di Stefano Jossa
[LPLC va in vacanza dal 2 al 22 agosto. In questo periodo ripubblicheremo alcuni dei post apparsi nel corso del 2020. Questo articolo di Stefano Jossa è uscito il 13 gennaio].
Fare un film su Pinocchio è un po’ come fare l’allenatore della nazionale di calcio in Italia: ognuno ha da dire la sua, sei sotto i riflettori e devi vincere subito. Una bella sfida, quella di Garrone, che rischia di concludersi come quelle recenti di Prandelli e Ventura: si può essere all’altezza di qualcosa che si pone come ideale nell’immaginario collettivo, sia esso un dream team o un classico letterario?
Sopraffatto dalla quantità dei modelli con cui confrontarsi (da Disney fino a Comencini e Benigni), cui deve ciascuno qualcosa, Garrone sceglie di fare il “suo” Pinocchio: un Pinocchio filologicamente ricostruito, storicamente e geograficamente determinato, fedele a Collodi, nel tentativo di evitare invadenze autoriali e dipendenze interpretative. Un Pinocchio quanto più ottocentesco e toscano possibile, a cominciare dall’ambientazione nel borgo La Fratta, un incontaminato frammento residuo di Medioevo nella Valdichiana senese, e dall’interprete di Geppetto, il supertoscano Roberto Benigni, nato a Castiglion Fiorentino in provincia di Arezzo e cresciuto a Prato nella frazione di Vergaio. La scelta di Benigni come interprete del “papà” di Pinocchio (al posto dell’annunciato Toni Servillo) è di per sé un segnale di continuità e differenziazione, perché è insieme un omaggio e una deviazione rispetto al più recente e famoso predecessore (“rimesso a posto”, per così dire, visto che non è più un cinquantenne interprete di un burattino-bambino sempre di corsa, ma un quasi settantenne falegname-babbo poverissimo, posato e affettuoso: scelta filologicamente ineccepibile anche questa).
Il film comincia proprio con Geppetto immerso nella vita quotidiana del paese di campagna, alla disperata ricerca di cibo, nel nome di quella fame atavica che è una delle caratteristiche dominanti del libro di Collodi: scena che nel libro non c’è, tuttavia, dando inizio a quella serie di tradimenti che sono necessari in ogni rifacimento o trasposizione. Tradimenti che di solito costituiscono infatti l’identità dell’opera di secondo grado, rivelandone non tanto il livello di fedeltà o infedeltà, ma proprio le scelte autoriali e interpretative. Il primo grande tradimento è l’assenza del litigio tra Geppetto e maestro Ciliegia, provocato da quel pezzo di legno munito di voce che è all’origine di tutto: assenza che rivela una programmatica rinuncia all’umorismo di Collodi, al suo toscanismo linguistico ed espressivo, che vien subito sfidato dalla presenza di un saltinbanco che annuncia in dialetto napoletano l’arrivo del teatro dei burattini. Collodi si perde, e con lui la filologia, perché il quadro sociale conta di più del testo originale, per Garrone. Si perde, in tal modo, un elemento fondamentale del fascino del libro per tanti bambini e adulti: lo sguardo di sbieco, che rende tutto sfumato, ambiguo, ambivalente e aperto.
Dalle mani sapienti di Geppetto uscirà fuori una marionetta, coerentemente col titolo originale del libro, che era solo La storia di un burattino in prima istanza. Marionetta tanto più legnosa e meccanica quanto più destituita di umanità ed espressione, grazie a un’efficacissima maschera che rende il bambino che interpreta Pinocchio (Federico Ielapi) praticamente impossibilitato a manifestare qualsiasi sentimento, dallo stupore alla paura, attraverso la faccialità. Nel tentativo di rendere realisticamente questa marionetta che si muove senza fili ogni passo di Pinocchio sarà d’ora in poi accompagnato da un clangore ligneo che scandisce la narrazione all’insegna della continuità. Bellissimo il risultato scenico, ma il prezzo da pagare è alto, perché Pinocchio, che nel libro è sempre, simultaneamente e misteriosamente, sia burattino sia bambino, qui sarà fino quasi alla fine solo marionetta – e poi solo bambino.
Agíto più che protagonista delle sue avventure, Pinocchio si reca al teatro dei burattini, incontra il gatto e la volpe, viene impiccato alla grande quercia e salvato dalla fata turchina in una serie di vicende senza dramma, dal ritmo lentissimo e dalla fotografia sontuosa, che si limitano a confermare le aspettative dello spettatore, con Gigi Proietti costipato nel ruolo di un Mangiafoco fin troppo sentimentale e Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, la volpe e il gatto, costretti a un forse inevitabile, ma certamente pedissequo omaggio a Ciccio Ingrassia e Franco Franchi nei ruoli corrispondenti dello sceneggiato di Comencini. Fin dalle magnifiche marionette di legno del teatrino è comunque chiaro che Garrone punta tutto sulla qualità della resa iperrealistica, tra suggestione grottesca e tensione horror, che culmina più tardi nella grandiosa apparizione del pescecane/balena (insieme ai veramente mostruosi grillo e tonno parlante, meravigliosamente interpretati da Davide Marotta e Maurizio Lombardi).
La doppia fatina dall’aura disincantata (da bambina: Alida Baldari Calabria), e materna (da adulta: Marine Vacth) è forse la scelta più felice del film, con la scena della crescita del naso che resterà certamente memorabile. L’omaggio a Collodi finisce tuttavia qui, perché della seconda parte del libro (quella che a partire dal capitolo XVI segna l’inesorabile anfibologia di Pinocchio, uno e bino, come lo definì il grande Emilio Garroni nell’ormai lontano 1975, quando il suo quasi omonimo regista era ancora un bambino) resta ben poco, ridotta alla vicenda scolastica (con maestro antideamicisiano), al paese dei balocchi (con omino disneyano) e alla storia della balena (con tocco alla Dario Argento). Mancano, insomma, “le avventure di Pinocchio”, quello che in effetti è il titolo, troppo spesso dimenticato, del romanzo di Collodi: la cattura da parte del contadino e la sostituzione del cane, l’isola delle api industriose, la lotta coi compagni di classe e il secondo arresto, il pescatore verde e la frittura in padella, il ciuchino destinato a far da pelle di tamburo. A Garrone interessa ormai solo puntare dritto verso la fine, con l’educazione e la trasformazione del burattino – che puntualmente avviene, ma senza quella scoperta della vita che portava Andrea Balestri, nello sceneggiato di Comencini, a una splendida pipì sotto, improvvisa e sorprendentemente soddisfacente, quella sì grande tocco d’autore.
Di vitale, magico e umoristico questo Pinocchio purtroppo non ha quasi niente: come se gli ultimi cinquant’anni d’interpretazione del libro non fossero esistiti. Dietro questo Pinocchio si scorge ancora una volta l’umile Italia contadina di fine Ottocento, preda della povertà eppure piena di buoni sentimenti, che già Pietro Pancrazi, in un saggio del 1921, additava come la grande forza, letteraria e morale, del romanzo collodiano: “Dietro Pinocchio – io vedo i ragazzi di un tempo. […] Non ridete; ma dietro Pinocchio io rivedo la piccola Italia onesta di Re Umberto”, scriveva Pancrazi in un tempo in cui Pinocchio era a rischio di cominciare a vestire la camicia nera, come ha ricordato in un bel libro di qualche anno fa Luciano Curreri.
Iperrealistico, macchinoso, nostalgico, statico e orrorifico, con rari guizzi tragicomici (la scena col gatto e la volpe all’osteria, il responso medico del corvo e la civetta, la trasformazione in ciuchino) questo Pinocchio beneficia di una fotografia capace di catturare luci e colori di un paesaggio meraviglioso (di Nicolaj Brüel, già collaboratore di Dogman) e di un make up in grado di combinare senza fratture umanità e animalità (di Mark Coulier, il truccatore di Harry Potter, due volte premio Oscar, per The Iron Lady, 2012, e Grand Budapest Hotel, 2015), ma tradisce in fondo la sua stessa aspirazione di restituire Pinocchio a Collodi: un film tratto da un libro può, forse deve, essere letto in autonomia dal libro, ma non quando del libro vuole essere la resa cinematografica anziché una rivisitazione in soggettiva. Può un film tratto da un libro, del resto, ignorare la storia del libro e delle sue interpretazioni fino a noi, saltando all’indietro nel tempo senza fare i conti con la contemporaneità? Pinocchio al cinema può oggi essere forse solo un Pinocchio plurale, che sia consapevole della sua origine, ma anche della distanza e delle metamorfosi che da quella origine ci separano: un commento a Pinocchio, secondo l’esempio di Luigi Compagnone, o un libro parallelo, seguendo il modello ideato da Giorgio Manganelli (attraversando, magari, Ferdinand Guillaume, il primo Pinocchio al cinema, Carmelo Bene, puer aeternus per il teatro, la radio e la tv, Stanley Kubrick e Steven Spielberg, che ne hanno voluto “a picaresque robot version”, nonché le innumerevoli varianti musical, animate e anime). La filologia a questo serve: non a restituire il testo originale, ma a rendere conto del percorso che l’ha portato fino a noi.
Idealizzando, Garrone ha rinunciato a quell’umanità che secondo Benedetto Croce era la caratteristica fondamentale di quel pezzo di legno che dà vita al romanzo: come le nazionali senz’anima e senza carattere degli ultimi mondiali, il suo film passa alla storia più come occasione mancata che per i risultati, o almeno la simpatia.