natura è mobilitata” (Thomas, p. 25).
La casuistica giurisprudenziale dimostra che i giuristi romani intendevano per natura almeno tre cose distinte. Da un lato la natura era indubbiamente il mondo primigenio selvaggio in cui si trovano i beni originari, di cui nessuno si è (ancora) appropriato: le res communes che, nell’età naturale, erano, per l’appunto, comuni a tutti in base all’indivisione primitiva. Nonostante questa apparente visione utopica, il diritto mostra di istituire la natura facendole compiere una serie di operazioni squisitamente tecniche: la stessa natura è titolo d’acquisto, cagione di annullamento, interruzione o trasmissione di beni. In modo apparentemente paradossale, la natura pare fornire il titolo più forte, perché originario, e quello più debole, in quanto la natura è sempre prescrittibile. Quasi a sottolinearne l’agency, per i giuristi romani la natura dà quel che potrebbe anche riprendersi un giorno o l’altro, escludendo dal godimento il legittimo proprietario e tornando res nullius, bene di tutti e di nessuno.
Infatti, la natura può anche costituire una sorta di condizione ripristinata. E, soprattutto, la natura costituisce un riferimento di cui il diritto si serve per estendere i rapporti giuridici. Un trittico di casi per tutti: in natura ognuno è libero, la schiavitù non ha luogo. Ma una volta che, non per natura, bensì attraverso il diritto, si è istituita la schiavitù, con essa è stata anche istituita la manumissio. In altre parole, così come viene abolita la libertà naturale, viene al contempo costruito l’istituto giuridico della manomissione che consente una parziale libertà.
Per il prigioniero di guerra non vale lo stesso: egli riguadagnerebbe, differentemente dal liberto, la libertà originaria, in quanto la aveva posseduta; ciò non vale per lo schiavo, che invece non ne godeva ab origine.
E se si volesse garantire, mediante una procedura giudiziaria, la libertà originaria allo schiavo, ossia a colui che, per status, non potrebbe mai goderne? Qui si coglie ancora meglio come la natura non costituisca affatto un limite esterno, anzi al contrario, sia lo strumento di un gioco di prestigio: in ogni restituzione dei diritti “occorre ammettere grazie a una finzione che l’atto giuridico concluso da parte dell’incapace sia non esistente: per cancellarne retroattivamente gli effetti, il magistrato restaura la situazione anteriore all’atto. Analogamente la restitutio in natalibus […] lascia supporre che la natura servile non abbia avuto luogo. L’ingenuità del soggetto è presunta perché necessaria all’azione riparatrice della procedura” (Thomas, p. 38). La libertà che la natura offrirebbe a tutti diventa, così, il frutto di un artificio modellato dall’arte giuridica, la quale non fa che prendersi gioco della realtà “naturale” proprio mentre la istituisce attraverso finzioni di finzioni.
Come sappiamo, però, a un certo punto la natura diventa una limitazione per il diritto, una realtà esterna che le istituzioni e le forme giuridiche sono chiamate a rispettare. E questa considerazione dovrebbe ricordare, per analogia, certe posizioni odierne sia di matrice ecologista che giuridica, secondo le quali la natura è una sorta di Eden intoccabile, che necessiterebbe di una severa protezione. Il fatto è che, per usare le parole di Donna Haraway, there is no garden and never has been. Il discorso sulla natura è un discorso avvelenato, e, per sua stessa “natura”, un nostro discorso. Invocare la natura, oltre che terribilmente insidioso, rischia di suonare ingenuo, quando non reazionario. Statuire delle nette dicotomie a partire da ciò che è “naturale” ancor peggio.
Cultura e natura, soggetti e oggetti, persone e cose: noi immaginiamo un mondo di binarismi che non esistono. Ciò che rimane profondamente impensato è la relazione, l’ibrido, che il diritto non riesce a cogliere, fondato com’è sull’individuale. Su questo si sofferma Michele Spanò, curatore del testo e autore del prezioso saggio che tira le fila dei due che lo precedono, proponendo una innovativa terzietà: le azioni. Le procedure, le azioni collettive, sono il terreno di intersezione fra diritti e interessi, banco di prova per diritti soggettivi, del tutto inservibili alla causa della natura, e potenziale terreno fertile per assemblaggi di cose e persone, diretti destinatari entrambi dei danni ecologici. Il suggerimento è fecondo: al posto della vetusta soggettività, implicita nei “diritti della natura”, non dovremmo, forse, ripartire dalla tecnica?
[1] Sul punto Eva Cantarella ha scritto un saggio insuperato: Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico (1988), Feltrinelli, Milano 2016.
[2] Sulla questione si sofferma Natalino Irti, L’uso giuridico della natura, Laterza, Roma-Bari 2013.
Stabilire che esiste una natura non dico intoccabile, ma quanto meno non riducibile a oggetto manipolabile, perché è una sorta di “Altro”, un tu, un soggetto, un luogo di forze persino misteriose (anche solo nel senso laico di ignote, di cui ci sfuggono tutte le connessioni), potrebbe essere una avvedutissima costruzione filosofica e giuridica di cui nei nostri giorni abbiamo urgentissimo bisogno: una natura istituita, al banalissimo, materialissimo scopo di impedire il definitivo tracollo dell’equilibrio tra noi, specie umana, e l’ecosistema. (Si veda il bellissimo saggio di Ghosh, La grande cecità).
Invece mi pare che ostinarsi in questo decostruzionismo radicale che sospetta ancora e sempre “reazionarietà” in chi invoca “il giardino”, sia da un lato un gesto di arroganza epistemica, dall’altro, dal coté politico, sia un ottimo modo per suonare il piffero a chi di quell’equilibrio ecologico continua a farsi un baffo a tortiglione.
Almeno a me, ingenuo e reazionario, pare, ma parli chi di me è più competente.
NATURA, TECNICA, CIVILTÀ: QUALE “SUGGERIMENTO E’ FECONDO”? La mossa di Kant spiazza tutti… *
A). NO GARDEN: “[…] per usare le parole di Donna Haraway, there is no garden and never has been. Il discorso sulla natura è un discorso avvelenato, e, per sua stessa “natura”, un nostro discorso. Invocare la natura, oltre che terribilmente insidioso, rischia di suonare ingenuo, quando non reazionario. Statuire delle nette dicotomie a partire da ciò che è “naturale” ancor peggio […] Cultura e natura, soggetti e oggetti, persone e cose: noi immaginiamo un mondo di binarismi che non esistono. Ciò che rimane profondamente impensato è la relazione, l’ibrido, che il diritto non riesce a cogliere, fondato com’è sull’individuale. Su questo si sofferma Michele Spanò, curatore del testo e autore del prezioso saggio che tira le fila dei due che lo precedono, proponendo una innovativa terzietà: le azioni. Le procedure, le azioni collettive, sono il terreno di intersezione fra diritti e interessi, banco di prova per diritti soggettivi, del tutto inservibili alla causa della natura, e potenziale terreno fertile per assemblaggi di cose e persone, diretti destinatari entrambi dei danni ecologici. Il suggerimento è fecondo: al posto della vetusta soggettività, implicita nei “diritti della natura”, non dovremmo, forse, ripartire dalla tecnica?” ( cfr. Xenia Chiaramonte, “Fare la natura con le parole del diritto. Note su “L’istituzione della natura” di Y. Thomas e J. Chiffoleau” – sopra);
B). NO PARTY (“LO STERMINATOR VESEVO”): “[…] I più grandi pensatori pessimisti sono spesso portatori di una speranza utopica. È così per Leopardi (e per Machiavelli). Farla finita con la retorica dell’“usciremo migliori”, del “tutto andrà a finire bene” (che sembra presa di peso da un film americano di avventure), considerare che la tendenza all’egoismo e alla violenza fa parte della natura animale dell’uomo e nello stesso tempo impegnarsi perché quella alla solidarietà (insita, insieme alla spinta alla sopraffazione, in alcune specie animali, compresa quella umana) prevalga sulle pulsioni di morte, questo ci insegna Leopardi. Quando il fondamento della civiltà è in discussione, è il momento di tornare alle ragioni del patto sociale e al “pensiero” di cui La Ginestra ci parla ” (cfr. Romano Luperini, “Natura e civiltà: Leopardi e il corona virus “, La letteratura e noi, 27 luglio 2020: https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/il-presente-e-noi/1232-natura-e-civilt%C3%A0-leopardi-e-il-corona-virus-2.html);
C). “GENIO MALIGNO”, “RAGION PURA”, E “RIVOLUZIONE COPERNICANA”: “Con l’interpretazione de “i sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” (1766), Kant traccia le linee epistemologiche del suo programma di ricerca: egli ha trovato la sua “bilancia” e, come già il Galilei del “Saggiatore”, comincia a usarla ! Non a caso, l’atmosfera che traspare – nel breve testo (un vero e proprio ‘discorso sul metodo’ del lavoro critico da portare avanti) – è quello delle grandi occasioni storiche. Fin dall’inizio (“Parte prima dogmatica. Capitolo 1. Un intricato nodo metafisico che si può a piacere sciogliere o tagliare”), egli mostra di essere ben consapevole di quale sia la posta in gioco, a quali reazioni va incontro (considerate le idee dominanti dell’epoca – sul piano metafisico, teologico-politico, e scientifico), e di quanto dura e lunga sarà la lotta.
L’attacco ai “grandi sapienti” è fortissimo e richiama la lezione di Galilei e del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (quarta giornata) : “Le chiacchiere metodiche delle alte scuole sono spesso soltanto un accordo per sfuggire con parole ambigue ad una domanda difficile a risolversi, perché il comodo e il più delle volte ragionevole “non so” non si ode facilmente nelle accademie” (I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, p. 102). Quasi a dire, leggere bene – con attenzione : qui la questione non è più e solo astronomica, è metafisica in senso stretto e i due sistemi del mondo di cui si parla non sono più il “tolemaico” e il “copernicano”, ma il materialismo e il dogmatismo (l’idealismo e lo spiritualismo). La mossa di Kant spiazza tutti […]” (cfr. Note per una rilettura di “I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4834).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr.: Federico La Sala, “Kant, Freud, e la banalità del male” (https://www.academia.edu/12356078/KANT_FREUD_E_LA_BANALITA_DEL_MALE).
Federico La Sala
sugli spunti cui si accenna qui, suggerisco la lettura della recensione di F. Cimatti all’ultimo Lovelock su Fata Morgana: https://www.fatamorganaweb.it/index.php/2020/07/27/novacene-di-james-lovelock/