di Francesco Ottonello
[LPLC va in vacanza dal 2 al 22 agosto. In questo periodo ripubblicheremo alcuni dei post apparsi nel corso del 2020. Questa intervista ad Antonella Anedda di Francesco Ottonello è uscita il 24 gennaio].
La scorsa primavera incontro Antonella Anedda per la prima volta a Roma, ma solo con la fine dell’estate mi azzardo a scriverle, con la proposta di un’intervista peculiare intorno a tre nuclei: il sardo, il latino, l’arte di Maria Lai. È d’accordo. Dopo esserci ritrovati di sfuggita a Milano, stabiliamo data e luogo in cui tentare il dialogo. Ci vediamo un sabato di ottobre a Legnano, in occasione del conferimento del premio Tirinnanzi alla carriera. Dopo la cerimonia, brancolo insieme a lei alla ricerca di un spazio che accolga il silenzio. Alla fine, ci indicheranno là dove restano accatastati, in riposo, i vestiti. Straniti, ma forse in fondo un po’ divertiti, scostando le tende, entriamo: uno sgabuzzino sarò il nostro luogo, il tempo per una tregua.
Francesco Ottonello: La ricerca di una lingua, anonima o sconosciuta, «una limba mia in impastu a su passado», attraverso la quale ritrovare il proprio nome e magari quello degli altri, strapparlo alla dimensione di ciò che è vinto, perduto, mi è sembrata una costante sottesa in tutti i tuoi libri. Sinceramente, mi colpisce il potere che emana la tua poesia, quello di calibrare il silenzio. Mi verrebbe da dire che la tua è una poesia del “riguardo”, che nasce da un paziente ascolto, osservazione e rispetto.
La sezione Limba di Dal balcone del corpo (2007) credo rappresenti il primo nucleo di testi in sardo, che chiami «Limba-matre» e «Fiza-limba» (lingua-madre e figlia-lingua). Si legge in nota che è legata al dolore e nel libro in prosa Isolatria (2013) si parla della domestica Micheledda, colei che ti ha trasmesso sa limba… dunque, la scelta di utilizzare il sardo (un sardo molto peculiare), confermata e ancora più viva nell’ultimo libro Historiae (2018), può avere a che fare con questo? È la ricerca di una lingua perduta? È nostalgia di qualcosa, tensione verso qualcosa legato al dileguo?
Antonella Anedda: Allora, sono stati toccati molti temi e, forse sì, c’è una tensione verso una lingua di volta in volta da costruire, da perlustrare (un verbo che mi piace molto). È come se sentissi l’esigenza di perlustrare un italiano in cui hanno sempre rintoccato altri suoni. Dopo una perdita, quando ho scritto per la prima volta questo sardo che intreccia molte suggestioni e linguaggi, era perché cercavo, sperimentavo qualcosa. Allo stesso tempo mi sono accorta del perché di alcune scelte in italiano: la passione per le consonanti, una certa reticenza nei confronti di suoni troppo armoniosi, la ricerca di un’altra musica, una musica diversa.
Poi mi ha colpito quello che hai detto sul riguardare, un verbo che apre molte prospettive: si sta riguardati dopo una malattia, ma si riguarda e si osserva di nuovo, c’è un riguardo nei confronti di qualcosa, di qualcuno. Insomma, è un termine che mi è familiare in questa sua apertura. Collegandomi all’incipit del mio ultimo libro, “pensare, inventare una lingua mia” è la ricerca di un particolare silenzio, che per quanto mi riguarda non ha nulla di mistico. È il silenzio che ogni sardo conosce, legato al silenzio reale, concreto, che c’è nell’isola, nell’interno della Sardegna soprattutto. Quindi la ricerca è anche riuscire a percepire, attraverso questo tipo di silenzio, gli schiocchi, i rumori, non solo quelli legati alla campagna, ma anche quelli cittadini. Ho un orecchio così attento al silenzio da riuscire ad amare qualsiasi rumore, anche il rumore della macchina dell’immondizia (raramente passa a Roma, eh). È come se questa abitudine al silenzio, che forse è nel DNA, mi rendesse consapevole di moltissimi rumori, mi spingesse ad amare questi rumori.
Francesco Ottonello: Soffermandoci ancora sul sardo, più tecnicamente, tra le due varietà, campidanese e logudorese, mi pare la tua lingua sia a base logudorese (con una forte influenza nuorese), seppure a tratti troviamo varianti in campidanese e anche gallurese maddalenino, ad esempio nell’oscillazione tra articolo determinativo sa in sardo e la in gallurese/maddalenino. È un utilizzo davvero peculiare del sardo, una lingua per certi aspetti artefatta, per altri impura.
Quindi, da dove nasce questa lingua? O meglio, al di là di Micheledda, ha dei modelli provenienti dalla poesia sarda? Ho pensato anche a una vicinanza tematica – per l’attenzione ai vinti, al popolo sardo come popolo conquistato, vittima di soprusi – con l’opera di uno dei maggiori poeti sardi del Novecento, Francesco Masala (Poesia in duas limbas, 1981).
Antonella Anedda: In realtà ho letto molto la poesia sarda, la poesia in limba. Frantziscu Masala (1916-2007) è un poeta che ho letto tantissimo, anche Benvenuto Lobina (1914-1993) è una delle mie letture preferite. Recentemente ho scoperto anche una delle ultime attitatoras, Efisina de Grimenta – l’ultima prefica di Bitti (NU) – la cui poesia in limba è stata tradotta anche in inglese e molto apprezzata. Poi i sardi li ho sempre letti perché li trovavo in casa di mio nonno, anche la Divina Commedia in sardo…
Francesco Ottonello: Avvicinandoci all’ultima silloge, Historiae (Einaudi, 2018), il rapporto con il latino e la letteratura latina, già presente in altri libri, si fa più stretto. Pensando ai riusi del latino, anche nelle IX Ecloghe di Andrea Zanzotto già dal titolo si instaura un richiamo a un’opera della letteratura latina (in quel caso il Virgilio bucolico), in Historiae, invece, il rimando è a un libro di Tacito, citato in tanti testi ed epigrafi. Mi è parso che il riuso sia duplice, da una parte tematico – citi plenum exiliis mare, infecti caedibus scopuli (Hist. I.2) in un testo che parla delle migrazioni nel Mediterraneo – dall’altra linguistico, con un’attenzione al gerundio, a una lingua scabra. Coma mai Tacito, non un poeta?
Antonella Anedda: Posso provare a spiegare. Amo moltissimo Orazio, Ovidio, la letteratura greca (Alcmane, Saffo, Simonide), ma Tacito nella sua freddezza è uno dei pochi che dice noi, ammette noi Romani abbiamo fatto un deserto e l’abbiamo chiamato pace. Penso anche ad affermazioni come la “storia è un ininterrotto massacro”, ripresa da Séamus Heaney nel suo discorso per il Nobel (1995). Insomma, Tacito ha un’onestà, non finge di essere quello che non è. Nonostante abbia anche lui dei difetti, eppure ha una lingua all’interno della quale questo sapere mostra i difetti della specie umana. Questa consapevolezza è molto forte attraverso la lingua, attraverso questa sua concisione. Non si abbandona mai a un qualcosa che mi sembra di dovere evitare, cioè l’assunzione del ruolo delle vittime. Noi viviamo in questo Occidente, noi non siamo le vittime. Dobbiamo trovare una modalità per parlare di tutto questo che non sia la retorica. Ecco, Tacito non è retorico. Poi quell’epigrafe, “gli scogli coperti di sangue…”, mi sembrava che parlasse del presente più di altri testi.
Francesco Ottonello: In qualche modo potremmo pensare a una tessitura tra l’utilizzo del sardo e il riuso del latino? In una poesia di Historiae si parla, ad esempio, di “macchina” che ritorna machina, un fascino per l’arcaico, non in senso mistico, per l’etimo. Nella poesia Contra Scaurum, di Dal balcone del corpo (2007), in cui c’è un riuso di Cicerone, parli di una lingua sarda di corbezzolo, cardo e sale (limba ’e lidone, gardu et sale). Una lingua cruda. Penso poi a Notti di pace occidentale (1999), ai versi: perché parlo da un’isola / il cui latino ha tristezza di scimmia…
Antonella Anedda: Esatto, quello lo dice Dante nel De vulgari eloquentia. Si, c’è una affinità. Adesso mi viene in mente l’uso del gerundio, anche in sardo: “andando stiamo”. Quindi andando e tornando tra la lingue, alcuni testi sono passati dall’italiano al sardo, o viceversa. Mi sono accorta che il sardo è più conciso, così come la traduzione italiana è più lunga. La stessa cosa succede quando si traduce dall’inglese, infatti queste poesie in sardo vengono molto bene in inglese.
Francesco Ottonello: Per finire, vorrei toccare un ultimo argomento, a proposito di tessitura e Maria Lai. Non a caso, Cucire è anche il titolo di una sezione di Salva con nome (2012) e come tema ricorre in tutta la tua opera. Qualche mese fa è stata dedicata all’artista sarda una grande retrospettiva al MAXXI di Roma. Ho sempre pensato a una connessione, a degli elementi di Maria Lai che tornano in Anedda: respiro, ritmo, sguardo, ascolto, silenzio… e poi leggendo il catalogo della mostra, ecco che trovo un tuo articolo, non ci credevo. Lì scrivi che «l’arte non è “sensibilità”», ma «architettura, confronto con i volumi e il legno, la pietra, il filo» e ancora: «l’arte non è sentimento, così come la poesia non è il poetico». Questo può valere anche per la tua opera, cosa significa che la poesia non è il poetico?
Antonella Anedda: La poesia non è il poetico nel senso che non è lo scimmiottamento della poesia. C’è una frase molto bella che dice Bertolt Brecht ai suoi attori che gli chiedono come devono recitare. Lui risponde “non così, ma così”. Il rapporto tra poesia e poetico è “non così, ma così”. La poesia è ma così, è in quel ma, in quel frammento.
Maria Lai, tra l’altro, è stata ispiratrice di una strana cosa che ho fatto e ho esposto con dei giovani artisti sardi al Macro di Roma. Era un periodo in cui pensavo a un’antologia che non è mai uscita. E ho pensato faccio io un’antologia sull’esempio di Maria Lai, così ho un po’ incollato e un po’ cucito su un grande lenzuolo della mia bisnonna foto sia personali sia di una famiglia finlandese. Ho mischiato i nomi, i luoghi, ho cucito delle foglie. Io faccio il mezzo punto, ho ricamato delle lettere, ho stampato delle frasi da alcune poesie e ho fatto questo grande lenzuolo che ho appeso nell’ex mattatoio, e in un angolo c’ero io che cucivo. Un omaggio a Maria Lai.
Francesco Ottonello: Che bello, non sapevo sapessi cucire… e ora lo hai ancora, lo tieni a casa?
Antonella Anedda: Sì, ora ho questo grande lenzuolo e lo tengo a casa, arrotolato.
Francesco Ottonello: Prima di salutarci, mi viene in mente il racconto della Lai su Maria Pietra, ripreso da Salvatore Cambosu (1895-1962), la paura che si lega all’elemento della pietra. Cosa significa paura, non essere protetti? In che modo interagiscono, se lo fanno, paura e poesia?
Antonella Anedda: Sono legate. Una poetessa che ammiro molto, Elizabeth Bishop dice che la poesia è un panico controllato. La paura entra nella poesia perché entra nella vita, è un dato della nostra specie. Paura, protezione… il fare della poesia. La poesia non credo salvi o consoli, però può stare accanto a questa paura.
[Immagine: Maria Lai, Senza titolo, 1991 (particolare)].